Educazione e mistica /2
Raffaele Mantegazza
(NPG 2012-05-77)
Un cielo per il quale si possa indicare la via,
non è un cielo
(Max Horkheimer)
La teologia negativa è legata a nomi quali Dionigi lo Pseudo-Aeropagita e Nicola Cusano, ma le sue radici antropologiche sono ben più antiche: basti pensare al divieto veterotestamentario di farsi «immagine alcuna» della divinità: nessuna immagine terrena può avere l’ardire di esaurire nella sua finitudine l’infinitezza di Dio.
L’idea che «finitum non est capax infiniti», ovvero che il regno della finitudine che ci ospita non può contenere l’infinito, è ben presente in tutti i mistici, ma fa parte anche della nostra vita quotidiana: provare una gioia «inesprimibile», sperimentare per la perdita di un amico un dolore che non è comunicabile a parole, osservare un’opera d’arte ed esserne ridotti al silenzio, rimanere impietriti di fronte a un panorama naturale: tutte queste emozioni sono per certo versi il riflesso di quel silenzio e di quello straniamento che la divinità immette in chi la sperimenta e non riesce poi a trovare il modo di comunicarlo.
È ciò che accade, e più volte, anche a Dante:
«Vidi cose che ridire
Né sa né può chi di là su discende
Perché appressando sé al suo disire
Nostro intelletto si profonda tanto
Che dietro la memoria non può ire»
(Paradiso I, 51)
per citare uno solo dei numerosissimi loci della Commedia nei quali il poeta ci dice l’inabilità del suo dire; ma nonostante tutta la Commedia sia basata sull’assunto che «A l’alta fantasia qui mancò possa» (Par. XXXIII, 142) è anche vero che Dante non si sottrae al compito di scrivere e di descrivere.
Il messaggio educativo è chiaro: anche se non possiamo dire, de-finire la divinità, possiamo e dobbiamo comunque provare a parlarne: «Quando parliamo delle cose divine dobbiamo balbettare giacché si deve esprimerle in parole»[1] afferma un mistico, utilizzando lo stesso termine che Paolo de Benedetti usa per cercare di spiegarci come fare a parlare della Shoah: «balbettare Auschwitz».
È il superamento del mondo del visibile, il superamento del qui-ed-ora che però non significa affatto suo tradimento o svalutazione: è questo il messaggio educativo dell’idea della teologia negativa. Nessuna delle cose terrene può pensare di sostituirsi a Dio e nemmeno di nominarlo, perché il linguaggio è cosa umana, creatura e strumento degli esseri finiti che noi siamo:
«Se chiamassi Dio essere parlerei tanto falsamente quanto se dicessi che il sole è pallido o nero (…) Dio non è né essere né bontà (…) Chi dicesse che Dio è buono parlerebbe male di lui come chi dicesse che il sole è nero».[2]
Il linguaggio strumentale e definitorio, il linguaggio della scienza esatta, pur necessario negli ambiti che gli sono propri, mostra qui la corda: solo altri i linguaggi, altri i codici che possono balbettare Dio, altre le parole o le non-parole che possono avvicinarglisi. Non per nulla è propria dei mistici l’attenzione alla poesia, all’arte, alla danza, e non per niente sono proprio questi codici anti-strumentali ad essere sottoposti a impietosa critica dall’educazione dominante, tutta tesa a far acquisire ai ragazzi una techné spesso svincolata da qualunque forma di trascendenza.
Ma Dio è la «montagna della nudità senza immagini»;[3] non nel senso di una iconoclastia fine a se stessa, ma in quello molto più profondo della necessità di avere immagini che ci avvicinino (e ci educhino) all’ineffabile ma anche della comprensione dell’insufficienza di queste immagini, anche prese nella loro totalità. Dio è l’asintoto, il limite, non il risultato che si ottiene sommando un numero sufficiente di preghiere o di nomi, oppure di opere buone. Dio si sottrae a qualsiasi contabilità. Nemmeno gli anni e il loro fluire infinito sarà mai pari all’infinito di Dio: «Pensi di poter dire il nome di Dio nel tempo? / Neppure lo si dice in una eternità».[4]
Siamo di fronte a una concezione radicale del divino, aliena da ogni compromesso, scevra di contaminazioni con il finito; una concezione che è certamente figlia dell’estasi mistica, di quell’immersione nel mare del divino che il mistico ha sperimentato e di fronte alla quale ogni altra realtà terrena sembra un’ombra annacquata:
«Quel che è Dio non si sa!
Non è luce né spirito
Non estasi, né uno,
né ciò ch’è detto divinità
Non sapienza o intelletto,
volontà, bene o amore
Non è cosa o non-cosa,
non essere o affetto
È ciò di cui io, tu e nessuna creatura
Mai abbiamo esperienza,
finché non siamo Lui».[5]
Ma è anche vero che questa concezione ha la straordinaria forza di relativizzare tutto ciò che incontriamo nella nostra vita, non nel senso di svalutarlo a priori ma di contestarne la valenza assoluta, in quella che potremo definire una operazione anti-idolatrica.
Di fronte a domande del tipo «la carriera vale una vita?» che spesso i nostri giovani si sentono porre, di fronte a un mondo del lavoro che ghermisce in modo sempre più totalizzante il loro tempo vitale e a un mondo del consumo che propone loro sempre nuovi oggetti che si spacciano per «la soluzione finale» ai loro problemi (di forfora o di comunicazione) occorre rivalutare questa idea che «nulla vale una vita», perché è il fluire infinito della vita a costituire il valore ultimo, trascendente o trascendentale che sia, laico o religioso che sia.
Ma per il cristiano c’è un’eccezione a questa regola secondo la quale il finito non può contenere l’infinito; e come in un universo leibniziano o nell’Aleph di Jorge Luis Borges.
L’Incarnazione intesa in questo modo assume allora il rilievo di un dramma cosmico, dello sconquasso di un cosmo che per la prima volta vede l’infinito racchiudersi veramente nel più piccolo degli elementi del finito (questo è un tratto autenticamente giudaico). «E tu Betlemme, la più piccola»: è qui, in questo piccolo grembo di una adolescente palestinese, che si ribalta il rapporto tra finito e infinito:
«Dici che il grande
non può stare nel piccolo
Che il cielo non si chiude
nel punto che è la Terra
Vieni, guarda il figlio della Vergine
E il cielo e la terra
e cento altri mondi».[6]
Ed è qui allora la forza di un messaggio che forse troppo spesso è dimenticato nella sua pregnanza pedagogica: essere «nel mondo ma non del mondo» non significa affatto chiudersi in qualche forma di contemptus mundi o disprezzare il finito per cercare un infinito per raggiungere il quale ci mancherebbe la base.
Come direbbe Rilke, il nostro essere qui, finiti tra cose finite, è comunque una sfida che trova nella nominazione, nel dare nome alle cose finite intendendole come ombre dell’infinito, la sua vera motivazione.
«Anche il viandante dalla china lungo il ciglio del monte
una manciata di terra non reca,
a tutti indicibile, giù nella valle
ma una parola da lui conquistata, pura, la gialla e azzurra genziana.
Siamo qui forse per dire: casa,
ponte, fontana, porta, brocca,
albero da frutto.
Finestra al più: colonna, torre...
ma per dire, comprendilo
per dire così come persino le cose intimamente mai
credettero d’essere».[7]
Essere nel mondo per dire le cose, regalando loro insieme al nome una nuova forma d’essere, e al contempo mai illudendosi di esaurire con ciò il gioco dell’infinito, di trovare il nome definitivo (nemmeno nella mappatura del genoma, nemmeno nell’acceleratore di particelle di Ginevra, nemmeno nella Teoria Unificata dei campi); questo è forse il senso della scienza, questo è il senso pedagogico attuale della teologia mistica negativa. «Perché la pace che ho sentito in certi monasteri / o la vibrante intesa di tutti i sensi in festa / sono solo l’ombra della luce».[8]
Ma un’ombra che, con la sua frescura, ci è assolutamente necessaria per continuare a vivere.
NOTE
[1] Meister Eckhart, I sermoni, Edizioni San Paolo, pag. 202.
[2] Id. pag. 148.
[3] Giovanni di Ruusbroec, La vita divina, Leonardo c, 67.
[4] Angelus Silesius, Il pellegrino cherubico, San Paolo, II, 51.
[5] Ivi, III, 21.
[6] Ivi, III, 29.
[7] Rainer Maria Rilke, La nona elegia, in Poesie II (1908-1926), Torino, Einaudi, 1995, pag. 97.
[8] Franco Battiato, L’ombra della luce.