Mauro Mantovani
(NPG 1999-08-13)
Questioni di bellezza
«Se è vero che la bellezza salverà il mondo, credo che tu non abbia molte chances di renderti utile!». Questa l’espressione di un giovane, studente di filosofia, durante un diverbio con una «ex», dopo essere stato richiesto di darle motivo della preferenza accordata ad una «nuova fiamma». Originalmente tragicomica la sua ripresa esistenziale della nota espressione «la bellezza salverà il mondo» di F. Dostoevskij.[1]
Cos’è il bello? Quale il rapporto tra i giovani e il bello? È percorribile, soprattutto dai giovani, una via «estetica» alla fede, magari proprio come possibile «percorso preferenziale» adatto principalmente a loro? Se «la bellezza salverà il mondo», sarà essa a salvare i giovani e ad aprirli alla fede?
Il tema è estremamente impegnativo e certamente non risolvibile in poche battute: ci limitiamo a offrire qui alcuni spunti di riflessione, utili per un ulteriore confronto. Certo l’argomento del bello è uno dei più delicati, proprio perché in esso vengono a contatto in modo tutto particolare l’oggettivo e il soggettivo.
È indubbio, infatti, che sia l’arte che la natura evidenziano la loro bellezza, tuttavia questa «è interpretata in ragione di codici – ovvero di sistemi di regole – che ‘soggettivamente’ l’uomo acquisisce e matura attraverso un processo di etero- e autoformazione».[2]
Quando ci chiediamo quali siano questi codici interpretativi, anche per la bellezza, all’interno della nostra società che vive i passaggi modernità-postmodernità e forse già post-postmodernità, il discorso diventa complesso. Soprattutto i giovani, cittadini di una società complessa (ossia di un universo sociale e culturale che è ormai divenuto «pluriverso») ed eccentrica (H. Sedlmayr), senza un centro, priva di «un’arca dell’alleanza» o «una tenda sacra» (M. Novak), risentono in modo particolare del fatto che quel patrimonio di convinzioni condivise e di valori profondamente umani e cristiani che hanno costituito la spina dorsale almeno della civiltà occidentale pare siano in fase di sgretolamento, se non già definitivamente sgretolati.
M. Weber ha parlato della nostra società come di una realtà politeistica, che ha molti (troppi) dèi e verità, e quindi alla fine nessuno: essa tende, per la sua stessa configurazione, a moltiplicare e differenziare indefinitamente le proposte di valore, a mettere tutto sullo stesso piano, a rendere sfuggenti, relativi, soggettivi i contenuti; dubbi e precari i riferimenti, sia a livello privato che pubblico.
Tutto ciò si ripercuote e condiziona anche la concezione di ciò che è bello, la creazione e coltivazione di una sensibilità critica e di un gusto estetico, specie per chi sta vivendo una stagione della vita plasmabile e aperta a quella opera di educazione e formazione personale (Bildung) che prosegue, in ambito culturale, l’opera della natura. Questi riferimenti non possono restare indifferenti a tutti coloro che si occupano, a vario titolo, di pastorale giovanile.[3]
Cifra del mistero
Nella voce «Bello» del Dizionario di filosofia, Maurizio Ferraris scrive: «Si possono distinguere cinque concetti fondamentali del bello, difesi e illustrati sia dentro che fuori l’estetica e cioè: a) manifestazione del bene; b) manifestazione del vero; c) simmetria; d) perfezione sensibile; e) perfezione espressiva».[4]
Risulta evidente, anche solo da questa titolatura, come le questioni fondamentali dell’estetica tocchino il rapporto tra bello, buono, vero, armonia, gusto.
Agostino, richiamando l’idea di bello, rievocava l’equilibrio tra le diverse parti, attraverso il quale un insieme diventa appunto «unità».
Ancora nel nostro secolo vi sono stati pensatori che hanno considerato il bello, certamente nei suoi diversi gradi, come una proprietà di ciò che esiste (una proprietà trascendentale dell’essere, quindi oggettiva): Rosmini, per esempio, inserisce esplicitamente il pulchrum tra i trascendentali dell’essere, costruendo un’autentica dottrina del bello, che egli chiama callologia, direttamente collegata al discorso metafisico. Maritain a sua volta ritiene che il pulchrum sia «lo splendore di tutti i trascendentali riuniti».[5]
Il clima «antimetafisico» che ha contraddistinto molti pensatori di quest’ultimo scorcio del ‘900 ha portato invece a considerare il problema del bello, riconosciuto universalmente presente in ogni cultura, su una fondazione più di carattere regolativo, consensuale. Emblematica l’espressione di Richard Rorty, che in La filosofia e lo specchio della materia (1979) scrive: «Questo insegna l’arte: [...] i significati e i valori di cui è intessuta la vita dell’uomo vengono attinti in una dimensione che è al di là del vero e del falso.
Meglio, in una dimensione dove la nozione di verità come corrispondenza (corrispondenza dell’enunciato alla realtà cui si riferisce) appare insufficiente».[6]
La questione posta qui, che può forse apparire troppo lontana dalle «urgenze» di educazione estetica, è tuttavia, a nostro avviso, determinante anche per le principali scelte educative.
Non è indifferente, anzi è fondamentale, dirimere la questione se una realtà è da considerarsi bella perché è, in qualche modo, bella in se stessa o invece perché è convenzionalmente riconosciuta come tale o in riferimento solo a propri criteri soggettivi e dunque relativi. Questo è effettivamente il problema che attualmente attraversa la filosofia dell’arte.[7]
Anche la possibilità dell’itinerario verso Dio-Bellezza è condizionato da questo interrogativo di fondo, che investe la dimensione estetica che è propria di ogni uomo e di tutte le culture: ogni forma autentica d’arte risulta come una via d’accesso alla realtà più profonda dell’uomo e del mondo, e proprio per questo apre all’orizzonte della fede, che si propone come interpretazione compiuta della vicenda umana e cosmica, alla luce della rivelazione divina. Se il bello è riconosciuto come una proprietà trascendentale dell’essere, allora si può affermare, pur evidenziando il fatto che la componente soggettiva ha certamente un grandissimo peso in campo estetico, che comunque la bruttezza in assoluto non esiste e che la bellezza ha dei gradi.
Dio come totalità e pienezza d’essere deve per questo avere, anzi essere, Bellezza senza limiti.
La bellezza, definita come «splendor formae» (splendore della forma), è stata collegata direttamente a Dio «Oceano infinito di bellezza dove lo stupore si fa ammirazione, ebbrezza, indicibile gioia» (Lettera agli Artisti – LaA, n. 16), e in modo specifico alla seconda persona della Trinità, il Figlio, che come ha scritto Tommaso d’Aquino è l’«Arte del Padre».[8] Afferma Giovanni Paolo II: «La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente. È invito a gustare la vita e a sognare il futuro. Per questo la bellezza delle cose create non può appagare, e suscita quell’arcana nostalgia di Dio che un innamorato del bello come sant’Agostino ha saputo interpretare con accenti ineguagliabili: ‘Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato’».[9]
Bellezza, verità, bontà e libertà
Sergio Givone, attuale ordinario di estetica all’Università di Firenze, commentando la nota affermazione di F. Dostoevskij «se dovessi scegliere tra la verità e il Cristo, sceglierei Cristo», frase in cui si consumerebbe la crisi del razionalismo metafisico, così scrive: «Dostoevskij non elimina la verità a favore della fede. [...] Nell’adesione a quella concreta esperienza di fede, egli vede il presupposto per un’apertura a una verità contraddittoria dove tutti gli opposti sono uniti. È un caso, poi, che una tale verità abbia bisogno di essere legata alla bellezza? No di certo, perché è la dimensione estetica quella che comporta che la verità sia infondata, sia sempre altro da sé, sia nello stesso tempo universale e singolare».[10] L’Autore scorge una nuova chance proprio nel cosiddetto smarrimento del nesso essenziale tra verità, bene, libertà e bellezza.[11]
Non possiamo discutere qui a fondo quanto espresso; richiamiamo soltanto il valore del nesso come emerge dalla prospettiva classica, secondo cui, per esempio, bello e buono sono due concetti in rapporto così simbiotico da richiedere addirittura, come avviene con il termine greco kalokagathía (bellezza-bontà), l’uso di una sola parola per esprimerli.
Nella dottrina platonica (cf Fedro e Filebo, per esempio) il tema della bellezza è intimamente legato a quello del bene; Plotino a sua volta investirà proprio l’idea del bene della capacità di fornire la bellezza ad ogni cosa. Anche nella Bibbia, nella traduzione greca dei LXX, si usa il termine bello (kalón) per rendere il termine ebraico (tob) che indica la bontà.
Le prime pagine della Genesi mettono in luce l’inscindibile rapporto tra bellezza ed esistenza: «E Dio vide che tutto quel che aveva fatto era davvero molto bello».
Scrive Giovanni Paolo II: «Il rapporto tra buono e bello suscita riflessioni stimolanti.
La bellezza è in un certo senso l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza» (LaA, n. 3).
Parlando de La speciale vocazione dell’artista il Papa richiama (cf LaA n. 2), pur nella loro distinzione, la connessione tra la disposizione morale e la disposizione artistica dell’uomo, dunque il legame tra buono e bello. Dal punto di vista cristiano, dunque, è pienamente brutto ciò che è depravato: solo il peccato è negazione, «aborto» di quella bellezza «doppiamente gratuita» costituita in noi dall’esistere in quanto creature e ancor più dalla dignità di figli del Padre.
Tali rimaniamo sempre, anche se abbruttiti dal peccato, e nella possibilità, in questa nostra vita terrena, di assumere/ri-assumere la «bellezza originaria» scaturita dalla redenzione operata dal Cristo. Si ricomprende qui il valore fortemente «filosofico» e «teologico» dell’espressione attribuita a S. Domenico Savio: «la morte, ma non peccati».
La bellezza fondamentale è data dal «rimanere» nel suo amore.
«Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo»
È questa una nota espressione del Salmo 45 (v. 3), prefigurazione della sua attribuzione più adeguata: Gesù Cristo. Egli è denominato dalla spiritualità orientale (Enkomia dell’Orthós del Santo e Grande Sabato) come «il Bellissimo di bellezza più di tutti i mortali». Cristo è Bellezza, Bontà, Verità in persona. L’incontro con Lui è rivelazione anche di bellezza: «Facendosi uomo [...] il Figlio di Dio ha introdotto nella storia dell’umanità tutta la ricchezza evangelica della verità e del bene, e con essa ha svelato anche una nuova dimensione della bellezza: il messaggio evangelico ne è colmo fino all’orlo» (LaA n. 5).
Certo la rivelazione in parole e opere che Gesù ha realizzato e manifestato ha dell’inaudito, evidentemente legato al Mistero della sua Persona umano-divina: Egli, Somma-Bellezza, in quanto Figlio eterno del Padre, come afferma la Scrittura letta nella tradizione ecclesiale, in croce «non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, né splendore per provare in lui diletto» (Is 53, 2). La «sapienza della croce» è paradossalmente momento rivelativo di bellezza e bontà, perché Egli è la Verità cui esse ineriscono. L’arte del resto ha sempre mostrato un vincolo misterioso e particolarmente fecondo con il dolore di cui inevitabilmente è intrisa l’esistenza. Il più bello dei figli dell’uomo è stato realmente appeso ad una croce e abbandonato, «uomo dei dolori». Afferma Fides et ratio [FR]: «La sapienza della Croce, dunque, supera ogni limite culturale che le si voglia imporre e obbliga ad aprirsi all’universalità della verità di cui è portatrice» (FR, n. 23). Proprio la predicazione di Cristo crocifisso e risorto è «lo scoglio contro il quale [si] può naufragare, ma oltre il quale [si] può sfociare nell’oceano sconfinato della verità» (cf FR, n. 23). In questo senso si può dire che non è tanto la bellezza che salverà il mondo, quanto Colui che si è fatto brutto per amore, per abbellirci e salvarci.
L’incontro con la Verità che è Cristo mette di fronte al problema del rapporto con la forma di conoscenza che è propria della fede, e che si esplicita in un rapporto, una relazione interpersonale che mostra come la perfezione dell’uomo, e in questo senso «lo splendore della forma» che si realizza in lui, consista non nella sola acquisizione della conoscenza astratta della verità, ma anche in un rapporto vivo di donazione e di fedeltà verso l’altro. Per questo la Chiesa sa di poter glorificare Dio per la «bellezza» della vita dei santi e dei martiri, e proporli per una loro vitale e personale imitazione (cf FR, n. 32). Proprio in Gesù e, per lui, in ogni testimone autentico dell’amore, emerge con la massima chiarezza il pulchritudinis splendor.
Bellezza: una via privilegiata per i giovani?
Ha scritto Luigi Pareyson che «solo l’educazione estetica è in grado di mediare il passaggio dall’uomo fisico all’uomo morale».[12] È o può diventare, per i giovani, anche una mediazione del passaggio all’uomo religioso, al cristiano? Secondo Giovanni Paolo II proprio l’arte, «anche al di là delle sue espressioni più religiose, quando è autentica, ha un’intima affinità con il mondo della fede, sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l’arte continua ad essere un ponte gettato verso l’esperienza religiosa. In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, essa è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le più oscure profondità dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione» (LaA, n. 10). È inoltre innegabile che in tutte le religioni l’arte abbia sempre avuto una parte preponderante (in Italia l’85% dei beni artistici è di carattere religioso) e che tutte le grandi correnti spirituali, non solo cristiane, hanno svolto sempre grandi influssi sull’arte di ogni tempo.
Pensando all’applicazione di quanto sin qui detto alla vita dei giovani, ricordiamo anzitutto che l’arte di ogni tempo è sempre indice privilegiato della cultura di cui è espressione, e che è a partire dall’educazione ad essa che si può percorrere la via della bellezza. Evidenziamo alcuni aspetti a nostro avviso importanti.
* Educare al bello, al dialogo e alla reciprocità.
Un primo spunto fondamentale è suggerito da Giovanni Paolo II: recuperare lo stupore, la meraviglia, l’entusiasmo di fronte alla ricchezza della realtà, a partire dalla propria vita. «Di questo entusiasmo hanno bisogno gli uomini di oggi e di domani per affrontare e superare le sfide cruciali che si annunciano all’orizzonte. Grazie ad esso l’umanità, dopo ogni smarrimento, potrà ancora rialzarsi e riprendere il suo cammino» (LaA n. 16).
Accompagnando il giovane nella formazione di un giudizio estetico si contribuisce poi in modo determinante alla sua crescita integrale: mentre nel giudizio critico è l’intelletto che si adegua alla realtà, nel giudizio estetico ciò avviene insieme con la compartecipazione del sentimento e dell’emotività. Proprio per questo l’arte conserva sempre qualcosa di ineffabile, di soggettivo, proprio perché pur essendo l’intelligenza il nostro strumento di riflessione e di conoscenza, il nostro strumento «fruitivo» è costituito dall’unione dell’intelligenza con il sentimento e l’emotività. A proposito, ha avuto vasta eco l’intervento del card. Danneels a Louvain-la-Neuve nel maggio 1998 dal titolo Il bello guarisce. Quanto egli afferma sulla formazione dei sacerdoti può essere esteso alla formazione in genere e in particolare all’educazione dei giovani.[13]
L’arte, per sua natura, è disinteressata, non ha altri fini, almeno in partenza, se non l’esperienza estetica stessa. Educare all’arte e al bello significa aiutare il passaggio dall’interesse all’inter-esse. Davanti all’opera d’arte si è coinvolti ad entrar-dentro, ad esserne quasi con-creatori: veramente l’esperienza estetica è totalizzante, è un rapporto soggetto-oggetto in cui con l’intelletto e l’emotività si è chiamati ad uscire da se stessi, senza estraniarsi, per arrivare alla contemplazione. Ciò, per il pensiero cristiano, è partecipazione alla stessa abilità creativa di Dio.
Ogni vera educazione al bello è sempre una scuola di libertà, di eticità, di civicità.
La responsabilità di riconoscere e condividere ciò che è bello è un esercizio non facile di dialogo e di rispetto dell’identità e diversità. Temi tra l’altro molto cari all’estetica contemporanea: «L’estetica del secondo novecento, e in particolare la semiotica dell’arte, hanno messo a punto teorie della ‘generazione’ e della ‘ricezione’ del testo estetico in cui sono distinte e salvaguardate l’autonomia critica dell’artista e quella del destinatario fruitore dell’opera. Da entrambi si chiede siano rispettate l’identità e la diversità. Da ciascuno si desidera venga promossa e difesa l’originalità culturale nella ‘scrittura’ o nella ‘lettura’ dell’opera d’arte».[14] Imparare a riconoscere un’opera d’arte come tale, a vivere l’interscambio dei giudizi estetici, a rispettare identità e diversità è scuola di vita.
«Questo mondo nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza, per non cadere nella disperazione. La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione».[15] La comunicazione è un elemento determinante da valorizzare.
Il gusto artistico cresce e si sviluppa in un rapporto intersoggettivo che lo condiziona sempre: non a caso Freud nel Motto di spirito afferma che non si ride e non si piange mai da soli, l’arguzia e il gusto presuppongono sempre il consenso di un’umanità plausibile. Nella reciprocità, proprio la bellezza può essere verifica del vero e del buono, tanto più laddove Cristo stesso è presente tra i suoi, riuniti nel suo nome. Ha scritto recentemente il mimo Alberto Ivern: «Se Gesù è presente in mezzo a coloro che si amano, è Lui che si esprimerà non solo in atti di bontà e di verità ma anche di bellezza. E giacché tutti questi aspetti sono uno in Gesù, anche gli atti di bontà e di verità si andranno ‘abbellendo’, e ogni persona sarà la più bella delle versioni di se stessa».[16]
* «Mostrare che la sensazione non basta»: un cammino di libertà.
Severino Pagani propone una lettura del brano di Lc 19, 1-10 (incontro tra Gesù e Zaccheo) come esemplificativo di un’avventura molto comune ai giovani di oggi: quelli che si risvegliano e si mettono in cammino. Una parabola della fede. La prima tappa di questo cammino viene così individuata: «Il giovane [...] assapora con intensità le percezioni sensibili; si esprime mediante la vista, il tatto, l’odorato, l’udito, il gusto; si sente vivo con i sensi. I colori, gli abbracci, i profumi, la musica, il cibo sono i legami che lo tengono ancorato alla vita. Oggi, in una società ricca di benessere, di immagini e di beni di consumo, un giovane non può partire che da qui. Infatti, la nostra cultura pone su questi elementi strutturali della comunicazione il suo massimo impegno. È difficile non incontrarsi con questo regno delle sensazioni, con questo mondo estetico, con questa capacità e propensione a percepire, a sentire. Da qui inizia l’esercizio dell’intelligenza, non da altrove».[17]
Molto saggiamente l’Autore rivela che «il passaggio difficile di una spiritualità giovanile sarà quello di mostrare che la sensazione da sola, quando tenta di varcare il suo limite, conduce alla morte»:[18] è questo un punto fondamentale. Si tratterà allora di educare sì partendo da questi elementi, ma sapendo orientare gli sforzi sulla acquisizione di quella struttura umana matura, contraddistinta dalla capacità di andare oltre la sensazione per riconoscere la realtà nella sua verità, attraverso l’intelligenza coltivata delle cose, a partire dalla lettura della propria vita, della storia, delle relazioni col prossimo, del rapporto tradizione/novità. È su questo delicato passaggio che l’efficacia della pastorale giovanile può avere un punto di verifica per i giovani e per i loro stessi animatori: capacità di riconoscere e di scegliere ciò che veramente è bello, senza preclusioni o chiusure ideologiche; fedeltà agli impegni presi, tenuta nelle difficoltà, sviluppo della professionalità in chiave vocazionale, capacità di crescere e di reggere nella «bella virtù», in vista di un dono più pieno; senso del presente e della realtà come luogo che prepara alla «buona morte»; gestione ordinata e armonica della propria vita, a partire dal rapporto ascolto/parola, azione/contemplazione; capacità di eleganza e gusto estetico, senza essere schiavi del lusso, dell’eccessiva ricercatezza, della moda; impegno nel vivere e nel proporre liturgie e momenti di preghiera né solo formalmente esatti e neanche sensazionalisticamente stravaganti, a propria misura o carichi solo emotivamente, ma semplicemente belli perché soprattutto «azione di Dio».
Il concetto di Bildung esprime la «formazione spirituale»: «qualche cosa di più alto e insieme di più intimo, cioè l’atteggiamento che, scaturendo dal conoscere e sentire la totalità dell’esperienza spirituale ed etica, armonicamente si riversa nel sentimento stesso e nel carattere».[19] L’educazione estetica può e deve stimolare e poi anche verificare l’«armonia interiore» e la libertà,[20] aiutando a chiarire l’equivoco dello sganciamento della libertà dalla verità.
Proprio per questo è determinante aiutare i giovani a riscoprire che bellezza e bontà convivono necessariamente. Oggigiorno sembra quasi che le due cose non possano stare insieme, perché spesso si attribuisce il senso di bello a ciò che non è buono, e nel mondo giovanile ci sono esempi di questo, per esempio il bello-idolatria.
Ci sono tuttavia anche splendidi esempi da valorizzare, anche nel mondo giovanile, di «martyria» di una vita «bella» (cf Veritatis Splendor, nn. 88-89), testimonianze di bontà e verità che «rende liberi». Sta a noi scoprirli e coltivarli, farli emergere, cominciando ad amare ciò che di buono, vero e bello in essi si esprime.
Lo sguardo al Crocifisso risorto ci conferma inoltre che, proprio per aver assunto in sé ogni disarmonia, è Lui la risposta ad ogni disarmonia anche della vita dei giovani, ed è a Lui risorto, che mostra le piaghe gloriose, che va orientato lo sguardo. Solo così sarà possibile trovare ovunque un seme di bellezza, che l’amore fa crescere al di là delle piaghe del brutto o della disarmonia nelle vite e nelle opere.
* La vocazione come chiamata «al capolavoro».
«La pagina iniziale della Bibbia ci presenta Dio quasi come il modello esemplare di ogni persona che produce un’opera: nell’uomo artefice si rispecchia la sua immagine di Creatore. [...] Nella ‘creazione artistica’ l’uomo si rivela più che mai ‘immagine di Dio’, e realizza questo compito prima di tutto plasmando la stupenda ‘materia’ della propria umanità e poi anche esercitando un dominio creativo sull’universo che lo circonda» (LaA, n. 1).
Giovanni Paolo II ricorda il compito affidato ad ogni uomo, la vocazione di fare della propria vita un’opera d’arte: «ad ogni uomo è affidato il compito di essere artefice della propria vita: in un certo senso, egli deve farne un’opera d’arte, un capolavoro» (LaA, n. 2). Il Paradiso, del resto, sarà anche contemplazione della bellezza che Dio ha costruito in ogni membro dell’umanità.
È inoltre importante il fatto, come ci ricorda la filosofia dell’arte, che il valore dell’opera d’arte non è dato necessariamente dal valore di somiglianza alla realtà, ma l’opera d’arte è bella quando è un «compiuto», frutto di una dinamica che è segno della dimensione metafisica della divenienza dell’essere contingente.
Educarsi ad una considerazione dinamica dell’opera d’arte significa riconoscere anche la propria vita come un’opera che si-fa, da far-si continuamente: in ogni suo momento la vita è chiamata ad essere come un’opera d’arte, la più bella.
Dio non ci ama perché siamo belli, ma ci fa belli perché ci ama. È sempre possibile, per questo, ricominciare. Anche il rapporto con le cose, soprattutto con l’opera delle proprie mani, potrà essere informato, per partecipazione, da quel pathos con cui Dio all’alba della creazione guardò l’opera delle sue mani (cf LaA n. 1). In questo senso l’ecologia, parte integrante della «via della bellezza», significa sguardo su ogni creatura a partire dallo sguardo stesso di Dio su di lei, riconoscendone la chiamata all’esistenza da parte del Padre, nella responsabilità comune affinché essa sia «riportata» a Lui.
Parlando della propria esperienza artistica, così si esprime il pittore contemporaneo Michel Pochet: «Dio è Verità, è Bene, ed è Bellezza.
La porta della verità, per i nostri contemporanei s’apre alle volte difficilmente, perché hanno un senso innato dello scetticismo. Accedere a Dio dalla porta del bene è più difficile di una volta: ‘Sì, Dio è buono, egli è troppo buono per me. Non sono capace di fare il bene’. Un Dio perfetto ci scoraggia, e un Dio vero ci oltrepassa.
Se entriamo dalla porta del bello, ogni resistenza cade. La Bellezza è la porta verso Dio per l’uomo contemporaneo. […] Tanti dialoghi quasi impossibili sul piano della dottrina o dell’etica, sono già in atto su quello della bellezza».[21]
Se ogni arte è sempre espressione di una filosofia, e quella moderna e contemporanea [22] si sono caratterizzate per una certa lontananza o avversione verso Dio, chissà che proprio i giovani di oggi non siano chiamati, con un compito tutto speciale, ad elaborare quella cultura della «civiltà dell’amore» (che è anche «civiltà della bellezza») in cui l’uomo, unità inscindibile di spirito e corpo, sentimento e ragione, percorrendo la via della bellezza torni a «volare in alto», vivendo la ricerca e l’incontro con Dio come una splendida avventura, senza fine. Così la vita, le opere, il pensiero e anche le arti potranno, illuminate «dall’alto», gridare che Egli è la Verità, la Bontà e la Bellezza: «Il divino soffio dello Spirito creatore si incontra con il genio dell’uomo e ne stimola la capacità creativa. Lo raggiunge con una sorta di illuminazione interiore, che unisce insieme l’indicazione del bene e del bello, e risveglia in lui le energie della mente e del cuore» (LaA, n. 15). È questo il motivo profondo che permette di guardare con speranza al mondo dei giovani e di camminare accanto a loro, come Gesù lungo la via di Emmaus, anche quando non sembrano «capaci di riconoscere». Sarà possibile così, insieme, vivere da protagonisti per «una rinnovata ‘epifania’ di bellezza per il nostro tempo» (LaA, n. 10).[23]
NOTE
[1] Cf F. Dostoevskij, L’idiota, p. III, cap. V, Milano 1998, 645. Al tema della bellezza come «nome proprio di Dio» si mostra sensibile più di un autore contemporaneo, come ad esempio Simone Weil.
[2] M. Gennari, Bellezza, in J.M. Prellezo – C. Nanni – G. Malizia, Dizionario di scienze dell’educazione, Elledici-Las-Sei, Leumann (Torino) 1997, 126.
[3] Il «regno dell’estetica», afferma S. Pagani, «trova nella giovinezza un luogo privilegiato. Nell’età giovanile la bellezza, l’apparenza, l’immagine di sé, la corporeità, il vitalismo, la voglia di consumare e il successo si raccolgono bene insieme. Tutte queste figure di identificazione giovanile presentano immediatamente la loro forza e il loro splendore, anche se non raramente poi tradiscono la loro miseria in vissuti di angoscia, paura del futuro, solitudine e destino di morte». S. Pagani, Cercava di vedere Gesù, in Il Regno-Attualità (1995) n. 16, 489.
[4] M. Ferraris, Bello, in N. Abbagnano – G. Fornero (edd.), Dizionario di Filosofia, Utet, Torino 1998, 120. Rimandiamo a questa sintesi per un’analisi della problematica e per esaminare le diverse concezioni di bello (cf 120-121).
[5] Cf A. Alessi, Sui sentieri dell’essere. Introduzione alla metafisica, Las, Roma 1998, 227.
[6] Cf S. Givone, Estetica, in P. Rossi (ed.), La filosofia III. Le discipline filosofiche, Torino, UTET 1995, 512. R. Rorty invita a «sperimentare» la verità nel segno della libertà. La verità assume il valore di essere «senso per noi». Tolleranza e ironia diventerebbero caratteri della verità concepita su base estetica.
[7] «Con il venir meno dell’idealità del bello, dunque della sua natura metafisica, decade anche la possibilità di un assetto sistematico della filosofia dell’arte». M. Ferraris – S. Givone – F. Vercellone, Estetica, in P. Rossi (ed.), La filosofia III. Le discipline filosofiche, Utet, Torino 1995, 498. Si arriva così ad affrontare l’interessante tema, dal titolo in certo modo paradossale, della «bellezza del brutto»: cf K. Rosenkranz, Estetica del Brutto, Il Mulino, Bologna 1994.
[8] «La bellezza presenta una certa somiglianza con le proprietà del Figlio. Per la bellezza infatti si richiedono tre caratteristiche: in primo luogo l’integrità o perfezione, poiché le cose non integre in quanto tali sono deformi; in secondo luogo, si richiede la debita proporzione o armonia; da ultimo si richiede lo splendore». Cf Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae I, q. 39, a. 8.
[9] LaA, n. 16. Cf Confessioni 10, 27.
[10] S. Givone, La bellezza salverà il mondo?, Feeria, 16-17 (anno e numero non rintracciato).
[11] Ibidem, 13.
[12] Cf L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Edizioni di Filosofia, Milano 1954.
[13] «Nei corsi di teologia, anche se non si deve trascurare il senso critico e la ricerca del vero, esistono ancora troppo pochi ponti fra teologia e letteratura, arte o storia. Com’è possibile che Dio, che è la sorgente di ogni bellezza, appaia così poco come tale nelle nostre università?».
[14] M. Gennari, Bellezza, in J.M. Prellezo – C. Nanni – G. Malizia, cit., 126.
[15] Concilio Ecumenico Vaticano II, Messaggio agli artisti (8 dicembre 1965), in Acta Apostolicae Sedis 58 (1966), 13. Citato in LaA n. 11.
[16] Cf gli articoli della rivista di vita ecclesiale gen’s (1999/3), che presentano del materiale interessante relativo ad un Congresso di artisti svoltosi nell’aprile 1999 (https://www.focolare.org/centromaria). Anche le frasi conclusive di M. Pochet, nell’ultima nota, sono tratte da queste pagine.
[17] S. Pagani, Cercava di vedere Gesù, cit., 490-491.
[18] Ibidem, 491.
[19] W. von Humboldt, Scritti di estetica, Sansoni, Firenze 1934, 148.
[20] Le Lettere sull’educazione estetica dell’uomo di Schiller (La Nuova Italia, Firenze 1970) sono ancora un interessante punto di riferimento a proposito. Anche J. Dewey ha messo in luce come l’elemento estetico sia in grado di armonizzare la libertà dell’espressione individuale: J. Dewey, Arte come esperienza ed altri scritti, La Nuova Italia, Firenze 1995.
[21] G. Garagnani, Il tempo della bellezza, in Città Nuova 43 (25 maggio 1999) n. 10, 42.
[22] Cf M. Ferraris, Estetica, cit., 439-440.
[23] Scrive ancora M. Pochet: «La Bellezza eterna si è fatta uomo in Gesù. Ha vissuto tutte le vicende della vita umana, le più sublimi come le più banali, le più gioiose come le più dolorose, fino all’abbandono, alla morte. Fino alla risurrezione. […] Cammina con noi. Ci parla. Il cuore ci arde in petto. Si fa tardi. La fermiamo a cena, ma gli occhi si aprono nel momento che sparisce. La Bellezza risorta non s’impone mai: sparisce, si nasconde nell’anonimato dell’uomo qualunque, nel banale, nel quotidiano. […] La Bellezza è sulla riva del lago, irriconoscibile. Un occhio puro l’intuisce e ci apre gli occhi. Ci buttiamo nell’acqua, e la Bellezza nutre la nostra mente e i nostri sensi, col pane cotto sulla pietra calda. Ma non quella tutta fascinosità, la bellezza leccata, seducente, sdolcinata fino alla nausea, profumata come un fiore velenoso, eventualmente pia come un baciapile, in verità luciferina perché non incarnata. La bellezza è forte, ardita, coraggiosa, paziente, non si fa valere, non si prostituisce. A volte può apparire disarmonia, cacofonia, buio, perché, nella sua gloria, porta le stigmate della passione e della morte».