Il filo di Arianna della politica /8
Raffaele Mantegazza
(NPG 2023-06-78)
Come parlare
Il nome di Mohandas Gandhi è probabilmente noto a chiunque. L'apostolo della nonviolenza ha conquistato i cuori di molte persone con la sua storia esemplare e con i film e i libri che gli sono stati dedicati. Gandhi ha saputo guidare un popolo al boicottaggio e sabotaggio del potere coloniale attraverso strategie che rifiutavano qualunque forma di violenza. I movimenti nonviolenti costituiscono un arcipelago all'interno del quale è spesso molto difficile orientarsi; i riferimenti teorici spaziano dall'inesauribile opera di Gandhi all'insistenza sulle tecniche tipica di autori come Theodor Ebert e Gene Sharp alla dimensione internazionale assunta dalle analisi di Johan Galtung e Jan Oberg; per l'Italia occorre ricordare le ricerche di autori come Giuliano Pontara, Nanni Salio, Antonino Drago, Antonio Papisca e le testimonianze degli scomparsi Ernesto Balducci, David Maria Turoldo, Antonio Bello. Ma la nonviolenza è anche qualcosa di diverso da una tecnica o da una strategia: già il fatto che si parli di “nonviolenza” ovvero di una parola unica completamente diversa dall'espressione “non violenza” indica che non si tratta soltanto del rifiuto di metodologie violente ma di una vera e propria concezione del mondo e della vita. Non c’è dunque concettualmente e quasi ontologicamente una violenza come dato originario da rifiutare, ma un modo di intendere i rapporti umani. Dunque la nonviolenza è legata all'idea che la violenza non è un destino e non è iscritta nei geni dell'essere umano, ma è sempre e comunque una scelta, uno stile di vita.
Da questo punto di vista dunque la nonviolenza ha che fare con la differenza di genere, con il rispetto delle minoranze, con l’ecologia, perché proprio a partire dal confronto con l'altro e il diverso si sviluppa un atteggiamento/movimento nonviolento nei confronti del mondo e si prova a vivere relazioni caratterizzate dall'apertura all'altro, dall'ascolto, dall'accoglienza, dall'autocritica, dalla messa in discussione dei propri comportamenti e atteggiamenti.
Ognuno di noi infatti ha probabilmente assunto nella sua vita comportamenti violenti, per fortuna non sempre a livello fisico, ma probabilmente in quell'ambito più sottile della violenza psicologica. L'autocritica e la vigilanza sui propri comportamenti sono da questo punto di vista fondamentali: non perché si voglia essere perfetti, ma perché si possa comprendere che il germe della violenza può sempre annidarsi dentro di noi e deve sempre essere tenuto sotto controllo.
Purtroppo sono molti nel XX e XXI secolo gli esempi della violenza utilizzata in modo strategico come forma di lotta politica; non parliamo soltanto della violenza delle armi, ma anche del linguaggio (che negli ultimi anni in politica ha assunto livello di volgarità e di aggressività preoccupanti) e di quella violenza inutile della quale parla Primo Levi, che porta all'umiliazione o alla mortificazione dell'altro. È proprio contro queste forme di violenza che si schiera una scelta nonviolenta, che cerca sempre di mettersi dal punto di vista dell'altro e a partire da lui o da lei capire quali sono i comportamenti che possono ferirlo o mortificarlo, e non solo evitarli, ma sostituire ad essi comportamenti solidali e accoglienti.
Come pensare
Opera analizzata: Il silenzio del mare di Vercors.
In questo libro l’autore (pseudonimo di un gruppo di partigiani francesi) immagina che una casa francese venga occupata, durante la seconda guerra mondiale, da un ufficiale nazista che requisisce una camera come propria stanza da letto è sostanzialmente costringe (anche se non con la violenza fisica) gli abitanti a prendersi cura delle sue esigenze di vitto e alloggio. La famiglia francese reagisce a questa occupazione con il silenzio. Ognuno di loro obbedirà agli ordini dell'ufficiale, ma nessuno gli rivolgerà mai la parola, e anche nei tentativi di costui di allacciare un dialogo nessuno lo starà ascoltare o rispondere alle sue domande.
Il libro ci sottopone alcune questioni:
- quali sono i vantaggi di questa scelta non violenta nei confronti di una scelta di aperta ribellione?
- che cosa avrà provato l'ufficiale nazista quanto dopo ripetuti tentativi i famigliari continuavano a non rispondere alle sue domande?
- quali sono i possibili esempi di ulteriore resistenza nonviolenta che questi cittadini avrebbero potuto mettere in atto?
“Non conosco azioni umane che possano cancellare una colpa” (Primo Levi).
Questa frase del grande scrittore ed ex deportato italiano ci ricorda che il gesto violento non può mai essere cancellato perché, come afferma un grande testimone della Shoah, Vladimir Jankelevitch, “il tempo non ha carattere morale”. Il che significa che un gesto violento non perde la sua forza e la sua brutalità con il passare degli anni.
Questo porta a riflettere sul significato del perdono, che è proprio il tema indagato da Jankelevitch: chiedere perdono è un gesto nonviolento proprio perché non pretende di cancellare la propria azione, ma se ne fa carico fino in fondo; non finge di poter resettare il tempo, ma lascia tempo alla vittima per poter eventualmente concedere il perdono. Il che significa che il perdono non è mai un diritto, ma appunto un dono, e che il gesto violento, anche se perdonato, rimane come traccia, come cicatrice, all’interno delle relazioni umane.
Cosa fare
L’analisi di situazioni e di casi reali è una strategia utile per far riflettere i ragazzi sul tema della nonviolenza.
Cercate per i seguenti casi una risposta nonviolenta da parte dei soggetti implicati.
In un liceo scientifico della provincia di X il Preside ha emanato una circolare che vieta ai ragazzi maschi di tenere i capelli lunghi e alle femmine di tenere l’ombelico scoperto. Le classi del triennio vogliono disobbedire a questa norma, mentre i genitori sono sostanzialmente d’accordo con il Dirigente Scolastico. Il Preside affronta i ragazzi in assemblea e dice chiaramente che se tutti i maschi che portano i capelli lunghi non li taglieranno e le ragazze non assumeranno un abbigliamento più consono comincerà col vietare tutte le gite e poi prenderà altri provvedimenti punitivi.
Nell’ospedale di F. i pazienti vengono fatti attendere per ore prima della visita per l’accettazione; in alcuni casi essi vengono fatti accomodare negli spogliatoi e lasciati lì ad attendere anche per un’ora. Un anziano malato è stato fatto preparare per un intervento chirurgico, e dopo essere stato sottoposto alla preanestesia è stato riportato in reparto perché “l’intervento precedente si è protratto più del previsto”. Dopo l’operazione spesso i pazienti vengono parcheggiati sulle lettighe in mezzo a un affollatissimo corridoio davanti alla sala operatoria e aspettano anche un’ora che qualcuno li venga a riportare in reparto.
Come provare
Raccogliamo informazioni su un caso reale di litigio violento in paese, nella scuola, nel quartiere. Cerchiamo di documentare i fatti in modo obiettivo, magari anche intervistando i protagonisti se possibile. Creiamo una vera e propria istruttoria sul caso e poi mettiamolo in scena con la tecnica del teatro forum (nella quale ciascun spettatore può sostituire uno degli attori se ritiene che, modificandone i comportamenti, si arrivi a uno sblocco della situazione). Chiediamoci in particolare:
- in quale preciso momento è iniziata l’escalation violenta?
- il pretesto della lite era davvero importante o è stato la causa scatenante di altri motivi di conflitto?
- quali erano le alternative praticabili per i vari attori?
Cosa domandarsi
Anche per quanto riguarda la nonviolenza le prime domande che l'educatore deve porsi riguardano se stesso:
- in quale situazione ha dovuto resistere alla tentazione di un gesto violento (anche solo verbale) nei confronti dei propri allievi?
- in quali casi un suo allievo o allieva gli ha fatto notare un suo comportamento che l’ha ferito/a se magari l'offesa non era intenzionale?
- quali sono i momenti nei quali l’educatore non è riuscito a collaborare in modo attivo con i propri colleghi ed è stato sopraffatto dalle proprie emozioni negative nei riguardi di alcuni di loro?