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    Il Decreto sull’ecumenismo «Unitatis redintegratio»



    Vaticano II e i giovani

    Mons. Brian Farrell * 

    (NPG 2012-05-34)


    Il 21 novembre 1964, alla fine della terza sessione del Concilio Vaticano II, oltre duemila vescovi votarono in favore del Decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio (UR) e soltanto undici si espressero contro. Così il vivo desiderio di Papa Giovanni XXIII che il Concilio indirizzasse la Chiesa cattolica tutta intera alla ricerca dell’unità dei cristiani, ebbe grande successo. Il documento inizia con le seguenti parole: «Promuovere il ristabilimento dell’unità fra tutti i cristiani è uno dei principali intenti del sacro Concilio ecumenico Vaticano II». Con UR, il Concilio riconosceva ufficialmente che il movimento ecumenico – nato nel XX secolo, inizialmente all’esterno della Chiesa cattolica, come un anelito condiviso da molti di ripristinare l’unità della Chiesa di Dio – era animato dallo Spirito Santo. Il Concilio intendeva dunque «proporre a tutti i cattolici gli aiuti, gli orientamenti, e i modi, con i quali possano essi stessi rispondere a questa vocazione e a questa grazia divina» (UR 1). A quasi cinquant’anni di distanza è ora lecito chiedersi: perché mai l’unità dei cristiani è così importante? Siamo oggi più vicini all’unità?
    Sì, l’unità è essenziale per la Chiesa, se non altro per la preghiera che Gesù stesso, durante l’Ultima Cena, alla vigilia della sua passione e della sua morte, rivolse al Padre per i suoi discepoli: «Che tutti siano una sola cosa... affinché il mondo creda» (Gv 17,23). Se, tristemente, dopo duemila anni la Chiesa non è stata in grado di realizzare pienamente il compito affidatole dal Signore, di annunciare il Vangelo a tutti, e se oggi la testimonianza dei cristiani non è sempre percepita come convincente, questo è dovuto in larga misura al fatto che i cristiani sono divisi tra loro su molte cose, in particolare su ciò che significa vivere insieme nella comunione di grazia, di fede e di missione che è la Chiesa stessa.

    Come eravamo

    Già nel Proemio, il Decreto dichiara:
    «Da Cristo Signore la Chiesa è stata fondata una e unica... [La] divisione non solo si oppone apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura».
    Di fatti, vi è una lunga storia di conflitti e di divisioni tra i cristiani. Nel V e VI secolo si verificò una separazione duratura tra la Chiesa dell’Impero Romano e le comunità cristiane al di fuori di esso: i copti, i siriani, gli armeni, i cristiani di San Tommaso in India e altri. L’XI secolo vide la rottura della comunione tra le regioni orientali e le regioni occidentali della Chiesa. E nel XVI secolo si assisté alla profonda e traumatica divisione tra cattolici e riformati. Queste separazioni non si limitarono a differenze di opinioni tra capi di Chiesa e intellettuali; esse si consolidarono in forze etniche, culturali e politiche in conflitto tra loro. L’Europa in particolare serba ancora una viva memoria dell’intolleranza religiosa tra i cristiani e di una storia di guerre e di violenza a sfondo religioso.
    Quando avevo otto anni, un bambino della nostra scuola morì. Uscendo dalla chiesa dopo il funerale, vidi un altro compagno di classe che se ne stava fuori dal cancello con la sua famiglia. Corsi da lui e gli chiesi se aveva visto come avevano portato in chiesa il nostro amico e come avevano pregato sulla sua bara. «No», mi rispose, «Noi non possiamo entrare». La sua famiglia era protestante. Ecco come vivevamo separatamente la nostra divisione!
    Non molto tempo dopo questa esperienza personale, abbastanza comune a quei tempi, Papa Giovanni XXIII convocò il Concilio Vaticano II e gli affidò, tra l’altro, il compito di fare tutto il possibile per il ristabilimento dell’unità tra i cristiani. Ma molti degli oltre duemila vescovi cattolici che si riunirono nel Concilio nel 1962 erano stati formati in una teologia che giustificava tale divisione tra le Chiese: gli ortodossi e i protestanti erano semplicemente al di fuori della vera Chiesa! Il fatto sorprendente è che, soltanto tre anni dopo, praticamente tutti i vescovi firmarono il Decreto sull’ecumenismo che introduceva un approccio molto diverso agli altri cristiani e alle loro Chiese e Comunità. Come fu possibile questo?

    La via del cambiamento

    Naturalmente, il Decreto sull’ecumenismo non comparve di punto in bianco nel mezzo di un deserto. Nel 1910 alcuni missionari protestanti si erano riuniti ad Edimburgo, in Scozia, in una Conferenza Mondiale sulla Missione, e avevano ufficialmente riconosciuto il danno che la divisione tra le Chiese stava causando alla predicazione del Vangelo nei paesi di missione. L’impulso originato da tale presa di coscienza condusse in seguito all’istituzione del Consiglio Ecumenico delle Chiese nel 1948. Il movimento ecumenico aveva dunque un centro istituzionale e un punto di riferimento.
    Ma aveva anche un’anima spirituale! Già a partire dal 1908, seguendo l’iniziativa di persone come Padre Paul Wattson e l’Abbé Paul Couturier, i cristiani avevano iniziato a dedicare ogni anno un momento speciale alla preghiera per l’unità dei cristiani. Ad oltre cento anni di distanza, questa Settimana di Preghiera continua ad essere un tratto fondamentale dell’azione ecumenica in tutto il mondo: dal 18 al 25 gennaio nell’emisfero settentrionale e nei giorni di Pentecoste nell’emisfero meridionale, essa riunisce cristiani di tutte le tradizioni, che pregano per il dono di quell’unità voluta da Cristo stesso per la sua Chiesa.
    Papa Giovanni XXIII compì un passo significativo per assicurarsi che il Concilio facesse ampio spazio alla questione dell’unità dei cristiani, invitando le Chiese e le Comunità non cattoliche ad inviare osservatori al Concilio. Questa fu una straordinaria novità. La presenza e l’input di oltre cento osservatori che assistettero a parte delle sessioni conciliari per più di quattro anni fece sorgere una nuova consapevolezza della fraternità cristiana che si estende ben oltre i confini visibili della Chiesa cattolica. Il silenzio di secoli – che Paolo VI chiamò «un silenzio privo di carità» – iniziò a trasformarsi in una conversazione tra amici. Quando Papa Giovanni XXIII morì prima della seconda sessione del Concilio, lo piansero con affetto sincero cristiani di tutte le tradizioni e si chiesero cosa sarebbe accaduto col suo sogno ecumenico. Il suo successore, Papa Paolo VI, non solo portò avanti l’impegno cattolico nella causa dell’unità, ma lo approfondì e lo rese permanente. Egli guidò e sostenne la redazione di UR sino alla sua approvazione finale da parte dei padri conciliari. E, là dove poté, abbatté barriere e compì gesti profetici che favorirono il diffondersi di un nuovo clima d’intesa e di dialogo. Come mostra di ciò mi piace ricordare le parole di Paolo VI di ritorno a Roma dopo la sua visita a Gerusalemme nel 1964, dove aveva incontrato il Patriarca ecumenico Atenagora, il primo incontro del genere da parecchi secoli. Nel raccontare il suo viaggio ai padri conciliari riuniti nella Basilica di San Pietro, egli disse:
    «Il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Atenagora, con ben undici metropoliti è venuto incontro a me e ha voluto abbracciarmi come si abbraccia un fratello, ha voluto stringermi la mano e condurmi lui, la mano nella mano, nel salotto in cui si dovevano scambiare alcune parole per dire: dobbiamo, dobbiamo intenderci, dobbiamo fare la pace, far vedere al mondo che siamo ritornati fratelli» (cf Stjepan Schmidt, s.j., Agostino Bea: The Cardinal of Unity, p. 470).

    La nuova visione

    Che cosa ha detto allora il Decreto sull’ecumenismo per far cambiare il modo in cui i cattolici vedono gli altri cristiani e interagiscono con le loro Chiese e Comunità? Basandosi sull’ecclesiologia rinnovata che era stata formulata nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, UR ribaltò il ristretto approccio post-tridentino tipico della contro-riforma e ritornò ad una tradizione più marcatamente biblica, patristica e alto-medioevale, aprendo la strada ad una rinnovata comprensione della relazione tra la Chiesa cattolica e il resto del mondo cristiano. Descrivendo la Chiesa in termini di comunione piuttosto che di istituzione, il Concilio trovò la chiave per una nuova visione dei legami spirituali che uniscono tutti i battezzati malgrado le loro divisioni.
    Pertanto l’obiettivo finale dell’ecumenismo, secondo il Decreto, è la piena e visibile unità di tutti i cristiani in un’unica comunione.
    «Comunione» è un termine teologico che implica molto più dei legami umani di amore e di solidarietà, per quanto essi siano positivi e significativi. Esso indica piuttosto una compartecipazione alla grazia e ai doni che il Cristo Risorto, attraverso lo Spirito Santo, ha riversato sui suoi discepoli nella Pentecoste e che sono trasmessi ai battezzati nel corso del tempo attraverso il ministero della Chiesa di santificazione, insegnamento e guida. La comunione comporta un vincolo tra i battezzati basata sulla compartecipazione alla vita divina. Dunque, tale comunione è soprattutto una realtà interiore e spirituale, ma è manifestata e garantita da segni esteriori, quali le professioni di fede, i sacramenti, la guida pastorale e la collaborazione al servizio della famiglia umana. In forza della comune fede in Cristo, del battesimo comune, dell’uso delle stesse Scritture e di molti altri legami, esiste già tra i cristiani una reale comunione, seppure imperfetta. Il compito dell’ecumenismo è svelare il livello di comunione già esistente tra le Chiese e, nell’avvicinare i cristiani tra loro nella professione dell’unica fede e nella vita all’interno dell’unico sistema sacramentale, far crescere tale comunione fino a che tutti possano riconoscersi vicendevolmente come appartenenti alla Chiesa di Cristo una e unica. A quel punto, la pienezza della comunione troverà espressione nell’unità eucaristica: tutti insieme intorno all’unico altare. Il cammino da percorrere per giungere a questo obiettivo comprende la preghiera, il dialogo teologico e la cooperazione pratica.

    Scheda

    Il Decreto sull’ecumenismo: un riassunto

    Unitatis redintegratio sviluppa tale visione nello schema riportato qui di seguito:

    1. Proemio (sezione 1)
    2. Principi cattolici sull’ecumenismo (2-4)
    3. Esercizio dell’ecumenismo (5-12)
    4. Chiese e Comunità ecclesiali separate dalla Sede Apostolica Romana (13-24)
    – Speciale considerazione delle Chiese orientali (14-18)
    – Chiese e Comunità ecclesiali separate in Occidente (19-24)

    Il Proemio ci ricorda che Cristo ha fondato la Chiesa una e unica e che la divisione si oppone alla sua volontà, è uno scandalo davanti al mondo e un ostacolo alla predicazione del Vangelo. In tempi recenti, per grazia di Dio, si è diffuso un più profondo desiderio di unità che ha condotto alla nascita di un movimento tra i cristiani in favore dell’unità, il cosiddetto movimento ecumenico. Il Concilio intende proporre a tutti i cattolici i modi e gli strumenti con i quali essi possano rispondere a questa chiamata divina al ristabilimento dell’unità.

    Principi cattolici sull’ecumenismo

    Il Capitolo I ci dice che, seppur il modello e il principio dell’unità della Chiesa deve sempre essere la diversità nella perfetta unità della Trinità delle Persone divine, divisioni tra i cristiani sono sorte sin dall’inizio e si sono solidificate nel tempo non senza colpa di entrambe le parti coinvolte nella separazione. Il peccato della separazione è ascrivibile a coloro che hanno causato la divisione. Ma coloro che sono nati in tali comunità, che credono in Cristo e sono stati propriamente battezzati, sono incorporati in Cristo e dovrebbero essere riconosciuti dai cattolici come veri fratelli e sorelle nel Signore. Di fatti, non soltanto i singoli individui ma anche le comunità ai quali appartengono, al di fuori dei confini visibili della Chiesa cattolica, possiedono molti e importanti elementi dell’unica Chiesa di Cristo: la parola di Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità, e altri doni interiori dello Spirito Santo che provengono da Cristo e a lui conducono. Così, le azioni di queste Comunità possono generare la vita della grazia e condurre alla salvezza. Tuttavia, queste Chiese e Comunità non godono di quell’unità piena che Gesù Cristo ha voluto per i suoi discepoli, in quanto la pienezza dei mezzi di salvezza è stata affidata al solo collegio apostolico presieduto da Pietro per formare l’unico Corpo di Cristo sulla terra.

    Nella ricerca dell’unità, i cattolici devono eliminare parole, giudizi e azioni che non rispecchiano con verità la condizione degli altri cristiani. Essi dovrebbero impegnarsi nel dialogo e nella mutua collaborazione per il bene comune e, soprattutto, dovrebbero promuovere il rinnovamento e la santità della Chiesa cattolica stessa e partecipare alla preghiera comune per l’unità. Dovrebbero altresì rispettare e apprezzare le varie forme di vita spirituale, di disciplina ecclesiale e di riti liturgici, come pure il diverso sviluppo teologico della verità rivelata riscontrabile nelle altre Chiese e Comunità cristiane.

    Esercizio dell’ecumenismo

    Il Capitolo II inizia con l’affermare che la responsabilità di ristabilire l’unità dei cristiani spetta a tutta la Chiesa, sia ai fedeli che ai pastori. La ricerca dell’unità esige un rinnovamento costante della Chiesa, anche nel modo in cui essa enuncia la sua dottrina: se da una parte il deposito della fede è sempre lo stesso, dall’altra può essere necessario che la sua formulazione venga rinnovata e presentata in maniera comprensibile per gli altri cristiani. Occorre conoscere meglio gli altri cristiani e presentarli in modo adeguato nell’insegnamento e nella predicazione. L’anima vera e propria dell’ecumenismo risiede però nella conversione del cuore e nella santità della vita, come pure nelle preghiere private e pubbliche per l’unità, tra cui la preghiera comune tra cristiani divisi. La piena «communicatio in sacris», ovvero la celebrazione comune dei sacramenti, seppur possa aver luogo in specifiche condizioni come mezzo per ottenere la grazia, non può essere usata indiscriminatamente come mezzo per ristabilire l’unità.

    La visione cattolica delle Chiese e delle Comunità ecclesiali separate da Roma

    Il Capitolo III è descrittivo. Dopo aver ricordato brevemente la storia delle divisioni, il capitolo si concentra innanzitutto sulle Chiese orientali. Per molti secoli, le Chiese d’Oriente e d’Occidente erano unite, pur nella diversità delle rispettive tradizioni sviluppatesi in circostanze storiche e culturali diverse. In fondo esse avevano, e continuano ad avere perfino dopo la lunga separazione, molti elementi in comune: nella liturgia, nella spiritualità e nel governo della Chiesa. Di fatti, il patrimonio orientale spirituale, liturgico, disciplinare e teologico, nella varietà delle sue forme, appartiene all’intera cattolicità e apostolicità della Chiesa: «Con la celebrazione dell’eucaristia del Signore in queste singole Chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce» (UR 15). Fin dai primi tempi, queste Chiese hanno seguito le loro specifiche tradizioni e la loro diversità può soltanto accrescere la bellezza della Chiesa di Cristo e aiutare la sua missione. Pertanto, affinché l’unità venga ripristinata, niente altro è richiesto al di fuori di ciò che è necessario (cf Atti 15.28). L’unità, non l’uniformità, è l’obiettivo dell’ecumenismo.

    Il Capitolo III si sofferma poi sulle Chiese e Comunità ecclesiali separate in Occidente. Vi sono grandi differenze tra loro; e la linea di demarcazione fondamentale tra esse e la Chiesa cattolica risiede nella diversa interpretazione della verità rivelata e della relazione tra l’autorità della Scrittura – che esse tengono in massima considerazione – e l’autorità della Tradizione viva della Chiesa. Tuttavia, anche tra la Chiesa cattolica e le comunità protestanti esiste una comunione reale seppure imperfetta. Il battesimo è il vincolo sacramentale che unisce tutti coloro che lo hanno ricevuto. Ma il battesimo da solo non è sufficiente; esso è ordinato alla completa professione di fede e alla completa incorporazione nella comunità ecclesiale, e solo questo rende possibile la piena partecipazione all’eucaristia. Poiché tali Comunità ecclesiali non hanno mantenuto il sacramento dell’Ordine nella successione apostolica, esse non hanno preservato la pienezza del mistero eucaristico. Nel fare memoria della morte e della risurrezione di Cristo nella Cena del Signore, esse professano comunque di celebrare la loro vita in Cristo e di attendere la sua venuta gloriosa. Il vero significato della Cena del Signore e di altri sacramenti, come pure la liturgia e il ministero ecclesiale andrebbero approfonditi come temi di dialogo. E nel dialogo si dovrebbe altresì riflettere su come collaborare al servizio della famiglia umana e su quelle che sono le implicazioni morali di una vita conforme al Vangelo.

    Unitatis redintegratio termina con un’esortazione rivolta ai cattolici affinché compiano ogni sforzo possibile per promuovere l’unità e la riconciliazione ed evitino di frapporre ostacoli sul cammino dello Spirito Santo che guida il movimento ecumenico. Eppure la ricomposizione dell’unità della Chiesa di Cristo una e unica non può essere realizzata in virtù delle semplici forze e capacità umane. Il Concilio ripone fermamente la sua speranza nella preghiera di Cristo per la sua Chiesa, nell’amore del Padre per noi e nella potenza dello Spirito Santo.

    Così Unitatis Redintegratio ha parlato dell’impegno e del dovere della Chiesa cattolica in favore della causa dell’unità dei cristiani.

    ALCUNE IMPORTANTI OSSERVAZIONI TEOLOGICHE

    1. L’ecumenismo segue l’ecclesiologia. Ciò che è la Chiesa il Concilio lo ha espresso nella Costituzione Lumen gentium. Su questa base dottrinale, Unitatis redintegratio esplicita la via e la metodologia per il ristabilimento dell’unità di tutti i cristiani. Il Concilio ha abbracciato il movimento ecumenico perché ha inteso la Chiesa come un movimento, ovvero come il Popolo di Dio in cammino (Lumen gentium 8,9,48-51; UR, 2). In altre parole, il Concilio ha riconosciuto una rinnovata importanza alla dimensione escatologica della Chiesa, descrivendo la Chiesa non come un’entità statica, immobile, ma come una realtà dinamica, come il Popolo di Dio pellegrinante tra il «già» e il «non ancora». Questa dinamica escatologica richiama e configura la ricerca dell’unità di tutti i battezzati. Necessariamente e non come qualcosa di secondario, la Chiesa percorre la via dell’impegno ecumenico (cf Ut Unum Sint, 7). La ricerca dell’unità non è un’istanza libera, ma è parte integrante della natura stessa della Chiesa e della sua attività pastorale (cf Ibid. 20).

    2. La questione più spinosa: il «subsistit in». Il Concilio concepisce la Chiesa come il Popolo di Dio in pellegrinaggio nella storia fino alla seconda venuta di Cristo (cf Lumen gentium 8). Questa prospettiva escatologica non significa che la piena realizzazione della Chiesa deve ancora avvenire in un futuro sconosciuto e che oggi abbiamo soltanto un’incarnazione imperfetta di ciò che Cristo voleva per la sua Chiesa. Alcuni forse la pensano in questo modo. Essi vedono tutte le Chiese e le Comunità ecclesiali come facenti ugualmente parte dell’unica Chiesa e, di conseguenza, percepiscono l’obiettivo dell’ecumenismo semplicemente come il mutuo riconoscimento e la accettazione vicendevole. Lumen gentium 8 espressa chiaramente la posizione cattolica: «L’unica Chiesa di Cristo... sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui» (LG 8). In altre parole, la continuità storica della Chiesa fondata da Cristo è presente e operante in quella comunità costituita e organizzata nel mondo come società visibile, nella comunione con il Vescovo di Roma e con i vescovi in comunione con lui.
    In modo tradizionale, il Concilio avrebbe potuto dire: la Chiesa cattolica è la Chiesa di Cristo una e unica. Il Concilio ha adottato però il termine «subsistit in» per tenere fede a questo concetto tradizionale e, al tempo stesso, esprimere il fatto che elementi di genuina «ecclesialità» esistono anche al di fuori dei confini visibili della Chiesa, come più sopra accennato. Poiché le Chiese e le Comunità ecclesiali non cattoliche possiedono un certo livello di ecclesialità – e alcune un livello molto alto –, esse sono partecipi dell’unità e della cattolicità inerenti alla Chiesa cattolica. Tuttavia, tale unità e tale cattolicità sono compromesse dalla divisione. È pertanto doloroso e contraddittorio il fatto che molti cattolici, perfino vescovi e sacerdoti, abbiano ben poco interesse per l’ecumenismo. Nella loro autosufficienza, non vedono che la loro Chiesa con la sua missione sono rovinosamente minate dalle divisioni tra i battezzati.

    3. Le Chiese ortodosse. Poiché le Chiese orientali hanno mantenuto gli elementi essenziali dell’ecclesialità, ivi compreso il sacerdozio nella successione apostolica e quindi l’eucaristia, esse sono considerate dalla Chiesa cattolica come vere chiese locali, come «chiese sorelle» delle chiese cattoliche locali. Siamo in una comunione quasi piena.
    Tra cattolici e ortodossi, la questione principale verte sul ruolo del Vescovo di Roma come il primo (protos) tra i vescovi e quindi sul tipo di autorità che egli può esercitare in una Chiesa unita. La Commissione Mista Internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa sta al momento studiando la questione in maniera approfondita. Dovremo probabilmente attendere ancora molti anni prima che si riesca a pervenire ad una posizione comune, ma dopo un millennio di separazione, un po’ di pazienza è pienamente giustificata! Nel frattempo, nei cinquant’anni trascorsi dal Concilio Vaticano II, i contatti e la collaborazione tra cattolici, ortodossi e ortodossi orientali sono diventati quasi ovunque una normalità, di grande beneficio per tutte le parti, specialmente in regioni come il Medio Oriente dove cattolici e ortodossi vivono in una vicinanza quotidiana, spesso nella stessa famiglia.

    4. Relazioni con il mondo protestante. Le Chiese protestanti non intendono se stesse come «Chiesa» nel senso in cui la Chiesa cattolica si auto-concepisce. Per questo motivo, i documenti cattolici si riferiscono a loro come a Comunità ecclesiali, ma sempre nella consapevolezza che tali Comunità non sono assolutamente prive di rilievo e importanza nel mistero della salvezza (cf UR 3). I dialoghi teologici proseguono nello sforzo di giungere a convergenze. Nel frattempo, è estremamente importante che cattolici e protestanti preghino insieme e lavorino insieme per l’unità, rendendo davanti al mondo una testimonianza comune della speranza in Cristo che entrambi condividono.
    Nel movimento ecumenico vi è una crescente consapevolezza della necessità di coinvolgere nel dialogo i cristiani pentecostali, evangelicali e carismatici. Queste comunità, sorte nel XX secolo, rappresentano adesso un quarto dei cristiani nel mondo e sono in continua espansione. È importante che i cattolici ricordino che essi sono veri cristiani poiché, in generale, sono validamente battezzati con acqua e con l’invocazione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. A volte, alcuni di essi non ricambiano tale riconoscimento e non considerano i cattolici e gli altri protestanti come autentici cristiani poiché ritengono che sia necessaria una professione di fede personale prima del battesimo, mentre le Chiese storiche praticano il battesimo dei bambini. Negli ultimi decenni, sono state intavolate serie conversazioni teologiche tra il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e molti di questi nuovi gruppi religiosi. Lo scopo immediato è quello di conoscersi meglio e di superare rivalità e conflitti che insorgono a volte in contesti locali. Anche il movimento di spiritualità carismatico all’interno della Chiesa cattolica può essere di grande aiuto nel costruire ponti con questi gruppi cristiani.

    E adesso?

    Cinquant’anni dopo il Concilio Vaticano II, i rapporti tra le Chiese cristiane divise si sono completamente trasformati. Il mio amico di otto anni oggi non avrebbe nessun problema a partecipare ad una celebrazione in una chiesa cattolica, così come i cattolici sono spesso presenti a servizi liturgici e preghiere in altre chiese. Il dialogo ecumenico ha fondamentalmente risolto le controversie cristologiche che divisero le Chiese nel V e VI secolo. Esso ha mostrato che la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, dopo secoli di separazione, continuano ad avere la stessa ecclesiologia, lo stesso sistema sacramentale, la stessa successione apostolica. Ha portato cattolici, luterani e metodisti a concordare sul fatto che, nella sostanza, non siamo in disaccordo sulla questione cruciale che ha diviso i nostri antenati nel XVI secolo, ovvero la questione della giustificazione: in altre parole, il modo in cui la salvezza offerta da Cristo rende realmente operanti in noi i suoi effetti. Il dialogo ha aperto la strada, come ha sottolineato il Beato Papa Giovanni Paolo II, alla «fraternità ritrovata» (Ut Unum Sint, 41-49). Il Decreto sull’ecumenismo è stato l’inizio di un viaggio che ha fatto percorrere molta strada ai cristiani, avvicinandoli sempre più alla riconciliazione e alla solidarietà.
    Anche se ancora non siamo giunti alla meta, possiamo sentirci grandemente incoraggiati da ciò che è avvenuto ad Assisi il 27 ottobre dello scorso anno. Papa Benedetto XVI ha invitato i cristiani e i fedeli di altre tradizioni religiose, come pure alcuni esponenti del mondo della non-credenza, ad una giornata di riflessione, di dialogo e di preghiera per la giustizia e la pace nel mondo. Oltre trenta diverse Chiese e Comunità cristiane hanno inviato le loro delegazioni ufficiali! Il fatto che così tanti leaders cristiani si siano riuniti intorno al Vescovo di Roma, seppure non siano ancora in piena comunione con lui, è un segno della grazia di Dio che sta già producendo un buon raccolto. Il più grande peccato sarebbe perdere fiducia e pazienza e abbandonare questo processo irreversibile e irrevocabile al quale non vi è nessuna reale alternativa, né per la Chiesa, né per il mondo. Il mondo può soltanto trarre beneficio dal ristabilimento della comunione tra i cristiani. Questa è stata la grande speranza che ha animato il Concilio. E questa deve essere la speranza che sostiene i nostri sforzi ecumenici oggi. Ecco perché UR termina con le parole: «La speranza non inganna, poiché l’amore di Dio è largamente diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci fu dato (Rm 5,5)» (n. 24).

    * Segretario del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’unità dei cristiani


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