Per una rifondazione
dell'esperienza giovanile
Eraldo Affinati
Ancora una volta l’inizio del nuovo anno scolastico segna la temperatura emotiva del Paese: i recenti fatti di cronaca nera, che hanno avuto come protagonisti adolescenti da tutti definiti irreprensibili, riportano alla nostra attenzione il tema della solitudine giovanile; non sociale, legata alle frequentazioni esterne, bensì interiore, esito della mancata risposta agli interrogativi sul senso medesimo della vita: e in quale altro luogo questa condizione di atrofia spirituale si può combattere se non nell’aula e nei suoi pressi? Per farlo abbiamo bisogno di una presa d’atto collettiva che non coinvolga solo i docenti, ai quali, lo sappiamo, non dovrebbe essere delegata ogni incombenza. In mancanza di un rapporto virtuoso fra il mondo della scuola e la società tutta, ogni iniziativa anche carismatica dei singoli maestri è destinata a fallire. Ma come possiamo uscire dalla cosiddetta “finzione pedagogica”, che ci impedisce di vedere il marcio dentro il frutto più bello, cercando un rapporto profondo coi ragazzi, specie quelli fragili e inquieti?
È necessario interessarsi alle loro vite elaborando strumenti che non si limitino all’accertamento dei contenuti. Nelle prossime settimane in tanti istituti gli scolari verranno sottoposti ai famosi test di orientamento che in teoria dovrebbero stabilire le loro competenze culturali, alle quali agganciarsi per svolgere i programmi e raggiungere gli obiettivi. È evidente che limitandoci a questo non potremo mai stabilire la stazione di partenza di ognuno: per identificarla sul serio e di conseguenza calibrare l’insegnamento dovremmo conoscere i nostri allievi, capire chi sono, a quali famiglie appartengono, come trascorrono i pomeriggi, cosa li interessa. La rivoluzione digitale se da una parte ha aperto nuove frontiere, consentendo a tutti noi un rapido accesso a fonti informative un tempo assai difficile da ottenere, dall’altra rischia paradossalmente di ostruire l’orizzonte mettendo in secondo piano le gerarchie di valore che dovrebbero distinguere, specialmente agli occhi dei più giovani, ciò che è importante da ciò che non lo è.
Se la scuola non risponde a tale imperativo, indirizzare e strutturare la conoscenza, senza occultare l’esercizio e la fatica indispensabili per praticarla, si riduce ad essere un puro e semplice ente certificatore di competenze che oggi ci sono, domani potrebbero venire facilmente dimenticate. Urge una rifondazione dell’esperienza giovanile, quello che tutti i grandi educatori ed educatrici, da John Dewey a Maria Montessori, da don Lorenzo Milani ad Alberto Manzi, per citarne solo qualcuno, hanno sempre sostenuto: organizzare gruppi di studio nei quali il docente si pone come guida autorevole, pronto a scomparire appena possibile per lasciar sviluppare l’autonomia dei ragazzi.
La solitudine è una caratteristica costitutiva dell’adolescenza, non la scopriamo certo ora, così come la natura potenzialmente ferina dei sedicenni: basti pensare ai ragazzi terribili di Jean Cocteau, ai giovani capi descritti da Mario Vargas Llosa, oppure ai bambini precipitati nell’isola disabitata nel romanzo Il signore delle mosche composto da William Golding. Farsi illusioni sui giovani equivale a credere alla favola dell’uomo buono corrotto dall’ambiente in cui vive. I condizionamenti sociali sono innegabili, basterebbe prendere un gruppo di ragazzini oxfordiani e trasferirli in una borgata romana o partenopea per notare la loro progressiva mutazione, tuttavia i casi più eclatanti degli ultimi anni, dalla strage di Novi Ligure a quella di Paderno, compiute da ragazze e ragazzi in apparenza modello, dimostrano che ciò non basta. In realtà ognuno di noi affronta un percorso, più o meno accidentato, dagli istinti ancestrali che lo governano all’acquisizione della maturità in grado di disciplinarli: orientare tale cammino è il grande compito educativo che nella nostra epoca sembra essere stato messo in crisi dalla deflagrazione del desiderio, foriera di una malintesa concezione della libertà come superamento dei limiti. Si tratta di una vecchia tesi novecentesca che, scalfita dai massacri dei totalitarismi, potrebbe riemergere attraverso un uso dissennato dell’intelligenza artificiale.
I ragazzi inquieti e problematici richiamano all’attenzione dei genitori e degli insegnanti i rischi che tutti corriamo: abbiamo bisogno di nuovi riferimenti etici, in grado di organizzare lo straordinario impulso tecnologico che sta cambiando l’esistenza degli esseri umani. L’istruzione non rappresenta un semplice passaggio di consegne da una generazione all’altra. È piuttosto un pane da spezzare e condividere insieme nella speranza di poter realizzare azioni sensate e pronunciare parole che siano legittimate dalla nostra vita.