Generazioni: uno stallo senza sbocco?
Dario Eugenio Nicoli - Giuliano Giacomazzi - Fabrizio Tosti - Mario Tonini [1]
Questo studio [1] intende mettere a fuoco il complesso dibattito circa il rapporto tra generazioni legato al contesto attuale giudicato da più parti in situazione di “stallo”; nella riflessione si avanza la proposta di un “nuovo incontro tra le generazioni”, indagando quanto questo dibattito coinvolga anche gli attori del sistema educativo di Istruzione e Formazione.
Lo stallo intergenerazionale
È piuttosto chiaro a tutti quanto nell’educazione dei giovani sia decisivo un rapporto educativo tra le generazioni. Ciò riguarda la figura dell’adulto sia come persona fisica sia come organizzazione, e il suo compito di guida che è sempre decisivo in ogni tempo, anche se si caratterizza in modalità diverse a seconda dell’epoca.
Il tempo che stiamo vivendo è segnato da una situazione di sconcerto che genera uno stallo nel rapporto tra le generazioni; ciò è dovuto non solo al disorientamento provocato da una società preda di un continuo cambiamento, ma anche dall’incertezza diffusa che riguarda sia la società in cui viviamo sia le domande di fondo, la risposta alle quali è decisiva per il percorso di vita degli individui, dei gruppi e delle comunità che la abitano.
Tale stallo fa mancare ai giovani quei punti di riferimento su cui fare affidamento per svolgere il proprio compito: comprendere chi sono, in quale contesto si trovano e come fare per delineare il proprio posto nel mondo.
Il fattore che colpisce immediatamente è la grande opera di decostruzione (disruption) che sta modificando mondi della vita consolidati da millenni, quell’assetto morale che manteneva una certa stabilità anche nell’epoca delle ideologie.
Molti sono i fattori in gioco: qui vogliamo concentrarci sulla questione culturale. Si tratta dell’inadeguatezza, rispetto ai compiti dell’umanità, del soggetto autoreferenziale e tendenzialmente dedito a sé stesso; questo ha preso il posto del soggetto collettivo e dell’etica convenzionale, che hanno indirizzato nel tempo precedente i rapporti tra adulti e giovani e viceversa.
Una cultura che sembra avere due ancoraggi: il primo riguarda il mondo economico, ovvero quella concezione della libertà di matrice consumistica che è stata estesa ad ogni ambito della vita, mentre il secondo riguarda la cultura neo-puritana della “correttezza” (detta comunemente “woke”) che domina le facoltà di scienze umane delle università dell’Occidente e che ha invaso buona parte delle istituzioni nazionali e sovranazionali. Siamo di fronte ad una nuova cultura morale che fa del vittimismo una risorsa sociale e che si propone nientemeno che la costruzione di un uomo nuovo, correggendo le contraddizioni e le carenze di quello vecchio. Essa trova consenso soprattutto negli strati sociali benestanti e con titoli di studio elevati, che adottano nei confronti dei lori figli un atteggiamento iperprotettivo e formano individui i quali, quando vivono un conflitto con un’altra persona, tendono a cercare la protezione di un’autorità costituita, piuttosto che affrontarlo direttamente[2].
Un atteggiamento che spiega l’aumento di istituzioni di protezione e tutela e di norme in tema di bullismo, discriminazione, garanzia di rappresentanza delle minoranze, fino al correttismo del nuovo ceto di censori che si sono appropriati del compito di epurare qualsiasi espressione linguistica che, nella letteratura e nell’arte, sia vissuta come offesa da parte di una qualsiasi etnia classificata come vittima. Ciò dà vita ad una stagione di cancellazione che non si limita alla letteratura, ma pretende di epurare al loro nascere anche i pensieri considerati scorretti.
Come si manifesta lo stallo tra le generazioni
Presentiamo ora un excursus, necessariamente molto schematico, sui modi in cui si presenta lo stallo tra le generazioni nei quattro contesti sociali più rilevanti: la famiglia, la scuola, il lavoro e la vita sociale.
Famiglia
In una componente crescente di famiglie è in atto da tempo la tendenza a trasformare la responsabilità educativa del passato anche recente, orientata a precisi principi morali, in un accudimento iperprotettivo dei figli, sulla base del criterio della tutela del loro benessere psichico. Questo porta a considerare normativi i loro desideri ed a rifuggire regole che ne possano limitare le occasioni di socialità e di riconoscimento da parte dei compagni. Ciò vale sia per i ceti più abbienti, sia per quelli che si sostengono con redditi da lavoro: sono diffusi i casi in cui i genitori si sottopongono a privazioni ed a carichi lavorativi ulteriori pur di poter offrire ai figli un’esistenza corrispondente allo stile di vita che essi desiderano.
Anche i compiti e gli impegni casalinghi tendono ad essere molto limitati, indebolendo quindi il senso di appartenenza alla famiglia come casa comune a cui va una dedizione concreta, ognuno per quanto gli è possibile.
Il principio educativo adottato tende a spostarsi dal piano dell’autorità a quello della protezione; ciò influisce anche sulle relazioni con il mondo esterno in cui i figli svolgono le loro attività, rispetto al quale la famiglia vive un costante stato di allerta in quanto potenzialmente causa di sofferenza nei loro confronti. Diviene pertanto difficile da parte dei genitori formare i propri figli ad uno stile di vita responsabile e proattivo, proprio di chi possiede la volontà e la forza di affrontare la realtà con le proprie capacità e scoprendo così la propria strada. Ma esiste anche una componente di famiglie che perseguono una visione educativa generativa.
Scuola
Lo stallo intergenerazionale colpisce l’istituzione scolastica nel vivo del suo compito, ovvero la consegna ai giovani di un sapere che sia loro utile per inserirsi positivamente nel reale. Specie nell’ultimo quindicennio la crisi dell’adolescenza, il fenomeno che Erikson aveva correlato al processo di costruzione dell’identità dell’individuo, ha progressivamente anticipato l’età della sua manifestazione, ed inoltre è entrato in cortocircuito con il tormentato periodo sociale che stiamo attraversando.
Da qui tre tipi di risposte:
i docenti hanno capito l’importanza di coltivare le relazioni interpersonali con i singoli allievi, intuendo che si tratta di una condizione esistenziale favorevole all’apprendimento, ma ciò ha creato crescenti difficoltà nei colleghi che, per temperamento sono sprovvisti di risorse affettive e in quelli che considerano questa una componente estranea al loro compito di insegnanti.
Si è prodotto un imponente investimento mirato all’inclusione di studenti con bisogni educativi speciali e disturbi specifici dell’apprendimento, due categorie che hanno visto una crescita esponenziale nelle classi scolastiche.
Si è aperta una nuova stagione dell’attivismo didattico finalizzata a rendere più piacevole - e giocosa - la lezione e in generale la vita scolastica. La scuola si trova, quindi, in un tempo inedito, da cui emerge un processo di erosione del valore delle didattiche precostituite. Nel contempo ha imposto un lavoro di aggiornamento finalizzato alla revisione dei modelli di insegnamento, entro una visione più educativa, superando un dualismo molto radicato nel passato. Questo travaglio, che alcuni definiscono paradigmatico, è accresciuto dalle difficoltà di relazione e di intesa con quella parte delle famiglie che si pongono in modo rivendicativo e conflittuale nei confronti degli insegnanti. Il sistema educativo vive quindi una forte tensione in quanto comprende sia le cause delle difficoltà nei rapporti tra le generazioni sia i numerosi e seri tentativi di risposta a questi ultimi.
Lavoro
Anche il mondo dell’impresa è investito da turbolenze che rendono critici i rapporti tra le generazioni. Ciò emerge sia nella ricerca di nuovi collaboratori sia nelle relazioni che si svolgono ordinariamente nelle organizzazioni di lavoro.
È nota la crescente difficoltà di ogni soggetto economico - impresa, ente pubblico, cooperativa … - nel reperimento di nuovo personale, una condizione che riguarda metà delle figure professionali di cui necessitano.
Tale fenomeno dipende sia dal numero ridotto di candidati, una delle conseguenze dell’«inverno demografico» che caratterizza il nostro Paese, sia dal mismatch, ovvero dalla mancanza in molti di loro delle competenze richieste, quelle richieste dall’odierna organizzazione del lavoro.
Si tratta sia di competenze tecniche - come nel caso della preparazione in tema di intelligenza artificiale - sia soprattutto di human skill, ovvero le disposizioni interiori che presiedono alla flessibilità, al fronteggiamento dei problemi, alla cooperazione, alla creatività ed alla gestione delle crisi e degli errori. È piuttosto diffuso tra i professionisti delle risorse umane una percezione di particolare fragilità e timore tra i giovani candidati. Anche i lavoratori adulti segnalano un aumento di problematicità nei rapporti con i più giovani, quali l’eccesso di vulnerabilità quando vengono ripresi per una qualche mancanza, la ritrosia nell’affrontare sfide e problemi, la chiusura nella propria comfort zone, un fenomeno che viene definito “effetto silos”[3]. La difficoltà nel rapporto tra le generazioni viene indicata anche come una delle cause di taluni incidenti sul lavoro che derivano dall’insicurezza e dalla difficoltà delle figure adulte nello svolgere il compito di guida.
Vita sociale
Nel variegato mondo della vita sociale le persone si muovono alla luce del proprio sistema di preferenze individuali; esse si iscrivono a palestre, partecipano a gruppi che condividono giochi o interessi musicali, viaggiano insieme, si impegnano in attività di volontariato di varia natura.
Trattandosi di attività cui aderiscono per scelta libera, l’incontro tra le generazioni è facilitato dalla condivisione di un interesse o un valore che motiva un distintivo orientamento di vita; per tale motivo troviamo qui dinamiche parzialmente differenti rispetto a quelle segnalate per gli ambiti della scuola e del lavoro. Da un lato, la disponibilità all’ingaggio in una pratica condivisa porta ad una minore problematica riguardante le relazioni reciproche, in quanto le risorse e le qualità individuali trovano modo di incanalarsi lungo un cammino la cui disciplina risulta più facilmente accettata rispetto a quella degli ambiti soggetti all’obbligo. Dall’altro, emergono differenze tra le generazioni, riguardanti la responsabilità circa gli impegni assunti e la durata nel tempo dell’appartenenza. Anche qui gli adulti, sorretti spesso da un’etica della responsabilità, tendono ad attribuire ai più giovani una certa instabilità di stati d’animo che rende mutevoli le loro motivazioni e provvisorie le loro decisioni, provocando abbandoni non dovuti a cause bene definite, quanto ad una sorta di inquietudine che li spinge a cambiare per provare esperienze nuove.
Ma la vita entro una comunità che condivide valori comuni e si impegna per obiettivi concreti, sembra favorire l’emersione nei giovani di qualità positive quali l’apertura, la dedizione, l’aiuto reciproco, il dono; tant’è vero che la componente dei 18-24enni è la più presente nel mondo del volontariato, con una tendenza all’aumento tra il 2021 ed il 2022 specialmente dei ragazzi tra i 14 ed i 17 anni.[4]
Tre chiavi di lettura per approfondire le difficoltà di rapporto tra le generazioni
Proviamo ora ad approfondire le difficoltà di rapporto tra le generazioni, tramite tre chiavi di lettura:
- lo stile di vita del consumatore,
- la cultura del soggetto autosufficiente
- il declino della figura del padre.
La cultura del consumatore estesa ad ogni ambito della vita
Il primo fattore interpretativo delle difficoltà di relazione tra le generazioni riguarda lo smantellamento progressivo dei postulati etici che hanno retto non solo la società tradizionale, ma anche quella dell’epoca della contestazione e del mutamento dei costumi.
È venuto meno quel mondo basato sull’appartenenza, sulla ripetizione, sulla coincidenza tra ruolo e convinzione interiore, tra etica imposta ed etica personale (concedendo solo forme di adattamento individuale). L’opera di distruzione del passato ha proceduto alla grande. Non si è trattato di un fenomeno solo negativo, in quanto nell’ultimo secolo una vasta componente della popolazione ha conquistato il valore dell’io, ma si tratta di un fattore che, in assenza di una prospettiva umana su come esercitare la propria libertà “allargata”, sembra divenuto piuttosto un tormento. Abbiamo un io, ma siamo ipersensibili: gli sbalzi di umore che una volta riguardavano la preadolescenza, e che nel diventare adulto venivano riassorbiti, oggi scombussolano la percezione di noi stessi e degli altri con cui interagiamo. Inoltre, siamo frantumati in tanti mondi dell’esistenza di cui si fa fatica a trovare un punto unificante: molte persone svolgono in modo diligente un ruolo sociale, mentre la loro vita è tutta “per aria”. Solo per una minoranza, il ruolo sociale è significativo dell’identità dell’individuo che lo svolge in quanto lavoro “buono” ed espressivo del proprio mondo interiore.
Quello del passato era un mondo collettivo, coeso. Pur nella diversità ci si riconosceva sul piano umano proprio per merito di una solida visione della vita, incorporata nel modello sociale.
Se le diverse ideologie dell’Ottocento-Novecento sono scomparse, con cosa sono state sostituite? La cultura del consumatore è stata estesa a tutti gli ambiti dell’esistenza[5]. Secondo questa cultura io esisto in quanto posso scegliere tra opzioni alternative (cellulare, pasta, vacanza, ma anche abitazione, gruppo di interesse, compagno/a ...). Ma non è la stessa cosa. Se io entro in un supermercato, faccio il confronto tra i prezzi e la qualità dei prodotti, quindi scelgo tra strumenti, mentre se mi comporto da consumatore anche nelle questioni esistenziali, tutto si corrompe, in quanto trasformo in interesse ciò che deve essere un bene. Il consumatore sceglie un oggetto o un servizio per soddisfare un bisogno. Il bene invece è tutto ciò che non è intercambiabile.
Corruzione significa che il soggetto non sa confrontarsi con un bene, e lo restringe entro il suo piccolo mondo fatto piuttosto di preferenze del tipo mi piace/non mi piace.
La gioventù appare infantilizzata[6], tenuta costantemente in uno stadio di dipendenza dallo stimolo spesso indotto dall’economia della captazione dell’attenzione, e dalle offerte che le vengono proposte. Ai bambini ed a ragazzi costa enorme fatica la riflessione e quindi lo svelamento della propria strada. In generale quello che accade è che il pensiero è dominato dall’interesse: è nel mio interesse avere quel cellulare, ottenere la possibilità di tornare tardi la sera ... La considerazione dell’interesse individuale limita la possibilità di percepire il bene in gioco. Per “bene” si intende tutto ciò che rende felice una persona e a cui dedica stabilmente una gran parte dei suoi pensieri. I suoi amici, il tempo che passa a scuola, il rapporto con la natura, ciò che posso svolgere all’interno di una comunità, la memoria di quello che è accaduto, le relazioni e conversazioni.
La cultura del soggetto autosufficiente
Il secondo fattore interpretativo delle difficolta di relazione tra le generazioni riguarda la cultura del soggetto autosufficiente.
Non è mai successo nel passato che il compito educativo non possa appoggiare su una cultura diffusa che lo sostenga. La cultura oggi dominante è quella centrata sul soggetto che si pensa autosufficiente: “La vita è nelle tue mani e dipende da te”. Una cultura che rischia di essere più seduttiva dei mediocri mondi in cui i ragazzi vivono la loro esistenza.
Chi assume la cultura del consumatore come stile di vita concepisce la libertà come possibilità di slegarsi, proprio perché ogni scelta, essendo intercambiabile, deve essere anche provvisoria. Questo comporta la chiusura nel proprio io “ristretto” e la scomparsa dei legami comunitari: familiari, di elezione (sport, natura, volontariato…), ma anche territoriali. Walter Benjamin sosteneva che il consumo non si pone solo sul piano dei beni materiali, ma presenta una valenza onirica: le persone nel guardare quei vestiti o quella proposta di viaggi immaginano di vivere vite diverse. Il consumatore è un soggetto semi-addormentato che sogna continuamente di vivere la vita di un altro. Benjamin aggiungeva che, perché possano essere libere, le persone-consumatori vanno scosse dal loro sonno[7].
Il dominio dell’ideologia del soggetto come consumatore autosufficiente porta a ridurre l’importanza che si dà ai beni. Ridurre tutto ad interessi porta a disincantare lo sguardo: sebbene mi stiano a cuore tante cose, in realtà non le tratto nel modo giusto per goderne del bene che esse portano con sé.
Nell’epoca del soggetto autosufficiente, anche l’adulto appare interessato quasi esclusivamente al suo mondo piccolo, come se il passato, sia il suo sia quello della storia più grande di cui fa parte, non sia portatore di alcun senso. Nell’orientamento troviamo molti ragazzi che non sanno cosa rispondere alle domande “cosa ti interessa? cosa ti piace?” Dopo un po’ che insisti al più rispondono “io non voglio fare il lavoro dei miei genitori” non perché lo conoscono, ma perché li vedono sempre tornare tardi, arrabbiati, continuamente ossessionati da quel che succede al lavoro. Allora lo escludono, mostrando così di utilizzare un criterio ragionevole. I genitori, preda di una continua agitazione, sembra che non abbiano tempo per cogliere i segni speciali della loro esistenza e trasmetterli ai figli come consegna per la loro vita; essi sono “presi” e “turbati”, ma non sono riflessivi. Non sentono di avere un messaggio da dare, hanno paura delle certezze poiché la società attuale stigmatizza chi crede in qualcosa di più di ciò che è superficiale e materiale. Da qui l’uso continuo del “forse”, che esprime una debolezza del pensiero.
Questi adulti sono preda di un travisamento educativo, ritenendo che il loro compito sia proteggere e distrarre i figli. Spesso questo atteggiamento è legato all’idea secondo cui ognuno la sua vita se la gestisce da sé, che si cresce da soli, con le sole proprie forze.
Fa riflettere che tutti i servizi che si occupano delle patologie giovanili adolescenziali hanno lunghe liste di attesa. Abbiamo una gioventù sofferente. L’adulto si difende affermando che siamo in una società liquida e non si può far nulla, questa realtà è troppo più grande di noi. Ma è un circolo vizioso: se non faccio altro che distrarli per far passare questa fase della vita, stare in silenzio e travisare, allora non riesco a mettermi in sintonia con i ragazzi perché anch’io partecipo alla cultura del soggetto e ciò distorce il senso di responsabilità.
L’io degli adulti è perennemente inquieto alla ricerca della sua autorealizzazione e cerca qualcuno che, nel dargli ascolto, riconosca quanto sia importante la sua vita. Questa chiusura dell’io corrode il principio civico come responsabilità etica che proviene dall’interno. Ciò provoca un limite di socievolezza: una società è viva quando le persone danno di più delle prestazioni minime richieste dal proprio ruolo: quando donano.
Essi reagiscono facendo riappello all’autorità quando qualcosa provoca il disagio del figlio o offende il senso dell’onore della famiglia.
La questione della “consegna paterna”
Il terzo fattore interpretativo riguarda il declino della figura del padre.
È un fattore che non si pone sullo stesso piano dei due precedenti, ma piuttosto ne costituisce una delle conseguenze più rilevanti dal punto di vista antropologico ed esistenziale: esso, infatti, influisce sul processo di formazione dell’identità degli individui e sulla possibilità di ricevere quella protezione e quella consegna che permettono di affrontare serenamente le sfide connesse al percorso di accesso alla condizione adulta.
La scomparsa del padre ha innanzitutto una rilevanza pratica legata al tempo dedicato ai propri figli: ciò vale in generale a causa di un’esistenza preda di una perenne agitazione a causa degli impegni e della continua ricerca del proprio benessere, ma vale in particolare per quei ragazzi che attraversano l’età critica della preadolescenza e dell’adolescenza senza poter ottenere il giusto sostegno da parte della figura paterna. Le separazioni ed i divorzi provocano una drastica riduzione del tempo dedicato dai padri ai loro figli, in forza dell’orientamento prevalente delle leggi che, dopo la separazione ed il divorzio, privilegiano l’affidamento del figlio alla madre. Stante la forte conflittualità che accompagna la ex coppia, i figli finiscono fatalmente per assumere il punto di vista della madre secondo cui la colpa della rottura è da addebitarsi totalmente al padre. E sappiamo che le critiche ed il ripudio dei figli agiscono su quest’ultimo come un circolo vizioso, aumentando i motivi per allontanarsi ed evitare pertanto di esercitare la funzione paterna.
L’evanescenza del padre fa mancare ai figli quell’indispensabile nutrimento interiore nella forma della spinta a misurarsi con i propri limiti, avventurarsi nel mondo ed acquisire fiducia nelle proprie forze. Ma è un cambiamento che riguarda anche gli stessi padri che si ritrovano a vivere una solitudine inedita nelle generazioni precedenti, una condizione che non presenta alcuna corrispondenza nel sesso femminile.
Secondo Luigi Zoja, da questa evanescenza della figura paterna derivano nella gioventù alcuni caratteri quali “inesperienza, scarsa combattività, ebbrezza, piedi lontani dalla terra, difficoltà a staccarsi dalle seduzioni, illusione di poter riposare e poi ritornare istantaneamente ai doveri”[8].
Per poter assumere in modo positivo le decisioni che riguardano la propria vita, il ragazzo deve sapersi muovere “fra i le due sponde contrapposte dell’anima” ovvero “tra la mente e il cuore”, lasciarsi guidare dal pensiero e non solo da pulsioni. Deve essere liberato da un’esagerata stretta protettiva e poter scoprire il mondo; deve saper utilizzare la memoria non solo come archivio di vicende e sensazioni, ma come flusso di un pensiero che si proietta nel tempo a venire; deve infine evitare di disperdere le proprie energie, per imparare a riconoscere ciò che è vitale e impegnarsi in un percorso che mira al compimento della propria vita.
Il declino del padre presenta anche un risvolto sociale: tutto il tempo dell’educazione e della cura diviene “materno”, e ciò trova una decisa conferma nella progressiva femminilizzazione dei sistemi educativi. Ne è un segnale anche l’interpretazione unilateralmente affettiva delle problematiche dell’apprendimento, quando le pratiche didattiche mirano alla protezione ed allo star bene degli alunni senza essere accompagnate dal risveglio del desiderio di scoprire il mondo, dall’offerta di occasioni reali, non paternalistiche, in cui essi possano misurarsi con le sfide del mondo più vasto, andare oltre i propri limiti ed essere fieri dei successi raggiunti.
La letteratura contemporanea, impegnata perlopiù nello stigmatizzare il “padre padrone” autoritario e repressivo, offre pochi esempi di figure paterne positive. Tra queste, troviamo La strada, un romanzo post apocalittico di Cormac McCarthy pubblicato nel 2006, con il quale ha vinto il premio Pulitzer per la narrativa nel 2007, un’opera che ci aiuta a meglio comprendere il compito della figura paterna.
In un mondo in cui il male è una drammatica realtà quotidiana, dove l’ordine che reggeva ogni cosa è ormai spezzato e “non si può riaggiustare”, il padre continua il suo compito di protezione del proprio figlio, non solo dalla natura ostile, ma soprattutto dalla paura e dalla desolazione che gravano sulla sua anima. Il padre è impegnato nel salvare il figlio, promessa di vita, ed è questo che lo sospinge in avanti.
Li salva l’amore che provano l’uno per l’altro, insieme ai segni di umanità che emergono anche da quella scena di estrema violenza, un amore reciproco che agisce come un fuoco che è più forte del male, che scalda ed indica la strada. «Ce la caveremo, vero, papà? / Sì. Ce la caveremo. / E non ci succederà niente di male. /Esatto. /Perché noi portiamo il fuoco. /Sì. Perché noi portiamo il fuoco».
Il bisogno di padre corrisponde alla domanda paradossale dei ragazzi. I componenti della Generazione Zeta (nati tra il 1995 e il 2010) e quelli della Generazione Alpha (nati dopo il 2010) vivono come individui che nuotano in un contesto mutevole, fluido e per sua natura perennemente incerto. Questo viene spesso esaltato come spazio aperto da esplorare (“la tua vita è nelle tue mani: giocatela!”), ma in realtà l’eccesso di possibilità, vissute entro uno stato di perenne paura e di difesa del proprio equilibrio psichico, crea in loro prevalentemente un senso di insicurezza che si accompagna ad un labile sentimento di esistere; nello stesso tempo sollecita il desiderio di incontrare persone e ambienti che motivino un loro affidamento, in quanto riscontrano in essi una sincera premura per la loro crescita personale.
Agli adulti i ragazzi rivolgono una domanda paradossale, un misto di sfiducia e di attesa, per rispondere alla quale i primi sono chiamati ad un’opera radicale di rinnovamento: un cambio dello sguardo, della relazione e dell’offerta di opportunità in cui incanalare le proprie risorse e apprendere a far bene qualcosa di significativo per sé e per gli altri. Il mondo adulto non deve porsi nell’attesa di un cambio dell’ordine delle cose che li preservi dalla loro responsabilità, ma sono chiamati ad assumere un atteggiamento fiducioso e generativo, aggiungendo la propria parte ai segni di futuro già presenti.
I segni di futuro già presenti che indicano la strada e la compagnia
Il ragazzo ed il giovane, quando vivono come individui riferiti a sé, cadono facilmente in un eccesso di introspezione senza sbocco che ne consuma le energie psichiche e fisiche; quando invece condividono relazioni di comunità, sentono di essere fatti partecipi di un mondo naturale in cui poter vivere, vivere in comune, accettati e accolti.
Quello “naturale”[9] è un mondo dove ricevere quella protezione che permette di impegnarsi nelle attività che mirano al compimento delle proprie potenzialità; un mondo abitato da esseri umani che si rapportano a questa esistenza in totalità, sapendo difendersi (e lottare) contro ciò che lo minaccia: la minaccia interiore è il vivere alla superficie dei “mi piace, non mi piace” e non sentire il dovere verso sé stessi, il senso dell’onore. Ma è minaccioso anche lo scetticismo radicale e il disamore verso la propria storia, due atteggiamenti che rendono non credibili le varie prospettive di salvazione cui si accompagnano.
Infatti, occorre guardarsi dalle prospettive che iniziano da “dobbiamo cambiare la società” o ancora peggio “dobbiamo cambiare le persone”. Nella storia le grandi teorie del cambiamento hanno sempre provocato la morte dell’uomo vecchio senza costruire l’uomo nuovo. Il rinnovamento sociale non è l’applicazione di un “modello” uscito dalla mente di qualcuno, ma è un’energia ed un modo di vita già presente nei chiaroscuri della realtà. Perché la società dell’individuo comprende anche una parte di società del mondo comune, la società dell’interesse è anche frammista con la società del bene. Ci sono molti elementi che segnalano la presenza di un modo di vivere più sensibile, oltre il consumo, verso un’etica della pienezza. A questi va data la giusta importanza, perché sono i segni del futuro.
Il nostro tempo è segnato da tensioni tra pulsioni opposte; mentre i ragazzi devono essere protetti da immagini e narrazioni che esprimono la pulsione autodistruttiva dell’epoca che stiamo vivendo, essi possono trarre alimento da tante evidenze che indicano un tentativo diffuso di un modo di vivere che scaturisce da un desiderio di dedizione e di pienezza. Lo si vede nel vicinato, che esiste ancora ed ha una grande forza. Lo si riscontra nel volontariato, ma anche in chi lavora con passione e fa di più del “minimo sindacale” perché porta dentro un fuoco. Questo fuoco si alimenta dai rapporti di amicizia, dal senso di appartenenza alla terra, al popolo. Esso arricchisce lo sguardo e quindi la cultura intesa come capacità di riconoscere il nesso tra il mio io intimo e il mondo. Chi vive questa urgenza di vita autentica desidera entrare in relazione con coloro che ci hanno preceduti, perché sentono di far parte di un’opera buona che è stata intrapresa pima della loro esistenza individuale. Questo modo di dedizione si chiama cura, una parola che presenta un duplice verso: mettere a disposizione degli altri i propri talenti e insieme trovare la strada per guarire il proprio ego.
Un metodo educativo (generativo) per il tempo nuovo
Le caratteristiche dell’attuale stallo nei rapporti tra le generazioni motivano uno stile educativo peculiare, nel tentativo di rilanciare un rapporto che risulti benefico per entrambe le parti:
- attivo: che offra ai giovani la possibilità di affrontare i compiti del crescere, ricevendo l’accoglienza e la protezione di cui hanno bisogno per evitare di disperdere le proprie energie in distrazioni e introspezioni senza sbocco, insieme alla possibilità di mettere in gioco le proprie facoltà in compiti dotati di valore reale, fuori dall’artificiosità dell’istruzione e dell’addestramento;
rivelativo: che offra agli adulti l’opportunità di riconciliarsi con il proprio compito generazionale, che consiste nella guida dei primi, affinché siano promesse di futuro ed a loro volta fonte di speranza nei tempi a venire.
I giovani, infatti, in ogni contesto in cui si svolge la propria esistenza necessitano di
- occasioni concrete di ingaggio con cui scoprire le proprie capacità e risorse nello svolgere compiti significativi (casa, studio, volontariato, sport, vita nella natura...) che li stimolino ad esprimere un giudizio fondato su quanto accade intorno e dentro di loro, e che indichino la strada da percorrere per la loro crescita;
- di adulti non “malati di giudizio” nei loro confronti, che siano capaci di sentire, e comprendere, ciò che è sempre presente ai bordi delle cose e che ci rivela il bene nascosto nella realtà, e soprattutto nei ragazzi, quel mistero che permette di vivere da persone umane.
È questo lo sfondo esistenziale adeguato a svelare ai ragazzi stessi che la regola (quando ragionevole) non va intesa come limitazione, ma come condizione per un esercizio positivo della libertà entro il mondo che abbiamo in comune, facendo della propria vita qualcosa di buono.
Due sono le strategie da abbandonare, se vogliamo impostare positivamente la relazione tra adulti e giovani nel tempo nuovo:
- il rigorismo punitivo di chi ritiene di poter rievocare i tempi in cui ai giovani era riservato un ruolo di mero esecutore diligente di compiti, associato per lo studente all’autoritarismo e per l’apprendista all’istituto (mai del tutto abbandonato) della “gavetta”;
- la condiscendenza, ovvero l’atteggiamento di chi mira a tenersi buoni i ragazzi, ottenere e conservare la loro simpatia tramite concessioni, facilitazioni, insieme ad una valutazione benevola.
Partendo da questa mossa preliminare di accoglienza attiva, si sollecita un cammino che segue cinque passi:
Non etichettare i ragazzi, ma offrire loro un vero riconoscimento tramite un rito di ingresso amichevole e fiducioso.
Si tratta di un autocambiamento che richiede di riconoscere, e superare, atteggiamenti espliciti ed impliciti alimentati da un senso di superiorità della propria generazione e dallo stereotipo del “declino dell’Occidente” che inizierebbe dalla fragilità dell’attuale gioventù.
L’accoglienza corrisponde ad un rito di ingresso in cui i ragazzi sentono di essere attesi, ed accolti, da chi ha a cura la loro crescita e non li considera invece come pedine di un gioco di cui essi sono solo strumenti o spettatori.
Proporre loro un ambito reale di azione (studio, sport, volontariato…), in quanto dotato di valore per gli altri ed inoltre corrispondente alle loro capacità potenziali.
Facciamo riferimento ad un luogo nel quale ai ragazzi ed ai giovani sia offerta l’opportunità di agire attivamente e in modo trasformativo nel contesto in cui sono inseriti, meglio se in un’attività di gruppo. Un’opportunità che li sfida a generare azioni finalizzate a recare benefici a interlocutori diretti o indiretti, assumendo così il punto di vista dell’altro come parte integrante del proprio io. È in questo modo che si forma la facoltà dell’autoefficacia in quanto convinzione di poter esercitare attivamente una influenza sugli eventi[10].
Accompagnarli nell’imparare a svolgere bene questo compito, aiutandoli con domande e suggerimenti a superare le “trappole mentali” che possono bloccarli, quali “non so da dove cominciare” e “non sono capace”.
Si tratta del punto più critico, in quanto buona parte dei modelli didattici che vengono adottati nelle scuole e nel lavoro, oltre che in altri contesti come lo sport e la musica, si appoggiano ad una sorta di “teoria dei prerequisiti”, la quale considera l’apprendimento come un processo gerarchico e costruttivo, ragione per cui sono ritenuti “adatti” solo gli allievi che possiedano una base culturale ed una disposizione umana conformi all’obiettivo perseguito. Di conseguenza, gli adulti si limitano all’esposizione ed alla consegna del compito, poiché si aspettano che i destinatari del loro insegnamento/addestramento sappiano svolgere autonomamente tutte le operazioni che vanno dall’ascolto e comprensione del messaggio, alla definizione di un nesso logico e di senso del nuovo sapere con quanto già appreso in precedenza, all’applicazione diligente di quanto proposto, alla conservazione in memoria, alla esposizione e riflessione. Per evitare le trappole mentali che ne bloccano il cammino, è necessario un accompagnamento che, nei vari momenti del processo, li aiuti a focalizzarsi sul momento critico, ad esplicitare la difficoltà in cui si trovano, a chiarire le opzioni in gioco ed a scegliere quella più efficace al loro scopo. Senza sostituirsi al compito che spetta esclusivamente ai loro allievi.
Lasciar agire liberamente le dinamiche di riconoscimento che derivano dall’aver fatto bene qualcosa di positivo.
Quando il percorso dell’azione diviene fluido e produttivo, esso genera da sé dinamiche relazionali plurime tra i diversi attori in gioco: i beneficiari, gli adulti-guida e l’attore stesso.
Il riconoscimento che proviene dalle prime due figure non consiste solo nell’espressione di un giudizio di competenza a favore di quest’ultimo, ma in una vera e propria benedizione essenziale alla vita poiché significa attestare che il giovane è parte di un’eredità spirituale entro cui egli esercita una capacità di bene.
Fare festa, anche degli errori.
La festa è un rito di passaggio che corrisponde all’attesa che ogni giovane persona vive dentro di sé come cerimonia in cui si celebra il compimento di un’importante tappa della sua esistenza, specialmente quella in cui prova se stessa in un compito-promessa riconosciuto dal resto della comunità come un evento speciale dotato di sacralità. Le feste operano come rituali che accompagnano la trasformazione dell’individuo nel suo inserimento nel mondo adulto. Esse celebrano di fronte alla comunità la nuova identità che il soggetto ha acquisito in questo passaggio trasformativo. Associare al rito della festa anche gli errori significa riconoscere che anche questi ultimi possiedono un valore positivo in quanto sollecitano la qualità umana della fortezza e la capacità di automiglioramento.
In questo ingaggio operoso, l’anima dei ragazzi si alimenta dall’apporto di senso che proviene dai “segni di risonanza” presenti nella loro esistenza: la bellezza, l’amicizia e la compagnia, il rapporto con la natura, la scoperta del territorio e delle sue ricchezze, il rapporto positivo con il proprio corpo, l’apertura alla realtà, i compiti che sono chiamati a svolgere, la scoperta del proprio mondo interiore e della spiritualità. Tutte queste sono “corde della risonanza” che stupiscono i ragazzi in quanto contrastano con il vuoto di significati e di scopi buoni entro cui vivono e che li dispongono ad un’alleanza con gli adulti significativi al fine di guadagnare una personalità gioiosa, solida, socievole, combattiva, radicata ed aperta al futuro.
(FONTE: Rassegna Cnos 2/2024, pp. 5-19: Editoriale)
NOTE
[1] Gli Autori hanno le seguenti qualifiche: prof. Dario Eugenio Nicoli, Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, di Giuliano Giacomazzi, Fabrizio Tosti, Mario Tonini, rispettivamente Direttore Generale, Direttore Nazionale e Direttore Amministrativo della Federazione CNOS-FAP.
[2] Valentin P., L’ideologia Woke, Fondation pour l’innovation politique, Paris, 2022.
https://www.fondapol.org/app/uploads/2022/04/fondapol-lideologia-woke-1-anatomia-del-wokismo-pierre-valentin-04-2022-1.pdf
[3] Schein E.H., “Organizational culture”, American Psychologist: 45(2), 1990, pp. 109-119.
[4] Massariolo A., I numeri del volontariato in Italia: i giovani ne sono il perno centrale.
https://ilbolive.unipd.it/it/news/numeri-volontariato-italia-giovani-ne-sono-perno
[5] Taylor C., L’età secolare, Milano, Feltrinelli, 2009.
[6] Stiegler B., Prendersi cura. Della gioventù e delle generazioni, Napoli, Orthotes, 2014.
[7] Benjamin W., I “Passages” di Parigi, Torino, Einaudi, 2010.
[8] Zoja L., Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Torino, Bollati Boringhieri, 2016, p. 118.
[9] Patočka J., Il mondo naturale e il movimento dell’esistenza umana, Sesto San Giovanni, Mimesis, 2022.
[10] Bandura A., Autoefficacia: teoria e applicazioni, Trento, Erickson, 2000.