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    In cammino con i ragazzi /5

    Daniele Bruzzone

    (NPG 2012-5-65)

    Imparare a sentire l’angoscia è un’avventura
    attraverso la quale deve passare ogni uomo. (...)
    Chi invece imparò a sentire l’angoscia
    nel modo giusto,
    ha imparato la cosa più alta.
    (Sören Kierkegaard)

    Ragazzi in «crisi»?

    In genere si considera la preadolescenza una fase del ciclo evolutivo perlopiù legata – almeno nel suo insorgere – ad una serie di eventi a livello biofisiologico e somatico (la cosiddetta sindrome puberale) che inducono una modificazione sul piano psicoemotivo e relazionale. In questo senso, il paradigma che, da Stanley Hall [1] in poi, ha condizionato la lettura dei fenomeni adolescenziali, è rimasto pressoché invariato: l’adolescenza, di volta in volta codificata come «fase di transizione»,[2] come «età della crisi»[3] o addirittura come «disturbo evolutivo»,[4] è concepita come una sorta di passaggio obbligato, perlopiù inquieto e turbolento o comunque esposto a innumerevoli rischi e disagi, segnato da un primato del corpo, in cui l’irruzione delle energie genitali comporta uno squilibrio psicologicamente difficile da elaborare.
    Questa interpretazione critica e problematica non è priva di paradossi: si parla tanto del disagio dei ragazzi che quelli privi di disagio scompaiono nell’ombra (benché siano probabilmente la maggior parte); e siamo talmente abituati al cliché dell’adolescente tormentato che quelli che non lo sono ci sembrano quasi «anormali». Oppure cadiamo in un errore ancor più grave: quello di pensare che, dal momento che non manifestano i sintomi di un disagio degno di tal nome, quei ragazzi apparentemente tranquilli siano totalmente e miracolosamente privi di problemi. Non solo: per effetto di questa distorsione «crisiologica» (accentuata dai media che del mondo giovanile rappresentano preferibilmente le derive patologiche, certo preoccupanti ma pur sempre parziali), le risorse effettive e le più genuine potenzialità dei preadolescenti e degli adolescenti rischiano di rimanere misconosciute o disattese.
    L’altro elemento tradizionale nell’interpretazione della preadolescenza consiste nel considerarla un fenomeno geneticamente determinato e quindi universale. Si potrebbe osservare, però – come peraltro gli studi etnografici di Margaret Mead su alcune popolazioni dell’arcipelago di Samoa hanno suggerito fin dagli anni ’20 – che l’adolescenza come noi la conosciamo non è un correlato necessario della pubertà, ma piuttosto un costrutto culturale, che cambia da una società all’altra e in alcune, addirittura, non esiste, risolvendosi il passaggio dall’infanzia all’età adulta non in un lasso temporale più o meno prolungato o indefinito, bensì in un insieme di «riti di iniziazione» dal carattere simbolico e dall’effetto immediato. Non solo: anche laddove l’adolescenza esiste, il modo di essere proprio dei ragazzi si modifica nel tempo all’interno di una stessa società, a tal punto che, notoriamente, generazioni contigue hanno avuto adolescenze del tutto diverse in periodi storici differenti, non necessariamente remoti.
    L’idea della predolescenza come fenomeno naturale ed eminentemente «fisico» (in larga parte dovuta all’influsso del paradigma medico anche nell’ambito delle scienze umane) persiste anche laddove si è tentato di rilevarne le peculiarità di tipo psicologico. Anche quando questa fase dello sviluppo è stata ricondotta sul piano della maturazione cognitiva, per segnalare le straordinarie potenzialità insite nell’acquisizione del pensiero ipotetico-deduttivo,[5] la sostanza non è cambiata: a caratterizzarla, infatti, è stato chiamato in causa un principio cronologico regolato biologicamente. La maturazione del corpo (seppur nella sua dimensione cerebrale e neurofisiologica che determina la comparsa di certe abilità mentali) è la guida dello sviluppo, mai il contrario.
    Mi piacerebbe, solo per il gusto di una provocazione pedagogica, tentare un capovolgimento: e se la preadolescenza non fosse un fenomeno anzitutto biologico o somatico, ma squisitamente spirituale?[6]

    L’irruzione del desiderio

    In fondo la preadolescenza è una «seconda nascita»[7] esattamente perché, ancora una volta, è una scoperta del mondo, con la differenza che, rispetto all’infanzia, è cambiato qualcosa: lo sguardo. Qui avviene la vera e propria katastrophé (nel senso etimologico del «capovolgimento» di prospettiva).[8] In questo momento della crescita, infatti, «il nuovo assetto mentale (...) aggiunge al vissuto della transizione la variabile fondamentale della capacità di essere testimoni del proprio cambiamento. (...) A partire da questa capacità di vedersi e poter dire su di sé, si struttura nel campo esperienziale una dimensione verticale che è un punto di vista fino ad allora inesistente».[9]
    Forse allora non è una mente ancora bambina a doversi adeguare in fretta a un corpo che – di colpo – si trasforma; ma, al contrario, è il corpo a far fatica a tenere il passo dell’anima, che improvvisamente e prepotentemente si schiude in tutto il suo desiderio di senso, comprensione, di totalità. Sono noti da sempre, del resto, certi tratti distintivi degli adolescenti – inclusi quelli che agli occhi della Freud erano «meccanismi di difesa» contro gli impulsi.[10] Pur cambiando i modi di manifestarsi, essi continuano ad albergare nel cuore dei ragazzi: l’idealismo che si traduce nella pretesa impaziente della verità o della giustizia, il radicalismo con cui affrontano il tema del bene e del male o tentano di appagare la loro sete di spiritualità (non sempre religiosamente intesa), l’intellettualismo e la curiosità irrispettosa con cui si pongono lucidamente le domande più difficili e irrisolte dell’esistenza (quelle del dolore, della vita e della morte), l’ascetismo con cui si dedicano al culto di un ideale di perfezione, perfino quando è autodistruttivo (come il significato simbolico di tante anoressie sembra suggerire).
    Ecco: i ragazzi vivono questa irruzione violenta, impellente del desiderio. E sarebbe riduttivo considerare il desiderio meramente una «pulsione»: esso non è un meccanismo di ordine psico-fisico, bensì un moto spirituale; e non si appaga del conseguimento del suo «oggetto» (come un qualsiasi bisogno), perché il desiderio ha per essenza l’assenza, e ciò che lo rende tale è la sua sete inesauribile e sempre ulteriore.
    Ciò che si struttura e si apprende a quest’età, forse più di ogni altra cosa, è proprio la capacità di desiderare, con quelli che definirei i suoi «corollari formativi»: ricercare il senso, contemperare l’immaginazione e il senso del limite, declinare i sogni in progetti. E questa capacità è quella da cui dipende un’esistenza significativa: che non vuol dire un’esistenza garantita dalla crisi o dal dubbio o dall’incertezza o dall’errore (come vorrebbe una certa retorica astratta e inconsistente dell’adultità), ma – più realisticamente – un’esistenza capace di affrontare la crisi e l’incertezza e mutare l’angoscia e il disorientamento in una incessante ricerca di senso.[11]

    I ragazzi e gli adulti: un duplice disorientamento

    Questa angoscia (che altro non è se non, heideggerianamente, la vertigine della libertà e della responsabilità del proprio destino) non è qualcosa che gli adolescenti sperimentino inevitabilmente per poterla poi accantonare, ma per imparare ad averci a che fare ogni giorno della loro vita; perderla, infatti, significherebbe smarrire la propria umanità. Pertanto, l’arte difficile e delicatissima dell’ascolto di sé e della propria coscienza, della ricerca costante della propria autenticità, del discernimento delle possibilità di senso, dell’esercizio quotidiano e responsabile della scelta, costituiscono veramente il compito di sviluppo con cui preadolescenti e adolescenti debbono misurarsi per divenire «adulti»; ma rappresentano anche per gli adulti stessi il compito esistenziale per eccellenza.
    Nondimeno, il rapporto tra le generazioni nella nostra civiltà, negli ultimi decenni e per effetto di profonde trasformazioni socio-economiche, culturali e familiari, è cambiato sensibilmente, e il compito educativo degli adulti nei confronti dei ragazzi si fa sempre più inconsistente e problematico. Che cosa è cambiato?
    Tanto per cominciare, si è fatto più sfumato il tema del gap dall’adolescenza all’età adulta: nel tempo della flessibilità, dell’innovazione tecnologica e dell’accelerazione dei ritmi di vita, i caratteri una volta attribuiti all’adolescenza come fase transitoria (provvisorietà, sperimentalismo, disponibilità al cambiamento, reversibilità) si sono estesi molto oltre, fino a diventare dei valori permanenti anche della vita adulta. Se da un lato ciò ha contribuito a «demitizzare» la retorica dell’adultità come condizione di perfetta stabilità e sicurezza,[12] dall’altro ha ridotto di molto la percezione del passaggio necessario per «diventare grandi». Inoltre, nella cosiddetta «società dell’incertezza»[13] i «grandi» non sono meno «a rischio» dei giovani, sicché il concetto di «crisi» non si adatta più soltanto ai ragazzi, ma a tutti gli individui che si trovano in una fase generalizzata di disorientamento e di indecisione.[14] Oggi siamo di fronte al paradosso di giovani precocemente «adultizzati», disincantati, cinici e disillusi, che possono giocare a fare gli adulti (anzi tempo) senza per questo sentirsi fuori luogo, in rapporto con adulti tardivamente (o perennemente) «adolescentizzati», inconsistenti, instabili, insicuri, che possono giocare a fare i giovani (fuori tempo) senza sentirsi per questo inadeguati.

    Il futuro: promessa o minaccia?

    Un ulteriore elemento di cambiamento è determinato dall’evanescenza del senso del futuro, o meglio del senso della fiducia nel futuro: se per le generazioni precedenti, che avevano cullato l’illusione ottimistica dell’avvenire come luogo del progresso e della crescita, il futuro era una promessa di salvezza e di felicità, per i ragazzi di oggi, che sono figli dello Zeitgeist depressivo della crisi e della recessione, il futuro assume piuttosto i contorni sinistri di una minaccia.[15] Qui «minaccia», però, non indica tanto pericolo o sventura, quanto l’impossibilità di realizzare le proprie aspirazioni. Se c’è un vissuto drammatico che risulta sempre più diffuso tra i preadolescenti e gli adolescenti (e che mina pesantemente la loro autostima riducendo drasticamente la loro capacità progettuale) è proprio il timore che i propri sogni e le proprie aspirazioni siano destinati a rimanere tali, unitamente al sospetto che l’intenzione, lo sforzo, il sacrificio e il merito non siano (o non più, perlomeno) gli strumenti adeguati al raggiungimento dello scopo.
    Su questo problema incide con una certa gravità la trasformazione del desiderio stesso dei ragazzi, se è vero – come da anni argomenta Gustavo Pietropolli Charmet – che il fattore di maggior fragilità, il vero e proprio «tallone d’Achille» degli adolescenti di oggi, consiste nel loro narcisismo.[16]
    Nati e cresciuti in una famiglia e di una società che dal modello «etico» (imperniato sulle regole e i valori) sono passate al modello «affettivo» (incentrato invece sull’empatia e la tenerezza), i «figli del desiderio»[17] sono stati creati per realizzarsi pienamente, sono stati progettati per non ammalarsi, per non fallire, per non soffrire, per sviluppare i loro talenti, per dare compimento alle proprie aspettative – o a quelle dei loro genitori. Paradossalmente, però, questi «cuccioli d’oro» cresciuti per essere perfettamente felici rischiano di essere sommamente infelici: incapaci di sacrificio, intolleranti alla frustrazione, facilmente soggetti a demotivazione, in qualche caso perfino inetti. È stato fatto credere loro che al mondo nulla esista di più bello e importante di loro stessi. E questo tragico errore di prospettiva rischia di accecarli per sempre.
    Alcuni alimentano un ideale dell’Io smisurato (incapace di accettare il limite) e più tirannico ancora del Super Io di vecchia memoria, sicché, quando prendono coscienza di non poter essere tutto ciò che vorrebbero diventare (e che i mass media continuano a propinargli come «facile» e desiderabile), il senso di colpa ormai fuori moda lascia il passo a un sentimento più insidioso e strisciante: quello della vergogna, dell’inadeguatezza e del disvalore di sé.
    Altri, pur avendo potenzialmente tutto, rischiano di non realizzare nulla, perché loro (e molto prima di loro, quelli che li hanno educati) hanno scambiato i desideri con la risposta ai propri bisogni, e la felicità con la realizzazione di sé. Come dice Kierkegaard, invece, «la porta della felicità si apre solo verso l’esterno: chi tenta di forzarla in senso contrario finisce col chiuderla ancor più».[18] Nulla per loro vale veramente la pena, tutto appare ai loro occhi insignificante, banale, indifferente e poco interessante. Per una ragione semplice e drammatica: che chi pone come fine se stesso resta senza scopi significativi. Se non che, privata di riferimenti intenzionali (uno scopo, un valore) la loro coscienza si atrofizza, si ammala o si spegne.

    Appunti per un intervento educativo

    Risulta evidente, dunque, che questo problema, ancorché possa ingenerare un disagio psicologico e indurre a conseguenze anche estreme, non è primariamente di ordine psicologico, bensì culturale ed educativo.[19] In quanto tale richiede quindi una risposta di carattere pedagogico, che declinerei in quattro passaggi fondamentali:
    – Coltivare la ricerca della verità e l’esigenza di senso per contrastare il cinismo e il nichilismo. Occorre recuperare una buona dose di «idealismo» con i preadolescenti, puntare in alto, affrontare con loro le questioni di fondo dell’esistenza, metterli di fronte agli interrogativi cruciali, appellarsi alla loro parte migliore e sfidarne gli appetiti più nobili, anziché appiattirsi sui loro interessi più banali e immediati per timore di «perderli», perché l’assenza di sfida rende la proposta educativa scontata e pressoché inutile.
    – Formare alla conoscenza di sé e all’ascolto della propria vita emotiva [20] per combattere la logica centrifuga dell’estroversione e del di-vertimento che connota talvolta anche certe attività educative o animative. Se vi è un’esigenza indispensabile per i ragazzi, è proprio quella di essere accompagnati a stabilire un contatto con se stessi e a fare esperienza del proprio mondo interiore senza temere di smarrirsi.
    – Educare al senso del limite per prevenire quella sorta di «immunodeficienza psichica»[21] che impedisce ai giovani di affrontare il dolore e la crisi senza naufragare. I preadolescenti (perfino i bambini) hanno un preciso diritto a conoscere la vita imparando a tenerne in equilibrio gli aspetti apparentemente contrapposti (la gioia e il dolore, l’amore e la solitudine, la salute e la malattia, la vita e la morte, l’ottimismo e la delusione, il successo e l’impotenza). Il tentativo ostinato, messo in atto da molti adulti iperprotettivi, di preservarli dalla sofferenza tenendoli lontani dall’esperienza del male, in realtà li priva di qualcosa di necessario alla loro sopravvivenza stessa: la capacità, cioè, di attraversare il dolore senza perdere la speranza.
    – Ricostruire pazientemente la fiducia nel futuro attraverso una progettazione concreta del quotidiano e la logica dei «piccoli passi». Per vincere la noia e l’apatia, l’accidia e la paura, i discorsi parenetici e i richiami retorici all’impegno e alla progettazione di sé risultano vacui e inefficaci. I ragazzi hanno bisogno di qualcuno che, mentre non ha timore di ascoltare i loro sogni e perfino le loro fantasie, al tempo stesso addita loro un metodo di progettazione del tempo che li educhi a tradurre le loro aspirazioni in piani d’azione effettivi: li abitua a darsi degli obiettivi realistici e concreti, ne sostiene la motivazione e offre loro riconoscimento dei risultati raggiunti. Solo così essi crederanno che costruirsi un futuro è possibile, al di là dei limiti che potranno incontrare, e impareranno a confidare nelle proprie capacità.

    Scheda
    RAGAZZI ED EDUCATORI IN AZIONE

    (a cura di Alessandra Augelli)

    Educatori in ricerca
    «Educare è… mettere le ali»

    – Ascolto della canzone «Mettere le ali» di Niccolò Fabi (Dischi Volanti – 2006)
    Una casa di vetro lungo il fiume
    o di notte dietro a un cannocchiale
    in ginocchio in un confessionale
    o tra le gambe dell’amata ad ansimare
    non c’è un posto migliore in cui sognare
    il sogno è un altro modo in cui guardare
    qualunque terra si può fare mare
    non c’è un posto migliore in cui sognare
    così insegniamo agli elefanti a mettere le ali
    insegniamo ai parlamenti a mettere le ali
    insegniamo ai comandanti a mettere le ali
    Non è mai troppo tardi
    Non si è mai troppo vecchi
    una scuola e una cabina elettorale
    con la penna in mano prima di votare
    davanti a un giudice in un tribunale
    su una barca in fuga in mezzo al mare
    non c’è un posto migliore in cui sognare
    il sogno è un altro mondo in cui guardare
    qualunque terra si può fare mare
    non c’è un posto migliore in cui sognare
    così insegniamo ai più pesanti a mettere le ali
    ricordiamo ai parlamenti di mettere le ali
    invitiamo gli insegnanti a mettere le ali
    non è mai troppo tardi
    non si è mai troppo vecchi
    per insegnare agli elefanti a mettere le ali
    per ricordare ai musicanti di mettere le ali
    per invitare tutti quanti a mettersi le ali

    Si riflette insieme:
    – Cosa mi colpisce di questo testo?
    – Cosa significa per me sognare?
    – Il sogno è un atto di pensiero o un esercizio pratico?
    – In quali luoghi e momenti ho sperimentato il sogno?
    – Esiste un sogno «educativo»?
    – Cosa significa concretamente invitare i ragazzi a «mettere le ali», a recuperare la dimensione del sogno e della progettualità?

    I preadolescenti si interrogano
    «La magia della propria vita»

    Lettura del brano di Michael Ende, «La scuola di magia» tratto dal libro A scuola di magia e altre storie (Salani Editore, Milano, 2002).
    Il racconto fa riflettere su alcuni aspetti legati ai desideri e ai sogni personali e su come si possa realizzare qualcosa di bello e grande per la propria esistenza. Attraverso la metafora della magia emerge, in particolar modo:
    – l’uso della parola e l’importanza dell’azione («Io penso che forse bisognerà imparare a memoria un sacco di detti e di formule, e forse anche qualche gesto e segno da fare con le mani»): si sottolinea come i nostri desideri possono chiudersi in formule e azioni decisi da altri;
    – gli strumenti («Probabilmente» disse un altro ragazzo, «ci saranno anche una serie di attrezzi e di apparecchi, alambicchi e speciali vasi per conserve…»; «Una bacchetta magica» suggerì un’altra. «E magari un bel mantello lungo» disse Mali sognante, «di velluto blu con sopra le stelle e un lungo cappello a punta…»): si evidenzia la tentazione di realizzare i nostri sogni senza fare alcuno sforzo, pensando che siano situazioni accidentali, privilegi o stratagemmi ad aprirci la strada.
    – l’autenticità del desiderio («Per questo ho parlato di veri desideri», spiegò il signor Argento. «Quelli li si trova soltanto se si vive a fondo la propria storia»): il desiderio, il sogno non sono elementi distanti da sé, ma strettamente legati al proprio vissuto e alla propria quotidianità.
    – la possibilità («Puoi desiderare veramente solo ciò che ritieni possibile. Puoi ritenere possibile solo ciò che appartiene alla tua storia. Alla tua storia appartiene soltanto quello che tu desideri in verità»): si sottolinea qui come il primo modo di sognare significhi osservare e valutare le possibilità concrete, a partire dalla propria storia, ed esercitarsi poi in piccole scelte.

    Si riflette assieme:
    – In che modo esprimo e comunico i miei desideri?
    – Ci sono momenti in cui ho desiderato una «bacchetta magica» per realizzare alcuni sogni? Quando? Perché?
    – Perché è difficile capire i desideri profondi per sé? C’è stata qualche volta in cui ho compreso bene cosa desideravo? Come ci sono riuscito? Mi ha aiutato qualcuno? In che modo?

    I preadolescenti si interrogano
    «Desiderio, sogno, progetto»

    Visione del film Billy Elliot (Regia di S. Daldry, Gran Bretagna- Francia, 2000)
    Billy ha undici anni e incappa per caso in una lezione di ballo che si svolge nel circolo ricreativo dove si allena alla boxe: scopre così la sua passione per la danza e inizia un percorso per raggiungere il suo sogno. Mentre suo padre e suo fratello cercano in tutti i modi di allontanarlo da quella strada, la signora Wilkinson, la maestra di ballo ha intuito le sue grandi potenzialità e lo sostiene, allenandolo e iscrivendolo poi ad un esame al Poyal Ballet. Billy con un grande senso di libertà e autenticità si batte per il suo sogno, convincendo con l’espressione del suo talento suo padre, dapprima restio e oppositivo. Gli adulti sono visti come custodi dei propri sogni, ma anche alle volte non capaci o pronti a questo difficile compito rischiano di diventare i maggiori nemici. In una lettera lasciatagli dalla madre Billy legge «Sii te stesso» ed è su questa scia che lui riuscirà a comprendere lo spessore del proprio sogno e ad impegnarsi per realizzarlo.

    Si riflette assieme:
    – Sembra che l’autenticità di un sogno venga provata dal disaccordo, dalla sofferenza e dalla difficoltà. È sempre così secondo te? Perché?
    – Quali sono gli elementi attraverso cui Billy riesce a capire che il suo è un desiderio autentico e desidera intraprendere quella strada?
    – In che modo Billy ha trasformato il suo sogno in progetto? Attraverso quali azioni e atteggiamenti è riuscito a realizzarlo?

    NOTE

    [1] S. Hall, Adolescence, 2 voll. Appleton, New York, 1904.
    [2] P. Blos, L’adolescenza come fase di transizione, Armando, Roma, 2000.
    [3] E.H. Erikson, Gioventù e crisi d’identità, Armando, Roma, 2000.
    [4] A. Freud, Opere, vol. III, Boringhieri, Torino, 1979, pp. 997-1005.
    [5] J. Piaget, B. Inhelder, La psicologia del bambino, Einaudi, Torino, 2001.
    [6] Devo questa intuizione a un’idea di Alessandro D’Avenia, autore di due romanzi di grande successo che hanno per protagonisti, appunto, degli adolescenti: Bianca come il latte, rossa come il sangue (Mondadori, 2010) e Cose che nessuno sa (Mondadori, 2011).
    [7] G. Pellizzari, La seconda nascita. Fenomenologia dell’adolescenza, FrancoAngeli, Milano, 2010.
    [8] Cf W.R. Bion, Il cambiamento catastrofico, Loescher, Milano, 1981.
    [9] A. Fabbrini, A. Melucci, L’età dell’oro. Adolescenti tra sogno ed esperienza, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 36.
    [10] Cf A. Freud, L’io e i meccanismi di difesa, Giunti, Milano, 2012.
    [11] Cf A. Augelli, Erranze. Attraversare la preadolescenza, FrancoAngeli, Milano, 2011; D. Bruzzone, Ricerca di senso e cura dell’esistenza, Erickson, Trento, 2007; D. Bruzzone, Viktor Frankl. Fondamenti psicopedagogici dell’analisi esistenziale, Carocci, Roma, 2012.
    [12] Cf D. Demetrio, Elogio dell’immaturità. Poetica dell’età irraggiungibile, Raffaello Cortina, Milano, 1998.
    [13] Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999.
    [14] Cf D. Bruzzone, «I ragazzi sono cambiati, gli adulti anche. Nuove direzioni di senso per l’educazione», Ricerca di Senso, 9 (2011), n. 1, pp. 43-58.
    [15] Cf M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2005.
    [16] Cf G. Pietropolli Charmet, Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi, Laterza, Roma-Bari, 2010.
    [17] Cf M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Vita e Pensiero, Milano, 2010.
    [18] Cit. in V.E. Frankl, La sofferenza di una vita senza senso, LDC, Leumann (TO), 1992, p. 73.
    [19] Cf U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano, 2007.
    [20] Cf V. Iori (a cura di), Quaderno della vita emotiva. Strumenti per la formazione, FrancoAngeli, Milano, 2009; V. Iori (a cura di), Guardiamoci in un film. Scene di famiglia per educare alla vita emotiva, FrancoAngeli, Milano, 2011.
    [21] V.E. Frankl. La sfida del significato, a cura di E. Fizzotti e D. Bruzzone, Erickson, Trento, 2005, p. 167.


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