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    Ci sono obiezioni

    alla preghiera?

    Commento al Compendio del Catechismo /33

    Enzo Bianchi

     

    Oltre a concezioni erronee, molti pensano di non avere il tempo di pregare o che sia inutile pregare. Coloro che pregano possono scoraggiarsi di fronte alle difficoltà e agli apparenti insuccessi. Per vincere questi ostacoli sono necessarie l’umiltà, la fiducia e la perseveranza. 

    (Compendio del Catechismo n. 573) 

    In un precedente articolo abbiamo meditato sull’obiezione forse più diffusa alla preghiera, quella relativa alla mancanza di tempo. Accanto a essa ve n’è un’altra molto frequente: pregare è utile? Se Dio sa tutto, non è forse inutile fargli delle richieste? Sono domande antiche, e tuttavia ritornano ancora oggi, aggravate dal peso di un rapporto tra preghiera e vita che non si è saputo risolvere a livello spirituale.

    La preghiera non è la formula magica per colmare i nostri limiti o aggirarli ma, al contrario, si fonda proprio sulla nostra debolezza ed è possibile solo a partire dal riconoscimento della nostra condizione di povertà creaturale. Colui che incomincia a pregare supplicando e chiedendo lo Spirito santo, lo fa dando voce alla propria non-autosufficienza, riconoscendo di essere dipendente da una Presenza che lo precede e da cui si dispone a ricevere tutto. Questo riconoscimento elementare della propria limitatezza è il primo gradino da varcare per avere accesso alla propria verità, è un atto salvifico già a livello umano, e basterebbe di per sé a testimoniare l’utilità della preghiera.

    Oggi constatiamo inoltre che le difficoltà della preghiera nascono dall’immagine di uomo attualmente dominante. Il modello di uomo vincente è infatti quello dell’“uomo tecnologico”, che si affida alle proprie conoscenze per il superamento di limiti e ostacoli giudicati fino a poco tempo fa insormontabili; un uomo che è dunque animato dal bisogno di riscontrare in ogni sua attività un’efficacia immediatamente quantificabile. Il pericolo di questa mentalità applicata alla preghiera è lo snaturamento della preghiera stessa, inquadrata in una visione meccanica ed economica in cui ciò che sembra essenziale è la possibilità di quantificare il suo risultato concreto, il suo “utile”.

    Di fronte a questa concezione, occorre invece ribadire che la relazione della preghiera ha il suo inizio in Dio ed è, per l’appunto, una relazione, perseverante e fiduciosa: la preghiera non può essere ridotta a un monologo né a una semplice attività di riflessione in vista di un aggiustamento del proprio equilibrio psicologico. No, la preghiera è risposta all’amore preveniente di Dio, risposta capace di tradursi nella responsabilità di una vita spesa, di un corpo offerto in sacrificio (cf. Rm 12,1) per Dio e per gli uomini: radicata nell’amore ricevuto, la preghiera riconduce all’amore, genera all’amore, che è l’unico criterio di verifica dell’efficacia e dell’“utilità” della preghiera stessa.

    (Famiglia cristiana, 7 aprile 2013)

     


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