Incanti di libertà o passioni tristi? /8
Paolo Zini
(NPG 2012-05-08)
«Non vedo altre alternative,
ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso
ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri.
E convinciamoci che ogni atomo di odio
che aggiungiamo al mondo
lo rende ancor più inospitale».[1]
Sono parole che scavano dentro, quelle di Etty Hillesum, ragazza ebrea morta a 29 anni nel campo di sterminio di Auschwitz.
E per intraprendere una riflessione sulle vie che conducono la libertà al suo fallimento o al suo compimento pochi documenti hanno l’autorevolezza del diario e delle lettere scritte dal suo eroismo.
Sono passati, questi scritti, attraverso una prova crudele, che, suo malgrado, li rende autorevoli; testimoniano infatti la maturità di un cuore costretto a vivere l’assedio dell’odio, fino ad esserne sommerso, ma capace di effondere amore.
L’odio e l’amore dunque.
Non v’è alternativa più radicale nell’esistenza umana, e il luogo ove queste disposizioni si consolidano è il cuore, che, in base ad esse, orienta la libertà nel suo rapportarsi alle cose e alle persone.
L’esperienza di Etty Hillesum testimonia la fecondità cui può giungere un’esistenza guidata da un cuore indomito nel bene, la cui energia sa rivelarsi vittoriosa della depravazione collettiva più inquietante.
Rimarcare retoricamente la singolarità di una simile testimonianza è però vano; fecondo è invece attendere alle molteplici indicazioni che in essa emergono per una libertà alla ricerca di percorsi credibili di crescita.
Il diario di Etty Hillesum è un testo di notevole valore formativo, perché annota con estrema finezza le esigenze, le fatiche e le possibilità di una maturazione della libertà nell’amore.
Una pagina del 27 febbraio 1942 è preziosa proprio per comprendere l’orientamento fondamentale dell’esistenza di Etty:
«Mi sembra presuntuoso affermare che un uomo possa determinare il proprio destino dall’interno. Quel che invece un uomo ha in mano è il proprio orientamento interiore verso il destino».[2]
Nella semplicità della loro formulazione queste parole suggeriscono una prospettiva di vita spesso estranea alla sensibilità contemporanea: l’impegno per la formazione del cuore come vero tirocinio della libertà, altrimenti ridotta a principio di esondazione di un io ignoto a se stesso e minaccioso per gli altri.
In un abisso di devastazione Etty Hillesum non cede ad un pessimismo risentito o rassegnato, ma coltiva quell’orientamento interiore del quale avverte, insieme, la piena responsabilità e lo straordinario potere:
«Volevo solo dire questo: la miseria che c’è qui è veramente terribile – eppure, alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce – non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare –, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita. Forse io sono una donna ambiziosa: vorrei dire anch’io una piccola parolina».[3]
È semplicemente nominale questa possibilità del cuore di resistere alla corrosività dell’odio erogando amore?
Per Etty Hillesum non solo si tratta di una possibilità realizzabile, ma dell’unico compito capace di fare di un’esistenza un capolavoro di senso anche tra congiunture esterne di assoluta abiezione.
E la via di realizzazione di questo compito è, insieme, di sorprendente semplicità e di straordinaria fatica: è la via dell’ascolto della realtà fin nelle sue fibre più intime e, per suo mezzo, della conoscenza di sé fino alle profondità ultime dell’anima.
Questa via di formazione, a dispetto delle apparenze, è assai poco di moda, e non può affatto essere confusa con la compiaciuta condiscendenza dell’uomo postmoderno alle incoerenze della propria umoralità, che non solo pretende di guidare la libertà nel rapporto alla realtà, ma reclama pubblicamente e privatamente intangibilità e rispetto assoluti.
Così, l’uomo che elegge l’immediatezza dell’agire a principio della sua esistenza riduce il mondo e gli altri a riflesso ondivago del proprio capriccio.
La scelta di Etty Hillesum è di ben altra natura: è decisione per la formazione del cuore nel diuturno contatto con la verità del mondo; qui non solo l’agire trova – nell’incontro con la verità, il valore, la dignità delle cose e delle persone – la sola premessa che lo rende affidabile, ma il cuore attinge alla sorgente del proprio nutrimento, che ne dilata gli orizzonti e ne affina la sensibilità, formandolo nell’esperienza dell’amore.
Il confronto con il sorprendente cammino di Etty Hillesum rende però inaggirabile una domanda: perché l’odio, con tutta la sua minaccia per la qualità dell’esistere, esercita comunque un fortissimo potere seduttivo sulla libertà, tanto da rendere l’amore un bene rarissimo, nonostante l’assoluta necessità che l’uomo ne ha?
Le vette dell’onnipotenza e i dirupi del cinismo
Se il diario di Etty Hillesum indica, nell’impegno della formazione interiore alla scuola della verità delle cose, la via che instaura nel cuore la disposizione all’amore, si può ipotizzare che l’atrofia di questo sentimento fondamentale abbia tra le sue cause proprio un impiego della libertà orientato al dominio della realtà ma incapace di ascoltarne la voce.
Una notissima pagina di Goethe conferma, forse, l’ipotesi; il celebre monologo di Faust, nel dramma omonimo, impegnato nella traduzione dell’incipit del vangelo di Giovanni, fa risuonare l’interrogativo circa l’espressione più adatta a nominare ciò da cui tutta la realtà proviene: in principio è la parola (das Wort)? oppure il pensiero (der Sinn)? o ancora la forza (die Kraft)?
Faust opta per una traduzione che non riflette soltanto la complessa calibratura del pensiero romantico del primo Ottocento, ma un lineamento tipico della visione del mondo che si sarebbe progressivamente imposta a livello individuale e collettivo nei secoli XIX e XX: in principio era l’azione (die Tat).[4]
Se non si può intendere sbrigativamente l’azione di cui parla Faust nei termini di materialità dell’agire umano, è innegabile il legame tra la solennità di questa nominazione del principio d’ogni realtà e l’euforia della modernità, sempre più inebriata della potenza capace di animare ogni espressione della sua attività creatrice.
Ma proprio il delirio umano di onnipotenza, nato dalla sorpresa per la capacità dell’azione di imporsi al mondo, di trasformarlo, di ricrearlo, non è divenuto sovente una fonte di calamità per i singoli e per le collettività?
Forse tocca rispondere sì e riconoscere che tale delirio ha reso fortunata l’aberrazione di considerare le azioni dell’uomo principio della verità delle cose, fino a calpestare il rispetto della verità delle cose quale principio necessario ad ogni azione umana degna di questa qualificazione.
Di tale aberrazione anche la barbarie nazista è un’espressione, quella barbarie di cui Etty Hillesum solo in certo modo è vittima, poiché in verità è vincitrice.
Il diario e le lettere attestano la grandezza della vittoria del cuore e dell’intelligenza di questa ragazza ebrea sulla tragedia della Shoah.
Di vittoria si tratta, perché, fuori da ogni rassegnazione e da ogni simmetria reattiva, le sue opere sono una lucida diagnosi teorica delle malattie del cuore umano, vere radici di ogni non senso.
E la sua vita rende efficace testimonianza alla forza d’animo, capace di superare anche la prova della violenza più oscura.
Non va perduta la possibilità di soffermarsi su questa diagnosi teorica resa autorevole dalla coerenza di una vita straordinaria:
«Mercoledì mattina presto, quando con un gruppo numeroso ci siamo trovati in quel locale della Gestapo, i fatti delle nostre vite erano tutti uguali: eravamo tutti nello stesso ambiente, gli uomini dietro la scrivania come quelli che venivano interrogati. Ciò che qualificava la vita di ciascuno era l’atteggiamento interiore verso quei fatti. Si notava subito un giovane che camminava su e giù con un’espressione palesemente scontenta, assillato e tormentato. Cercava in continuazione pretesti per urlare a quei disgraziati ebrei: “Mani fuori dalle tasche, per favore...”, ecc. Per me era da compiangere più di coloro a cui stava urlando; e questi, a loro volta, facevano pena nella misura in cui erano impauriti».[5]
Quelle che attentano alla vita del cuore sono, allora, le minacce da scongiurare, secondo Etty Hillesum, se non vuole essere retorico e velleitario il desiderio di preservare il mondo dalle catastrofi dell’irrazionalità e dell’odio:
«Coloro a cui è toccato lo snervante privilegio di poter rimanere a Westerbork “fino a nuovo ordine”, corrono un grave rischio morale: quello di diventare apatici e insensibili.
Il dolore umano che abbiamo visto laggiù nel corso di quest’ultimo mezzo anno, e che vi si può ancora vedere ogni giorno, è più di quanto un individuo sia in grado di assorbire in un periodo così limitato. Del resto, lo sentiamo dire ogni giorno e in tutti i toni: “Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, vogliamo dimenticare il più possibile”. E questo mi sembra molto pericoloso.
Certo, accadono cose che un tempo la nostra ragione non avrebbe creduto possibili. Ma forse possediamo altri organi oltre alla ragione, organi che allora non conoscevamo, e che potrebbero farci capire questa realtà sconcertante.
Io credo che per ogni evento l’uomo possieda un organo che gli consente di superarlo.
Se noi salveremo i nostri corpi e basta dai campi di prigionia, dovunque essi siano, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare – se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione –, allora non siamo una generazione vitale».[6]
La tragedia dei campi di sterminio insegna al cuore pensante di Etty Hillesum che è la vita nella sua quotidianità, la vita di tutti i giorni e di tutti gli uomini a necessitare di un cambiamento, di una conversione.
Sofferenza, smacco, delusione, impotenza fanno parte dei giorni umani e sfidano il cuore: se questo è immaturo, le risposte dell’atrofia e della chiusura sono inevitabili.
Ma l’atrofia non può non essere cinica e, inesorabilmente, dispone all’odio.
E dal cinismo e dall’odio vengono solamente tragedie personali e catastrofi collettive ed epocali.
Per questa ragione sui mali più profondi del cuore Etty Hillesum è severa, persino quando rendono ancora più atroce la schiavitù di molti suoi fratelli di razza e di sventura:
«La cosa più deprimente è sapere che quasi mai, nelle persone con cui lavoro, l’orizzonte interiore si amplia per queste esperienze. Non soffrono neppure in profondità. Odiano, e sono ciecamente ottimisti se si tratta della loro piccola persona, e sono ancora ambiziosi per il loro piccolo impiego; è una gran porcheria».[7]
L’insidia della morte interiore angustia Etty Hillesum più di ogni persecuzione; le sue osservazioni fanno emergere allora un preciso interrogativo: quando la neutralizzazione della sofferenza, la consuetudine con la superficialità, le risposte del cinismo, spingono il cuore nell’abisso dell’odio?
La gelida oscurità dell’odio
Nel quarto capitolo dei Promessi Sposi, il Manzoni è alle prese con la presentazione dei trascorsi giovanili burrascosi di Padre Cristoforo, e regala al lettore un’osservazione di grande finezza sulle disposizioni del cuore umano: «Giacché è uno de’ vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare ed esser odiati, senza conoscersi».[8]
L’evidenza cui allude Manzoni, quella di una conoscenza mancata, non è un corollario possibile dell’odio, ma la sua enigmatica e oscura specificità.
La nota manzoniana conferma l’analisi di Etty Hillesum che, riflettendo sulle ragioni per le quali l’esistenza di molti uomini presenta i caratteri di una vera e propria agonia dell’interiorità, giunge ad una precisa conclusione: quando la libertà evita al cuore la fatica della conoscenza, mentre risparmia all’esistenza molto dolore, la sprofonda in un’oscurità sempre più fitta:
«Mio padre, a un’età avanzata, ha sfumato tutte le sue insicurezze, dubbi, probabilmente anche complessi d’inferiorità puramente fisici, difficoltà irrisolte nel suo matrimonio, ecc. ecc. – ha sfumato tutto ciò grazie a un atteggiamento filosofico del tutto schietto, amabile, pieno di umorismo e molto acuto, ma con tutta la sua acutezza molto vago. Sotto questa filosofia, che giustifica tutto, che guarda solo all’aneddotico senza approfondire le cose – mentre sa che esistono le profondità, forse perché lo sa, quanto incommensurabilmente profonde siano le cose, e perciò rinuncia in partenza a trovare chiarezza – sotto la superficie di quella filosofia rassegnata che dice: oh sì, e chi lo può sapere! si apre il caos. È lo stesso caos che minaccia anche me, quello da cui devo uscire – e in ciò devo vedere il compito della mia vita […]. Dal caos, dal non aver preso posizione nei confronti delle cose, da ciò devo ora formare me stessa, dunque ora sì prender posizione, nota bene ‘confrontarmi’ con le cose, anche se ogni volta sarò presa dal dubbio: non è assurdo tutto quanto? Sì sì, bambini miei, così è la vita».[9]
Non c’è formazione dell’uomo, secondo Etty Hillesum, fuori da un esercizio della libertà finalizzato alla conoscenza del cuore e all’apertura del cuore alla conoscenza della realtà; l’alternativa è la confusione, il caos, l’ignoranza, il trionfo del generico.
E non possono rimediare a questa ignoranza né l’abilità del pragmatismo, né le sottigliezze dell’intellettualismo e neppure la retorica dolciastra dei buoni sentimenti.
È la preziosità dei singoli volti e dei rispettivi mondi ad andare perduta, in quelle forme di conoscenza totalmente concentrate sull’abilità operativa della mano, sulle astrazioni dell’intelligenza o sulle reazioni superficiali delle emozioni.
Non per raccomandare equivoche condiscendenze a situazioni ed eventi, Etty Hillesum si appella alla conoscenza del cuore, ma per indicare l’unico possibile rimedio al dilagare dell’indifferenziato, anticipazione solitamente sottovalutata d’ogni recrudescenza dell’odio:
«Questo non significa che uno sia indulgente nei confronti di determinate tendenze, si deve ben prendere posizione, sdegnarsi per certe cose in certi momenti, provare a capire, ma quell’odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia. È una malattia dell’anima. Odiare non è nel mio carattere. Se, in questo periodo, io arrivassi veramente a odiare, sarei ferita nella mia anima e dovrei cercare di guarire il più presto possibile».[10]
Il legame tra l’odio e un sapere rappacificato con la confusione, la caoticità, l’indifferenziato, non è un referto accidentale, imputabile alla sensibilità o all’esperienza di vita di Etty Hillesum.
La storia ne attesta la tragica ricorrenza in ogni suo abisso di male: l’odio inquieta sempre per la sua serialità, per il suo bisogno forsennato di chiudere gli occhi sulle individualità che colpisce.
Fuori dalla legittimazione di principi astratti, che riducono i singoli ad un insieme identificato per un tratto esteriore o superfiale comune, l’odio non riuscirebbe a rafforzarsi e a diffondersi.
E sconcertante è il riflesso che, con le sue astrazioni, l’odio produce su chi ne è animato: la serialità a partire dalla quale viene compresa la vittima, fuori dall’incontro con la sua identità, risucchia il carnefice in un anonimato altrettanto astratto e disperato.
A fomentare l’odio sono così riduzioni di sé e di altri alla contrapposizione di classi, di razze, di bandiere, di massime, in una oscurità dilagante che spegne ogni sguardo, impedisce ogni riconoscimento, fino a raggelare il cuore, uccidendone la sensibilità.
A vedere è l’amore
Se persino banale – a riprova dell’esattezza della nota tesi di Hannah Arendt – è il modo in cui si produce la dismisura dell’odio, e – proprio per questo – massima è la sua insidia, specularmente semplici sono le condizioni richieste per la fioritura dell’amore, ma ciò non impedisce che rara ne sia la pratica e colpevole il tradimento.
Il vertiginoso cammino di crescita nell’amore di Etty Hillesum, che neanche la condizione di vittima dell’odio riesce a frenare, demolisce ogni alibi e fa verità sulla grandezza e miseria del cuore umano:
«Qui molti sentono languire il proprio amore per l’umanità, perché questo amore non è nutrito dall’esterno. Dicono che la gente di Westerbork non ti offre molte occasioni di amarla. Qualcuno ha detto: “La massa è un orribile mostro, i singoli individui fanno compassione”. Ma ho dovuto ripetutamente constatare in me stessa che non esiste alcun nesso causale fra il comportamento delle persone e l’amore che si prova per loro. Questo amore del prossimo è come un ardore elementare che alimenta la vita. Il prossimo in sé ha ben poco a che farci. Maria cara, qui di amore non ce n’è molto eppure mi sento indicibilmente ricca, non saprei spiegarlo a nessuno».[11]
L’amore qui descritto è di una crocifiggente semplicità, dai significati sideralmente distanti rispetto a quelli che ricorrono nella retorica sentimentaloide postmoderna.
Etty Hillesum indica nell’amore il sentimento in virtù del quale il cuore trae da sé la forza per riconoscere il bene prezioso custodito dalla singolarità dell’altro, anche a dispetto delle sue apparenze esteriori o dei suoi gesti.
Se l’odio si fomenta attraverso la serialità, l’amore si nutre di individualità; se l’odio è oscurità e freddezza, l’amore diffonde luce e calore; se l’odio rattrappisce il cuore, l’amore lo dilata, senza temere lo spasimo che la scommessa sull’altro può comportare.
Ma, se queste caratteristiche sottolineano aspetti di desiderabilità dell’amore, vi sono esigenze – ed Etty Hillesum le ha accolte secondo la misura dell’eroismo – che realisticamente ne illuminano il sacrificio, la fatica, il prezzo.
Infatti è l’amore a dilatare il cuore, ma è lo stesso amore ad esigerne l’apertura, e questo fuori da un semplice scambio con la realtà ispirato alla naturalità dell’equilibrio o al meccanicismo di qualche causalità.
Per questo nessun cuore può produrre l’amore dell’altro, del quale vorrebbe beneficiare.
Ricevere amore, essere riconosciuto nella preziosità del valore della propria individualità, è per ogni uomo un miracolo di gratuità, sebbene sia l’unica via per accedere al mistero della propria unicità e del proprio autentico e ultimo valore.
Così nessuna necessità può produrre questo miracolo, in assenza del quale un’interiorità, non dischiusa a se stessa dall’amore di un altro rimane ignara di sé.
Ma, come se ciò non bastasse, è dell’amore, quando si produce nel dono gratuito di altri, creare le condizioni per farsi accogliere dal cuore cui si destina, senza tuttavia potersi imporre.
Così non ha nulla di scontato neppure l’apertura d’un uomo all’amore offertogli da altri; esperienza dolorosamente nota a chi è sovente chiamato a prove eroiche d’amore per liberare dalla corazza della diffidenza, del sospetto, della paura esistenze affamate d’amore, ma soffocate dalla disperazione di poterne trovare.
E, da ultimo, non è sufficiente all’uomo essere stato amato per divenire fonte effettiva di amore per gli altri.
Anche qui nessuna legalità prevedibile è autorizzata, ma solo eventi di gratuità, tanto convincenti quanto misteriosi nel loro prodursi.
Se infatti non basta all’uomo essere amato per aprirsi all’amore, e neppure basta aprirsi all’amore per corrispondervi, a maggior ragione, non è sufficiente aver fatto esperienza dell’amore per iniziare a donarne ad altri, presentino essi tratti amabili oppure no.
Addirittura Etty Hillesum, con l’autorevolezza della sua esperienza, assicura che all’amore non è necessario, ma neanche potrebbe bastare, per nascere, l’amabilità della condotta del suo destinatario.
Per quanto dunque se ne contemplino le evenienze, l’amore non scioglie il suo mistero: nulla è più necessario all’uomo, ma nulla forse è meno scontato del suo prodursi.
E quando lo ha per protagonista, un evento è riconoscibile per il prezzo che in esso qualche cuore ha pagato, a coronamento del quale però, come provenendo da molto lontano, sempre senza costrizioni, l’amore giunge, con la grazia di un dono inatteso, nella generosità sempre eccedente della sua misura.
Dunque?
Ad impedire che la libertà del volere si muti in arbitrio minaccioso per sé e per gli altri è la capacità dell’uomo di riconoscere la dignità e la preziosità di quanto lo circonda.
Per questo la formazione dell’animo alla profondità dell’ascolto e dello sguardo è essenziale al compiersi di una vita autenticamente personale.
La sfida della profondità chiede all’uomo di lasciarsi condurre dall’immediatezza di cose, fatti e gesti che animano il mondo, oltre la loro stessa parzialità e superficie, fino al nucleo più intimo della loro origine e verità.
L’incontro con tale profondità, di sé e del mondo, si produce sotto il segno di una sorprendente gratuità: gratuita è la novità, l’unicità e la preziosità posta al cuore dell’esistenza personale, e gratuita è la tenacia di cui il cuore si scopre abitato corrispondendo alla scoperta di quella gratuità o cercandola quando le più sconcertanti apparenze si ostinano ad occultarla.
Amore è il nome di questa sensibilità per il gratuito, che ispira una corrispondente gratuità.
Solo ponendosi a servizio di questa sensibilità, ben oltre la meschinità del calcolo opportunistico e dalla grevità del contrattualismo aritmetico, la libertà conosce e testimonia le ragioni feconde della propria speranza.
NOTE
[1] E. Hillesum (J.G. Gaarlandt ed.), Diario 1941-1943 (Gli Adelphi), Adelphi, Milano 20049, nota del 23.09.1942, 212.
[2] E. Hillesum (J.G. Gaarlandt ed.), Diario 1941-1943…, nota del 27.02.1942, 101.
[3] E. Hillesum, Lettera a Johanna e Klaas Smelik e altri, Westerbork 03.07.1943, in Id. (C. Passanti ed.), Lettere 1942-1943 (Gli Adelphi), Adelphi, Milano 20033, 87.
[4] J.W. Goethe (G. Manacorda ed.), Il Faust…, 40, Rizzoli 2005.
[5] E. Hillesum (J.G. Gaarlandt ed.), Diario 1941-1943…, nota del 27.02.1942, 101.
[6] E. Hillesum, A due sorelle dell’Aia, Amsterdam – dicembre 1942, in Id. (C. Passanti ed.), Lettere 1942-1943..., 44-45.
[7] E. Hillesum (J.G. Gaarlandt ed.), Diario 1941-1943…, nota del 23.07.1942, 183.
[8] A. Manzoni, I Promessi Sposi. Storia milanese del secolo XVII, SEI, Torino 1931, 75.
[9] E. Hillesum (J.G. Gaarlandt ed.), Diario 1941-1943…, 81.
[10] E. Hillesum (J.G. Gaarlandt ed.), Diario 1941-1943…, nota del 15.03.1941, 30.
[11] E. Hillesum, A Maria Tuinzing, Westerbork 07.08.1943, in Id. (C. Passanti ed.), Lettere 1942-1943...,