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    A un santo abba fu domandato:
    "Chi è il monaco?".

    L'anziano non rispose nulla ma,

    toltosi l'abito, lo calpestò.

     

     

    LAICI

     

    SENZA IMPORTANZA

     

    Enzo Bianchi

     

     

    Il patriarca di Alessandria Atanasio durante una sua visita ai monaci dell'alto Egitto chiese a Pacomio: "La santa koinonía continua a produrre buoni frutti?". Rispose Pacomio: "Anche la chiesa. Noi siamo solo laici senza importanza". Sì, noi monaci siamo poveri laici senza importanza, non siamo una presenza alternativa alla chiesa, né ad essa contrapposta, ma della chiesa vogliamo e tentiamo con umiltà ma risolutamente di essere un'attuazione e perciò un segno; nella chiesa desideriamo essere un servizio secondo l'evangelo e perciò accolto con rendimento di grazie.

    Il sinodo sulla "vita consacrata", voluto da Giovanni Paolo II dopo quelli dedicati alle varie componenti della compagine ecclesiale, ha rafforzato la nostra convinzione che la chiesa nel suo insieme attende anche da noi monaci alcune parole su quanto diciamo di noi stessi. Perciò davanti al Signore della chiesa, con parresia evangelica e nella libertà dei figli di Dio, anche le mie riflessioni tentano di esprimere quanto percepisco di questa forma di sequela cristiana per cercare tutti insieme cosa lo Spirito dice oggi ai religiosi e alle religiose.

    Pochi sanno che nelle chiese cristiane la vita religiosa fin dal suo inizio ha avuto molte difficoltà nel pervenire a una definizione. Come chiamare ecclesialmente quei cristiani che vivevano nelle stesse comunità locali ma senza sposarsi e in un impegno ascetico che li distingueva dagli altri cristiani? Dapprima si fece ricorso al vocabolario ereditato dalla filosofia greca individuando dunque "asceti e vergini"; ma anche il termine parthénoi ("vergini"), che pur aveva un forte accento ideale, pareva non sufficiente; si ricorse allora per le donne a termini come viduae ("vedove"), poi viduae Christo maritatae ("vedove sposate a Cristo"), ma la sensazione di insufficienza e ambiguità del vocabolario permaneva. Solo nel 'v secolo si arriverà a parlare di "monaci" e di "monachesimo" (monachoí: solitari, uniti, semplici; monótropoi: viventi in un unico comportamento) e sarà questo il vocabolario che si imporrà per tutto il primo millennio cristiano, in oriente e in occidente. Va tuttavia notato a questo proposito che gli scritti autentici di Pacomio e di Basilio evitano con cura di ricorrere a questi termini, preferendo mantenere il linguaggio ecclesiale comune di "fratelli" e "sorelle". Di fatto l'insufficienza del termine "monaco" permaneva quando si dovevano indicare uomini viventi insieme, in comunità, i "cenobiti"; tuttavia il termine si mantenne e in occidente fu codificato dalla Regula monachorum di Benedetto, la quale prevede "monachorum quattuor genera" (RB i, i), di cui due lodevoli: cenobiti e anacoreti o eremiti.

    Nel secondo millennio in occidente si introdusse a poco a poco il termine "religione" per indicare una forma di vita e quindi il termine "religioso/a" per chi la abbracciava. Questo fino ai nostri giorni, quando anche questa terminologia, certamente non chiara né priva di ambiguità, sarà di fatto sostituita da vita consacrata e consacrato/a per poter mettere sotto un'unica denominazione quanti professano i consigli evangelici ma non si ritengono religiosi dal momento che vivono la secolarità. A nessuno sfugge l'ambiguità di questi ultimi termini che abbiamo posto in corsivo: è un'ulteriore conferma non solo di quanto permanga poco chiaro il vocabolario, ma anche di quanta confusione regni ancora per quel che riguarda la definizione e quindi l'identità della vita religiosa. Un esempio eloquente, e di per sé grave, è il fatto che l'Unione dei superiori maggiori nel convegno del novembre 1993, chiedendo "una nuova ridefinizione della vita consacrata", tenti di darla ricorrendo a una nuova terminologia, quella di "secolarità cristiana piena" propria dei laici e quella di "secolarità cristiana ridotta" riservata ai religiosi!1

    Questi sono certamente segni di un travaglio che non dà cenni di imminente conclusione, ma noi vorremmo ribadire due constatazioni:

    - La comprensione della vita religiosa è strettamente legata all'ecclesiologia: la storia insegna che a ogni ecclesiologia differente diventata dominante in una determinata epoca ha sempre corrisposto una forma di vita religiosa differente: non è un caso che nel primo millennio, quello della chiesa indivisa e dell'ecclesiologia di comunione, ci sia stata un'unica vita religiosa, il monachesimo, pur diversissima nelle realizzazioni e nelle forme; come pure non è un caso che le chiese ortodosse conservino quest'unica presenza ancora oggi.

    - Come ho già ricordato, da ormai trent'anni molti cristiani - esegeti, teologi, uomini spirituali - richiedono una chiarezza di linguaggio che si liberi dalle ambiguità:2 purtroppo, non solo questa richiesta resta inevasa, ma la riflessione sembra quasi "avvitarsi su se stessa", tentando vie di uscita in definizioni sempre più limitanti e sempre più confuse. Basti pensare alla già ricordata terminologia della "secolarità ridotta o piena", alle richieste di accedere a una consacrazione da parte di fedeli sposati o alla eventuale "forma stabile di vita, secondo i consigli evangelici, da parte dei coniugi" (IL 38).3

    Pertanto vorremmo qui rileggere ancora una volta alcuni termini per fornire un povero contributo alla faticosa ricerca ecclesiale di maggiore chiarezza. Sì, confessiamo che il disagio c'è ed è esteso, e che questa urgenza di chiarezza necessita di uno sforzo da parte di tutti: uno sforzo che non si arrocchi in una difesa della vita religiosa rispetto alla vita laicale e che non si nutra della paura di perdere un luogo privilegiato e speciale nel popolo di Dio. Che tristezza il leggere che "l'attuale valutazione teologica pastorale del laicato... porta a una svalutazione dottrinale affettiva, specialmente nei giovani, della vita consacrata" (IL 26), come se l'emergenza dell'identità forte del battezzato significasse una diminuzione del "religioso" e non una ripresa del fondamento della sua identità! È tempo di impegnarsi nella ricerca di formule più autentiche per esprimere la vita religiosa.

     

    La radicalità cristiana

     

    L'ecclesiologia di comunione - vissuta nella grande tradizione e recentemente espressa dal Vaticano II come fondamento dell'ordinamento della chiesa e di una corretta relazione tra unità e pluriformità in essa, ecclesiologia conforme al senso dei fedeli - richiede innanzitutto una revisione della lettura del rapporto tra vocazione battesimale e vocazione religiosa.

    Ora, gli evangeli e tutto il Nuovo Testamento affermano unanimemente il carattere esigente della vocazione cristiana. Si tratta di un'esigenza assolutamente universale, di una condizione posta a tutti senza alcuna restrizione, dunque di una conditio sine qua non dell'essere cristiani. La radicalità evangelica non è delegabile ad alcune forme di vita religiosa, lasciando ai fedeli il semplice dovere di un'osservanza priva di radicalità. Diverse sono le forme concrete in cui viverla, ma la radicalità della proposta resta unica. È quanto esprime in modo lapidario Gesù in Mc 8,34: "Convocata la folla insieme ai discepoli, Gesù disse loro: `Se qualcuno vuole venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua". In questo modo viene designato il modo di vita proprio del battezzato. I tre imperativi abbracciano tutta la vita del credente sotto il segno di una radicalità che è dinamica ("mi segua": imperativo presente, azione che si ripete, che si prolunga nel tempo) e al tempo stesso senza ritorno ("rinneghi se stesso, prenda la sua croce": imperativi aoristi, azione puntuale, posta una volta per tutte). E il battesimo dunque - in cui sono insite queste esigenze - che immette nella radicalità cristiana; è il battesimo che costituisce una rottura, una scelta di non ritorno che deve poi essere quotidianamente inverata nel dinamismo dell'adesione al Cristo Signore. Non a caso il Nuovo Testamento parla del battesimo come "morte" al peccato per "camminare in una vita nuova" (Rm 6, 1-11) e lo intravede come sigillo di una "conversione" che comporta "l'allontanamento dagli idoli" per "servire al Dio vivo e vero nell'attesa del Figlio suo" (1 Ts 1,9). È dunque il battesimo che rende i cristiani offerte vive, sacrifici viventi in tutta la loro vita (cf. Rm 6,12-14; 12,1-2). Recuperare il senso di radicalità esigente insito nel battesimo (cioè nella vocazione cristiana tout court) aiuterebbe a non applicare ai soli religiosi istanze ed elementi che sono richiesti e propri a ciascun cristiano! In un certo senso, il fatto che si sia arrivati a parlare della consacrazione religiosa e dei voti come di un secondo battesimo ha anche voluto indicare, seppur in modo maldestro e fuorviante, che quelle esigenze derivano e stanno all'interno dell'evento battesimale. Si, il radicalismo evangelico non si misura sulla quantità delle cose da lasciare, ma sulla qualità della chiamata che nel battesimo è morte all'uomo vecchio e vita nuova in Cristo.

    Certo, dalla chiamata che Gesù rivolge a discepoli e folla (cf. Mc 8,34 ss.) emerge un'immagine della radicalità cristiana come evento dinamico, come incontro di una libertà personale con Cristo, incontro in cui, per amore di Cristo ("a causa mia, a causa dell'evangelo"), si accoglie come dono liberante il regime della rinuncia ("rinneghi se stesso") che non è prefissato, prestabilito, ma che viene riplasmato nel tempo e nelle diverse età della vita dalla sequela del Signore ("mi segua"). Quel regime della rinuncia abbraccia tutte le sfere dell'esistenza personale ("se stesso"): dal rapporto con gli altri al rapporto con i beni. E tende a far emergere nella storia e nella vita di una persona la croce gloriosa, le energie vivificanti insite nella croce ("prenda la sua croce").

    A questo punto ci si può chiedere: all'interno della vocazione cristiana, connotata in senso così radicale ed esigente per tutti (e dunque da viversi all'interno di qualsiasi forma vitae: celibato/vita comune, matrimonio/famiglia) c'è spazio per una "radicalità più radicale"? Si possono intravedere, prefissare, determinare, prestabilire forme di radicalità che alla fine risulterebbero essere "la radicalità" tout court? Si può dire, per esempio, che la richiesta di Gesù all'uomo ricco ("Va', vendi quanto hai e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi") è più radicale di altre forme in cui viene vissuta la povertà e la carità verso i poveri nel Nuovo Testamento? È evidente infatti che all'interno della vocazione cristiana/battesimale ("rinneghi se stesso") è implicita l'istanza di sottomettere a un primato evangelico il rapporto con i beni ("Non potete servire Dio e mammona"). Rapporto che nel Nuovo Testamento non è vissuto in maniera univoca: c'è la condivisione, c'è la comunione dei beni e ci può essere questa richiesta di abbandono totale. Ma non si può parlare di un consiglio sovrapposto a un precetto, tant'è vero che gli evangeli utilizzano l'episodio dell'uomo ricco per illustrare come le ricchezze siano ostacolo alla salvezza, non semplicemente a una maggiore perfezione! Più semplicemente, ci può essere chi, nell'incontro tra la propria verità personale ("Una cosa ti manca") e la radicalità che Cristo richiede ("Seguimi"), arriva ad abbandonare tutto. Ma questo non costituisce la forma della radicalità ed è finalizzato alla richiesta fondamentale/battesimale: mi segua! Del resto il problema non è tanto la forma, ma il contenuto di santità e di carità che può emergere in qualsiasi tipo di vita perché sia il matrimonio che il celibato prendono senso dal loro comune riferimento al Regno e sono due modi di vivere l'unica alleanza con il Signore. Ma non mi sembra sensato spigolare dalle pagine evangeliche questa o quella frase per costruire la corona delle richieste radicali che inevitabilmente si sintetizzano poi nella vita celibataria/religiosa. A mio avviso sono l'obbedienza alla propria storia e creaturalità, cioè al Dio Padre, la sottomissione al Figlio, il Cristo Signore e l'azione dello Spirito santo che creano e ricreano modi di radicalità vissuta sempre nuovi, irriducibili a un modello prestabilito. La radicalità non è altro che la trasparenza nell'uomo e nella storia dell'azione del Dio Padre, Figlio e Spirito santo. Trasparenza che non è garantita da alcuna forma vitae.4

    Intravista in questa prospettiva di evento dinamico che scaturisce dall'incontro fra una libertà personale con il Cristo Signore sotto la guida dello Spirito, la radicalità dimostra di poter appartenere tanto alla vita matrimoniale che celibataria: anzi queste due forme daranno origine a narrazioni della koinonía trinitaria, dell'amore divino, diverse ma complementari: la famiglia e la vita fraterna. Entrambi spazi di narrazione della fedeltà di Dio, luoghi in cui vivere l'alleanza con il Signore.

    Percepita in questo modo la radicalità è sottratta alla sottolineatura antropocentrica data dai consigli, recupera come centrale l'elemento teologico, anzi trinitario, si libera da una configurazione formale prefissata e ritrova la creatività dell'azione dello Spirito. Inoltre si reimmette nel flusso dell'unica chiamata alla santità di tutto il popolo di Dio e non contribuisce a mantenere il "doppio livello" di gradi di vita cristiana: uno a caro prezzo e uno a buon mercato!

    Ecco perché non dovrebbe esserci preoccupazione di marcare differenze tra fedeli cristiani e vita religiosa-ma piuttosto di sottolinearne il legame. Diverse sono le modalità all'interno della radicalità e della novità della sequela e se c'è distinzione questa va colta all'interno di una fondamentale uguaglianza data dal battesimo.5

     

    L'"eunuchía" per il Regno

     

    Siamo stati più volte criticati perché non facciamo uso del termine "verginità", ma noi crediamo che, poiché tale vocabolo designa innanzitutto un fatto fisico non posseduto da tutti i religiosi e non richiesto per acconsentire a questa vocazione, sia ambiguo utilizzarlo per designare la situazione di chi vive un celibato per il regno di Dio. Sì, noi preferiamo il termine "celibato", che indica una situazione di vita a cui il religioso è tenuto dalla sua professione, situazione che comporta la continenza motivata dalla castità.6 Quest'ultima poi è una virtù cristiana alla cui osservanza è tenuto ciascun cristiano, sia celibe che sposato. Inoltre noi evitiamo di parlare di "perfetta castità", come fa invece il canone 599 del CIC, perché anche gli sposi devono vivere la loro castità in modo perfetto. Occorre dunque combinare i tre concetti di celibato, continenza e castità per definire l'impegno del religioso: in una vita di celibato egli promette la continenza a causa della castità per il Regno. Sì, la vita religiosa ha come conditio sine qua non la situazione del celibato volontario, la cui possibilità è stata annunciata da Gesù Cristo: "Ci sono alcuni che si fanno eunuchi in vista del Regno dei cieli. Chi può far spazio (vb. choreîn) a questa parola, faccia spazio" (cf. Mt 19,12).

    C'è dunque la possibilità del celibato per coloro che sanno farvi spazio, ma il celibato resta un dono, un carisma (chárisma: Cor 7,7) che Paolo arriva anche a consigliare, ma solo a chi l'ha ricevuto in dono. Per questo si può parlare di "consiglio apostolico", ma non rivolto a tutti, bensì solo a quelli a cui è donato. Tuttavia anche l'espressione "consiglio apostolico" mi pare insufficiente, senza per questo voler minare o sminuire l'autorità dell'Apostolo. E vero, infatti che Paolo parla del celibato come situazione "migliore" (avv. kreîsson: 1 Cor 7,38), "più beata" (makariotéra: 1 Cor 7,40), come innegabile "vantaggio" (symphoron: 1 Cor 7,35) rispetto al matrimonio, ma questo confronto - espresso anche in termini a volte ingenuamente schematici ("chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie": 1 Cor 7,32-33), a volte rozzi ("è meglio sposarsi che ardere": 1 Cor 7,9) - pone una distinzione in una fondamentale uguaglianza tra il dono del matrimonio e il dono del celibato. Entrambe queste realtà, infatti, sono poste sotto il segno della novità cristiana svelata solo a chi è capace di comprendere (cf. Mt 19,1 I-12). Sia il celibe che lo sposato devono amare il Signore con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze (Dt 6,5; Mc 12,30 e paralleli) e vivere nel primato dell'amore per Dio. Celibe e sposato devono amare gli altri come se stessi e Dio prima di tutto ("Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me ...": Mt 10,37-38), con la totalità della propria persona (cf. Mc 12,28-33). E, d'altro canto, ci sia consentito ricordare che nemmeno per il celibe è vero che Dio sia tutto. Dio va amato con tutto l'essere, ma non è tutto: un tale Dio non è il Dio cristiano che invece lascia che accanto a sé ci siano altri soggetti e oggetti di amore: i fratelli, le sorelle, gli amici, la sposa, lo sposo, i figli... Amare Dio con tutto se stesso significa evidentemente anche amarlo con tutte le proprie relazioni, in esse e attraverso di esse. Il fondamento del significato del celibato per il Regno non va cercato nell'assenza di concorrenza e di conflitto tra amore di Dio e amore di una famiglia, né si può troppo facilmente opporre l'ordine della creazione (in cui resta inscritto il matrimonio) all'ordine della resurrezione (anticipato e figurato dal celibato), quasi che soltanto il celibato fosse profezia del mondo futuro. Il celibato ha certamente una valenza escatologica fin dalle parole di Gesù che lo correlano al Regno ("... in vista del Regno": Mt 19,12); esso infatti mentre risponde con totalità di adesione al comando di Gesù "Seguimi!", è inseparabile dall'invocazione "Vieni, Signore Gesù!". Lotta antiidolatrica, assiduità con il Signore, non distrazione, veglia e preghiera per la venuta del Regno, coscienza del non-ancora e critica all'autosufficienza del presente... tutti questi elementi dovrebbero rendere la vita nel celibato per il Regno un'affermazione - di per sé - dell'esistenza di una dimensione altra e supplementare dell'esistenza umana. Vivendo la dimensione dell'attesa della Parusia, il celibato per il Regno apre spiragli di speranza e di senso per gli uomini; incarnandosi in una comunità di "diversi in comunione", dimostra realistico l'utopico e profetizza e accelera la venuta del Regno. Ma se la vita religiosa è profetica ed escatologica lo è, fondamentalmente, perché appartenente al popolo di Dio e inserita nella chiesa in cui ogni battezzato è stabilito "profeta, sacerdote e re". Se il celibato accentua dunque la dimensione escatologica, è pur vero che quest'ultima attraversa ogni realtà cristiana, matrimonio compreso! Del resto, perché mai Gesù ha sempre parlato del mondo futuro di Dio con immagini sponsali e nuziali e non in termini di solitudine sessuale?

    Si sa che il concilio di Trento, in una difesa del celibato contro gli attacchi provenienti dalla Riforma, ha condannato chi dice che lo stato coniugale dev'essere preferito allo stato di verginità e di celibato e ha ribadito il melius (1 Cor 7,38) e il beatior (1 Cor 7,40) di Paolo, ma questo testo - senza essere sottovalutato - deve essere letto collocandolo nel clima polemico in cui è stato prodotto. In ogni caso ribadirlo oggi, sottolineando i termini di superiorità significa, quantomeno, esporlo alla non comprensione del popolo di Dio che vi riconoscerebbe la manifestazione di un vanto.7 Noi vorremmo che "i celibi, che restano nella castità in onore della carne del Signore, rimanessero umili, perché se si gonfiano sono perduti e se si considerano superiori ad altri nella chiesa, sono corrotti".8 Noi amiamo il celibato e lo sentiamo come un dono grande che non riusciamo a vivere degnamente, ma con spirito eucaristico rendiamo grazie al Signore non contro gli altri o sentendoci superiori agli altri.

     

    Vita consacrata

     

    L'Instrumentum laboris così recitava nell' "Introduzione" al nr. 6: "La terminologia 'vita consacrata', benché presente nel Vaticano II, risulta per molti abbastanza recente, da alcuni è giudicata non del tutto adatta e talvolta discriminante, quasi che gli altri cristiani non fossero radicalmente 'consacrati' con il battesimo". Nonostante che i testi del concilio Vaticano II siano molto discreti e sobri nell'uso dell'espressione "vita consacrata" (solo in PC i; "stato consacrato a Dio" in LG 45), questa terminologia è stata preferita a tutte le altre dal CIC (liber II, pars III) ed è dominante nei documenti ufficiali, fino alla stessa esortazione apostolica post-sinodale, intitolata Vita consecrata. Noi pensiamo però che ogni vita cristiana sia vita consacrata e che in quest'ottica si debba comprendere nella teologia occidentale il carattere battesimale e crismale.9

    Significativamente, durante i lavori del sinodo si sono levate le voci di alcuni padri sinodali che hanno non solo espresso perplessità, ma anche manifestato la necessità di una revisione di tale terminologia. Così, per esempio, perfino il cardinal H. H. Groér: "La vita cristiana come tale ha come fine la perfezione e conduce alla santità attraverso l'aiuto della grazia di Dio. Per questo motivo l'espressione 'vita consacrata' dovrebbe essere rivista: la vita consacrata a Dio e la sua missione nella chiesa e nel mondo ha forme differenti. Milioni di laici cercano consapevolmente la perfezione e la santità. 'Infatti, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio' (Rm 8,14).10

    E appunto sull'espressione "vita consacrata", che vogliamo ora fare qualche osservazione critica.11 Nel Nuovo Testamento il verbo "consacrare" abitualmente traduce due verbi che in realtà sono diversi tra di loro: innanzitutto haghidzein, "chiamare santo", "santificare". Troviamo tale verbo in testi quali: "Il Padre ha santificato [Gesù] e l'ha inviato nel mondo" (Gv 10,36); oppure all'interno della preghiera di Gesù al Padre in Gv 17: "Per loro io santifico me stesso affinché a loro volta siano santificati nella verità" (Gv 17,19), e ancora: "Santificali nella verità" (Gv 17,17). In tutti questi passi la Bibbia italica (cm) traduce con il verbo "consacrare". L'altro termine è chrkin, "ungere", usato per dire che Gesù è unto-consacrato dallo Spirito che è su di lui (cf. Lc 4,18), è "l'Unto" di Dio (At 4,27), è stato unto in Spirito santo (At 10,38). Di conseguenza i credenti in Gesù sono gli unti-consacrati (2Cor 1,21; 1 Gv 2,20.27 ecc.). Egli infatti è il Cristo (Christós, traduzione greca dell'ebraico Mashiach, "Unto", "Messia") e i suoi discepoli sono i christianol, cioè "i messianici", "i consacrati" (cf. At 11,26). Perché allora parlare di "speciale consacrazione" (PC 5; VC 30)? Se si afferma che la consacrazione religiosa ha le sue radici nell'essenziale consacrazione battesimale perché allora si dice che essa ne è "un'espressione più piena" (eamque plenius exprimit: PC 5)? E perché affermare che nella vita consacrata vi è "valore superiore" (praestans valor: PC 1)12? È vero che anche il papa, nei discorsi ufficiali, parla di "vita consacrata", ma con accenti diversi. Nella lettera apostolica Ad omnes personas consecratas (22 maggio 1988) si dice che la consacrazione è essenzialmente battesimale perché il battesimo racchiude in sé l'inizio di tutte le vocazioni che, nel corso della vita di un cristiano o di una cristiana, solleciteranno una sua scelta e una sua consapevole decisione nella chiesa. Infatti, in ogni vocazione di una persona battezzata si riflette un aspetto di quella 'consacrazione nella verità', che Cristo ha compiuto con la sua morte e resurrezione e ha racchiuso nel suo mistero pasquale: 'Per loro io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità' (Gv 17,19). La vocazione di una persona a consacrare tutta la sua vita si pone in uno speciale rapporto con la consacrazione di Cristo stesso per gli uomini. Essa nasce dalla radice sacramentale del battesimo, che racchiude in sé la prima e fondamentale consacrazione della persona a Dio. La consacrazione mediante la professione dei consigli evangelici - cioè mediante i voti o le promesse - è lo sviluppo organico di quell'inizio che è il battesimo" (parte III). Questo testo è denso e non ambiguo, ma ben difficilmente può stare accanto all'affermazione che "il religioso è un consacrato a Dio per mezzo di Gesù Cristo nella forza dello Spirito santo. Questo è un dato ontologico che deve affiorare alla coscienza e orientare la vita" (Giovanni Paolo II, 24 novembre 1978).

    In realtà, come annotano in molti, "vita consacrata è già la vita del battezzato coerente" per cui "con questa locuzione non si indica alcuna specificità rispetto al battesimo".13 Se la terminologia di "consacrazione" indica poi "l'essere messi da parte" per il Signore, allora si può applicare tanto al cristiano quanto al religioso.14 Finché però non si dice che i cristiani, in quanto tali, sono "consacrati" - e questo non avviene certo abitualmente! -, e si riserva ai soli religiosi tale terminologia, si finisce forzatamente per fare di loro dei privilegiati nel popolo di Dio insieme e accanto ai presbiteri "consacrati" con l'ordinazione. Nella comune comprensione, infatti, questa terminologia rimanda a qualcosa di santo e di sacro da custodire e venerare con particolare attenzione e finisce col circondare di un alone di sacralità i religiosi distanziandoli dai "cristiani comuni".

    Si, c'è il problema di un "di più" senza il quale molti religiosi non vedono la ragione del loro assenso alla vocazione. Un tempo si parlava chiaramente di "superiorità" e di "stati di perfezione" (linguaggio usuale nel magistero di Pio XII); poi si è passati a parlare di "vita di perfetta carità"; oggi si parla di "speciale consacrazione". Sempre insomma si manifesta il bisogno di introdurre aggettivi comparativi rispetto alla vita battesimale. I religiosi seguono Cristo "più da vicino" (pressius), "più facilmente" (facilius); la loro consacrazione è espressione "più perfetta", "a titolo nuovo e speciale", "testimonia meglio", "meglio conforma", "meglio preannuncia"... Ma "parte migliore" e "superiorità" competono davvero ai religiosi? Cosa si nasconde dietro a questo "di più" così spesso invocato? È un segno di incapacità di accettare l'alterità e la differenza all'interno della chiesa senza cadere nella tentazione del confronto, dal paragone, del vanto di una superiorità? Questa domanda l'hanno posta i superiori generali e la formuliamo anche noi. E crediamo che a noi non si possa rivolgere l'accusa di essere orizzontalisti o secolarizzati. Giustamente Tullio Citrini scrive che alla domanda sul perché della vita religiosa "non va risposto nel senso di dimostrare perché sia meglio o: che cosa ne avremo? La risposta ultima non può essere se non nel senso che per me, per noi è cosa buona ed evangelica seguire il Cristo così".15

     

    Le diverse forme della vita religiosa

     

    L'esortazione Vita consecrata, citando il Vaticano II (LG 43) parla della vita religiosa come di "una pianta dai molti rami, che affonda le sue radici nell'evangelo e produce frutti copiosi in ogni stagione della chiesa" e rilegge la vita religiosa con una felice innovazione di linguaggio: è un carisma, un frutto dello Spirito santo. Vorremmo allora abbozzare qui qualche tratto di questa policroma diversità carismatica della vita religiosa.

     

    1. La vita monastica

     

    La vita monastica cenobitica, anacoretica ed eremitica è stata e deve rimanere una ricerca della sequela del Signore secondo l'evangelo e basta. L'unica domanda da rivolgere al candidato è questa, secondo la tradizione: "Vuoi vivere radicalmente l'evangelo? Questo la vita monastica te lo permetterà, ma non ti promette nient'altro in più!". Proprio per questo il monachesimo fin dalle origini ha avuto come iniziatori e fondatori semplici laici come Pacomio e Maria, Basilio e Macrina, Benedetto e Scolastica, e dovrebbe essere costituito prevalentemente da laici, semplici fedeli, uomini e donne diventati fratelli e sorelle in Cristo, in mezzo ai quali la presenza di presbiteri assicura la vita sacramentale. Inutile cercare o dare alla vita monastica altro scopo che vivere l'evangelo, anche se di fatto nella storia e nei diversi luoghi i monaci hanno assunto compiti specifici: questi tuttavia non facevano parte integrante e necessaria della loro vocazione. Questa semplicità così gratuita è difficile da comprendere (anche da parte degli stessi monaci!) ma è essenziale: se i monaci assumessero istituzionalmente uno o più scopi pastorali, culturali, caritativi, missionari, sarebbero nominalmente monaci, ma di fatto svolgerebbero un ministero o una diaconia appartenenti ad altre forme di vita religiosa.

    Di conseguenza non appare adeguato ma anzi sviante dare al monachesimo l'aggettivo di contemplativo (termine che i monaci nella maggior parte da almeno tre decenni rifiutano) oppure dare a essi come funzione il culto o la preghiera incessante; i monaci vivono in modo loro proprio l'assiduità con Dio ma anche lavorano intensamente; la loro contemplazione è quella del cristiano cioè la conoscenza (gn6sis), anzi la sovraconoscenza (epígnosis) cui è invitato ogni cristiano (cf. Ef 3,17.19; Fil 3,8; Col 2,2-9; Ef 1,17; Fil 1,9); il loro lavoro è trasfigurazione di questa terra in modo che il deserto diventi un giardino e una città.16 Occorrerebbe secondo noi anche essere avvertiti nell'uso del termine "vita apostolica" quando lo si applica alla comunità monastica: infatti è legittimo se questo vuole significare vita ispirata dai cosiddetti sommari lucani negli Atti degli apostoli (At 2,42-47; 4,3 2 -35) - cioè vita apostolica perché vissuta nei giorni degli apostoli - ma può essere solo giustificante il presente di molti monaci se con esso si vuole indicare un'attività apostolica o evangelizzatrice e pastorale.17

    Noi crediamo alla necessità e all'attualità della vita monastica perché memoria della sequela del Signore in una vita di celibato per l'attesa del Veniente e in una ricerca incessante di conversione dagli idoli a Dio come devono fare tutti i cristiani. Questa chiamata al monachesimo è stata finora vissuta e si può ancora vivere nella solitudine dell'eremo, nella semplicità di vita dell'anacoretismo (piccoli gruppi), nella vita cenobitica.

    Appare evidente che la via più percorsa e più munita di sostegno e aiuto è la vita comune nei monasteri, dove il celibato permette la formazione della comunità e in questa la comunione di tutti i beni e la sottomissione evangelica della beata obbedienza. E come la famiglia cristiana può irradiare nella chiesa e tra gli uomini, così può fare la comunità monastica soprattutto attraverso l'accoglienza, la parola, la comunicazione.

     

    2. La vita apostolica

     

    Discerniamo la vita apostolica in senso proprio, modellata cioè sugli apostoli-inviati itineranti (con Gesù e dopo la resurrezione di Gesù), in quella forma di vita religiosa nella quale degli uomini vivono con uno scopo preciso: l'evangelizzazione o la predicazione dell'evangelo nella chiesa alle frontiere e fuori della chiesa. Questa vita non è più una vita monastica, tanto è vero che oggi si presenta come vita ordinariamente accompagnata dall'ordinazione presbiterale (e in cui i fratelli laici sono un'eccezione) per disposizione tenace della Santa sede ma anche per intrinseche necessità inerenti allo scopo che questa forma mantiene. Struttura di questa forma non è la vita comunitaria stabile ma il "convento" dove si conviene, la "statio" dove si sosta nella missione, "la residenza"... tutti termini questi che indicano il primato dato non alla vita comune ma a un compito, un'azione, un ministero assegnato dalla chiesa e assunto come proprio. Questo certamente non vieta che ci sia qualche forma di vita comune, ma essa resta al servizio della missione, della predicazione. È stato Ignazio di Loyola che è riuscito in modo determinante a progettare e rendere legittima e feconda questa forma di vita, peraltro già tentata dagli ordini mendicanti nel xiii secolo. Non è un caso che i frati predicatori siano un ordine canonicale, dunque presbiterale e che gli altri mendicanti (come i francescani), nati come movimenti laicali, quasi subito siano diventati ordini clericali, assumendo pur tuttavia alcuni tratti della vita monastica, modello allora ancora dominante per la vita religiosa.

    Sappiamo bene che a questo proposito vigono tuttora nomenclature di cui si è gelosi, ma si dovrebbe avere il coraggio e la sincerità di parlare di sé per quel che si è realmente e istituzionalmente oggi, e non per quel che si è stati o si vorrebbe essere.

     

    3. La vita diaconale

     

    Chiamiamo così la vita religiosa con uno scopo non ministeriale (non presbiterale, dunque) ma squisitamente diaconale, cioè uno scopo che si vuole risposta a un bisogno emergente nella storia e nella società. È attorno al Mille che si inizia a sentire il bisogno di una vita religiosa specificatamente dedicata a un'opera di carità (malati, riscatto degli schiavi, ecc.), ma la sua fioritura è testimoniata solo nell'epoca moderna e soprattutto dalla Controriforma a metà del nostro secolo (potremmo schematicamente dire da Angela Merici a madre Teresa di Calcutta). Lo scopo che appare sempre e ben stagliato all'inizio delle costituzioni è caritativo, rappresenta un servizio ai poveri, ai malati, all'infanzia, alla gioventù, ai vecchi, agli emarginati ed è per ogni congregazione principio di vita e principio di morte. Da ciò la relativa provvisorietà di queste fondazioni, la difficoltà a mantenersi nei secoli, a differenza del monachesimo che non ha scopi emergenti da bisogni storici e a differenza della vita apostolica che è sempre necessaria alla chiesa. È questa la forma di vita religiosa numericamente più estesa, ma oggi è quella maggiormente in difficoltà nell'area di antica cristianizzazione e certamente assisteremo nei prossimi decenni alla scomparsa di molte congregazioni o al loro mutamento radicale qualora trovino prosecuzione ed espansione nel terzo mondo.

    Indubbiamente molti compiti che finora erano assunti da questa forma di vita oggi sono assolti dai semplici fedeli, dal volontariato e da diverse forme caritative di impegno temporaneo. Certamente sarà presente anche in futuro questa vita diaconale perché indicherà la permanenza del servizio nella chiesa, di fronte "ai poveri sempre con noi", ma dovrà essere molto più duttile e più legata alle chiese locali o regionali.

     

    4. Vergini e vedove "consacrate"

     

    Istituita recentemente nel dopo concilio con una presenza nelle chiese locali a servizio di queste e in dipendenza dal vescovo, soprattutto dopo la pubblicazione del "Rito della consacrazione delle vergini" questa forma di vita femminile si sta diffondendo nelle chiese, vantando il fondamento della presenza di vergini nella chiesa antica. Per ora si può solo dire che si attende un'evoluzione e un vero approfondimento di questa vocazione, rispetto alla quale a noi non sembra esserci coscienza adeguata né da parte dei pastori né da parte della comunità cristiana. Poniamo tuttavia alcune domande: al di là del riferimento normale al vescovo, quale sarà l'esplicito concreto e istituzionale riferimento ecclesiale? Queste vergini potranno forse associarsi, ma allora quale sarà la differenza dagli istituti secolari se non la "diocesanità" invece dell'eventuale "superdiocesanità"? Si penserà anche a un equivalente maschile in parallelo agli ascetae della chiesa antica? E le vedove e i vedovi quale fisionomia assumeranno?

     

    5. Gli istituti secolari

     

    A lungo impediti nella chiesa, sono stati introdotti da Pio XII, diventando una realtà fiorente e numerosa di membri in tutta la chiesa, una realtà vasta quanto la vita religiosa da cui vogliono distinguersi. Amano dirsi "consacrati" ma non "religiosi" e neppure "laici". Vita consecrata attesta che gli istituti secolari "uniscono in una specifica sintesi il valore della consacrazione e quello della secolarità" (VC 32). Per usare la loro stessa terminologia, loro aspirazione è la "consecratio mundi" mediante l'assunzione di "ardui compiti di frontiera". Di questi non ci sentiamo competenti a dire alcunché.

     

    6. Nuove comunità

     

    Vita consecrata dedica due paragrafi alla nascita e all'emergenza di nuove comunità di vita religiosa (cf. VC I 2 e 62) mostrando un interesse e un'apertura non formali verso il fenomeno e tentandone una lettura nonostante la complessità e la diversificazione presenti. Noi vorremmo solo dire che l'attuale pullulare di nuove comunità richiede discernimento grande e un ancora lungo tempo di decantazione prima di procedere a una loro compaginazione nella vita religiosa. I frutti dello Spirito, la qualità profetica dovranno essere riconosciuti dalla chiesa con magnanimità, ma anche senza incanti dovuti al numero degli adepti, alla loro apparenza o alla loro capacità di presenza e di occupazione di spazi (cf. VC 62).

    Quanto alle nuove comunità monastiche, vorremmo che da parte dell’ordo monachorum ci fosse accoglienza benevola senza timore di concorrenze, perché anche esse possano avere un legame organico con la tradizione. D'altronde molte forme monastiche occidentali oggi storiche (camaldolesi, cistercensi, ecc.) sono state esse pure all'inizio nuove comunità rispetto all'ordo monachorum benedettino. Se una nuova comunità è veramente monastica non può far altro che sentire solidarietà e riconoscenza rispetto all'ordo monasticus storico anche perché il monachesimo non ha mai un solo ispiratore ma molti padri spirituali e nella vita monastica la "concordantia regularum" non è esercizio letterario ma strumento di qualità di vita umana e spirituale.

     

    La testimonianza della vita religiosa

     

    Se è vero che nella vita religiosa il fondamento discriminante rispetto alle altre vocazioni cristiane è il celibato e solo il celibato, e se resta vero che il linguaggio dei consigli evangelici è inadeguato e sviante, è altrettanto vero che la triade castità, povertà e obbedienza mantiene una sua verità. Infatti, come si sottolinea da più parti, le esigenze evangeliche sono molte e non solo tre, ma antropologicamente sono riassumibili e sintetizzabili in queste tre virtù. Anche le scienze umane convengono verso questa triade quando indicano le tre libidines che costituiscono l'essere umano più profondo: la libido amandi, la libido possidendi e la libido dominandi. Su questi tre luoghi noi ci costruiamo, maturiamo e ci umanizziamo, ma in essi noi possiamo anche diventare idolatri, contraddicendo il Dio vero e vivente, il Signore, e restaurando una logica mortifera nei rapporti intraumani.18

    La grande tradizione spirituale perciò ha, poco alla volta, indicato castità, povertà e obbedienza come frutto di una lotta antiidolatrica, frutto del combattimento spirituale, come contrassegni della sequela del Signore. Qui i religiosi devono mostrare la loro concreta sequela del Signore, mostrarla con la carne, con la loro vita, il loro operare e il loro essere: devono mostrare questa sequela quotidiana e concreta in modo sia comunitario che individuale.

    Il celibato non dev'essere ridotto a una condizione di libertà da vincoli affettivi e familiari, ma deve essere segno eloquente di una assiduità con il Signore, senza divisioni né distrazioni (cf. 1 Cor 7,32-34), in modo da annunciare - sempre in aenigmate - il Regno che viene. Celibato come povertà in solidarietà con chi conosce il duro regime della solitudine, ma anche celibato come fecondità: non è forse il celibato che permette la vita comune, segno visibile della comunione con il Signore ed epifania dell'agápe reciproca?19

    Povertà innanzitutto a immagine di Cristo che, da ricco che era, si fece povero (cf. 2 Cor 8,9), in una lotta antiidolatrica contro la ricchezza e il possesso dei beni. Povertà come condivisione di ciò che il Creatore ha destinato a tutti gli uomini; povertà come situazione che nasce dal lavorare per trasfigurare questa terra e dal condividere il frutto del lavoro e ogni cosa; povertà come logica di comunione.

    E infine obbedienza come ascolto pronto del Signore, come sottomissione a fratelli e sorelle, come ascolto di chi ha un ministero di guida nella vita religiosa e nella chiesa: obbedienza che contraddice ogni philautía, ogni amore di sé, e che fa scomparire dallo spazio della comunità cristiana ogni logica di dominio.

    Anche quanti non condividono la fede cristiana capiscono questa lotta contro le tre dominanti del sesso, della ricchezza e del potere e perciò sono in grado di percepire la verità di una vita tesa ad affermare la comunione: comunione nell'amore, nella gestione dei beni, nel rapportarsi e nel compaginarsi umano (si vedano a questo proposito in lettura parallela Gen 3,1-7; Mt 4,1-11; 1Gv 2,15-17).

    Questa memoria di ciò che contrassegna ogni vita cristiana e, per quanto riguarda il celibato, ogni vita religiosa, sarebbe autentica memoria futuri, indicazione del senso - cioè della direzione e del significato - della storia, come è stato annunciato dai profeti e atteso da tutta la chiesa. Ma se la vita religiosa non sa più dire che "la scena di questo mondo passa" (1 Cor 7,31), che "le cose visibili sono di un momento, mentre quelle invisibili sono eterne" (2 Cor 4,18), come potrà vantare l'attributo di "profetica" e pensare di costituire un'indicazione dell'orizzonte escatologico?

    Questa lotta antiidolatrica tesa ad annunciare le realtà ultime va certamente vissuta in una vita comunitaria che sia essa stessa segno eloquente di carità: l'unico segno visibile, garantito dal Signore stesso per il riconoscimento del discepolo è l'amore fraterno! "Da questo riconosceranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,35). Vita comune allora non come garanzia di miglior efficacia nel servizio o come razionalizzazione nell'utilizzo delle risorse umane, ma come condizione sine qua non della novità di vita inaugurata dall'invio dello Spirito a Pentecoste.20 Ecco allora la necessità e l'urgenza di una vita comunitaria di alta qualità umana e spirituale. Ma a questo fine non crediamo che sia sufficiente insistere solo sugli elementi antropologici, pur necessari: si tratta di giungere ad accettare l'altro, il fratello, la sorella, come sacramento di Dio proprio nella sua alterità.

    E infine, come non ricordare "l'assiduità con Dio", motivazione che l'apostolo dà al celibato (cf. 1 Cor 7,3 2 -34)? Assiduità che si nutre della liturgia delle ore, della lectio divina, della preghiera personale, del silenzio e dell'eucaristia, preghiera delle preghiere?

     

    Tentativo di sintesi

     

    Alla luce delle diverse forme di vita e delle valenze insite nei tre "consigli" classici, la vita religiosa dovrebbe essere compresa e affermata innanzitutto come:

    - Vita pneumatica perché ispirata, suscitata, sorretta e guidata dallo Spirito santo che accompagna la sua chiesa nel cammino verso il Regno fino alla venuta gloriosa del Signore Gesù invocata dallo stesso Spirito e dalla chiesa pellegrinante. Senza l'ascolto di questo Spirito permanentemente all'opera, la vita religiosa conosce la decadenza spirituale e anche la perdita della qualità della vita umana.

    - Vita cristica perché vissuta nella sequela quotidiana, concreta di Cristo fino a diventare una vita en Christô, che è la pienezza della maturazione dell'evento battesimale. Questa sequela implica sempre e continuamente la metánoia realmente vissuta con tutta la persona da parte dei chiamati.

    - Vita ecclesiale perché vissuta nella chiesa come carisma a utilità di tutti e quindi necessitante sempre della comunione. La vita religiosa non è una chiesa, tantomeno una chiesa parallela, ma può essere figura ecclesiale 21 e luogo di esperienza di comunione, di vita fraterna, di agápe: l'unico segno non equivoco dei discepoli di Gesù per il mondo (cf. Gv 13,35).

    - Vita escatologica perché vera e continua epiclesi della venuta gloriosa del Signore. Proprio nel celibato, nella xeniteía e nell'assiduità con le sante Scritture la vita religiosa attende il Signore che viene e nella storia del mondo ricorda il primato del Regno che viene, restando salda, come se vedesse l'invisibile (cf. Eb 11,27; 2 Cor 4,18). Così nella chiesa può apparire la memoria quotidiana che il tempo conosce una fine e che la venuta del Signore può irrompere nella nostra vita (cf. 1 Ts 4,15-18).

    Se la vita religiosa tenta di vivere realmente queste sue qualità, allora farà apparire la memoria dell'evangelo nella storia dando frutti di santità a gloria di Dio ma anche per la salvezza di tutti gli uomini e sarà il luogo privilegiato anche del cammino di unità tra le chiese, perché più ci si radica in Cristo e si vive l'autentico evangelo, più come cristiani siamo in comunione gli uni con gli altri.22


    1 Cf. gli atti di quel convegno internazionale: Carismi nella Chiesa per il mondo, Cinisello Balsamo 1994. Una violenta reazione ad alcuni dei testi ivi contenuti, soprattutto alla relazione "Identità della vita consacrata. Come comprendere e presentare la vita consacrata oggi nella chiesa e nel mondo" e alla sintesi conclusiva, è stata manifestata da parte di A. M. Sicari e A. Pigna su Rivista di vita spirituale 3 (1994). Le accuse fatte all'USG sono l'orizzontalismo e una visione della vita religiosa divergente da quella del magistero. A noi sembra di poter dire che lo sforzo fatto per far comprendere la vita religiosa nella chiesa e tra gli uomini è notevole, ma che indubbiamente si potevano fornire delle linee d'identità teologicamente più forti e spiritualmente più ricche. Certo, ci sia consentito di dire che l'introduzione della categoria "secolarità piena e/o ridotta" (cf. pp. 220, 223-224) rappresenta un autentico scivolone: che cos'è la secolarità o l'indole secolare? Questo termine, come anche quello, apparentato, di "laicità", oltre a essere ambiguo, è retaggio di una visione filosofica e teologica oggi tralasciata da chiunque frequenti il linguaggio biblico e patristico. Che tristezza sentire ancora certi termini!

    2 Si pensi ai lavori esegetici di Légasse, Dupont, Egger, Matura, Fusco e alle visioni teologico-spirituali della vita religiosa di Tillard, Guy, Gribomont, Deseille, Colombó.s, Winandy, Schulz, Hostie, Metz, Lozano: certo verrebbe da dire che tutto è rimasto come prima - almeno a livello di linguaggio - se si continua a parlare di "vita di perfezione", di "stati di perfezione", di "consigli evangelici" ed espressioni analoghe. Anche tra le nuove comunità, solo Monteveglio di G. Dossetti e Bose non si sono ripiegate su questo vecchio linguaggio ma preferiscono quello della grande tradizione biblico-patristica.

    3 A questo proposito, cf. G. Rocca, Presente e futuro nella vita consacrata, Roma 1994, pp. 73-77. Ci sono già comunità, come testimonia Rocca, che giungono a esprimere un'apposita professione, alcune emettendo il voto di celibato, altre promettendo la castità matrimoniale; ma a nostro parere questo è solo un aumento della confusione e un tentativo maldestro di raggiungere teologicamente i religiosi in una loro posizione più elevata rispetto al popolo di Dio, ai battezzati!

    4 Ne La Rivista del clero italiano 9 (1994), Enrico Corradi interviene sulla vita consacrata dicendo che "lo specifico della carità consacrata [sic] non consiste tanto nella radicalità evangelica, perché l'appello di Gesù a cercare prima il regno di Dio è rivolto a ogni battezzato, quanto piuttosto nell'essere 'segno splendente' (PC 15) del primato del Regno (cf. LG 44). La vita consacrata non è più perfetta delle altre vocazioni ma è `più segno' perché essa sviluppa una tale comunione con Gesù che tende a rimuovere il più possibile la mediazione dei segni ... così la verginità non è più perfetta del matrimonio, ma è 'più segno' perché vive la comunione sponsale con Gesù (la realtà significata) senza l'intervento del segno (coniuge)" (p. 613). A me pare che, pur di salvare una superiorità della vita religiosa sulla vita battesimale, si sia disposti ad arrampicarsi sugli specchi, finendo per affermare che una realtà non sacramentale è "più segno" di un sacramento! Cf. anche infra, n. 11.

    5 Cf. in questo senso B. Maggioni, "I consigli evangelici non sono consigli", in Presbyteri 5 (1994), pp. 341 ss.; Id., "Eunuchi per il Regno", in Parole di vita 32 (1987) dove scrive: "matrimonio cristiano e celibato per il Regno si incontrano nel radicalismo della sequela intesa come una esistenza vissuta nella logica della croce. Un unico radicalismo vissuto in due forme differenti", p. 289; T. Citrini, "La vita consacrata come figura ecclesiale", in Via Verità e Vita 148 (1994), pp. 49ss.

    6 Cf. la voce "Celibato e verginità" da me redatta per il Nuovo Dizionario di Spiritualità a cura di S. De Fiores e T. Goffi, Roma 19895, pp. 176-194.

    7 Domenico Marafioti, in Civiltà Cattolica 145/11 (1994), pp. 143-153, contesta la nostra ottica che evita un paragone tra celibato e matrimonio (pp. 144 e 149), ribadendo la superiorità della verginità sul matrimonio secondo il concilio Tridentino (sess. 25, can. io) e pretendendo "che questo canone faccia parte della verità cattolica da conoscere e professare" (p. I50, n. 9). Cf. la nostra posizione: supra, pp. 45-56.

    8 Cf. Ignazio di Antiochia, A Policarpo 5,2.

    9 Cf. G. Canobbio: "Lo Spirito santo nella propria scelta di vita", in Via Verità e Vita 148 (1994), pp. 34-40. L'autore percorre un itinerario troppo dimenticato e denuncia "la divaricazione tra la scelta vitale (o vocazione), i sacramenti dell'iniziazione cristiana (e lo Spirito santo in essi donato) e i carismi" (p. 35) e giustamente sostiene che "ogni fedele realizza in forma singolare l'essere cristiano in forza della originalità della sua storia di libertà, la quale viene resa possibile dallo Spirito che egli riceve nei sacramenti dell'iniziazione cristiana" (p. 37), infatti "il piano di Dio si compie per ciascuno in una storia singolare, l'unica che 'salva' la persona nella sua originalità" (p. 40).

    10 L'Osservatore Romano, 10-11 ottobre 1994.

    11Cf. anche supra, p. 25. Tra coloro che, criticando in modo costruttivo i Lineamenta, hanno posto interrogativi sul tema "consacrazione" vanno annoverati Secondin, Tillard, Metz, Van Parys e. altri. Vedi anche Atti Symposium Claretianum/Lateranense, 19-21 maggio 1993, Roma 5994. Sostengono il vocabolario e la teologia della "consacrazione": Régamey, Galot, Aubry.

    12 B. Maggioni, ne "Il fondamento evangelico della vita consacrata", in Vita consacrata, Torino-Leumann 1993, pp. 93-128, accetta acriticamente il termine "consacrazione" e tuttavia afferma che il radicalismo evangelico è richiesto a tutti e non contesta di fatto l'interpretazione di Légasse (p. 115) non diversa sostanzialmente da quella di V. Fusco (Povertà e sequela, Brescia 1991). Scrive infatti: "Il 'se vuoi' (di Mt 19,17) non esprime un consiglio nel senso di una cosa che si può fare o non fare, o di un di più a cui si può benissimo rinunciare: esprime invece la forma di ogni chiamata di Dio" (p. 115). Anche E. Manicardi parla di equivoco suscitato da questa parola di Mt 19,17, "equivoco di far comprendere la vita religiosa come una perfezione e di conseguenza ha determinato la teoria del comandamento nel primo livello (la vita dei laici) e dei consigli evangelici nel secondo (la vita dei consacrati)" (La sequela nella carità, Roma 1994, p. 3).

    13 Cf. G. Dossetti, Identità pancristica del monachesimo e sue valenze ecumeniche, Monteveglio 1994, p. 1.

    14 Su "consacrazione" vedi l'excursus sulla vita consacrata in J. M. Lozano, La sequela di Cristo, Milano 1981, pp. 317-332. Certamente nessuno nega che i religiosi siano consacrati perché nel battesimo sono stati sottratti alla mondanità e fatti santi, quindi christianoi, messianici, consacrati attraverso l'unzione che è in loro (cf. 1 Gv 2,20.27; 2 Cor 1,21). Consacrati anche perché "messi da parte", "riservati per sé" con un atto di Dio; ma perché vedere in questo una negatività e vedere la positività in una "finalità nuova" e in una "dignità superiore" che ci viene ad angustiare? Così A. Pigna, La vita religiosa, Roma 1991, p. 232. Altre pagine di questo testo sono veramente di grande qualità spirituale, soprattutto il capitolo XV, "Dimensione profetica ed escatologica della vita religiosa", pp. 359 ss.

    15 T. Citrini, "La vita consacrata", p. 53.

    16 E. Bianchi, La contemplazione cristiana, Bose 1994. Sulla problematica cf. anche J. Dupont, Gnosis. La connaissance religieuse dans les épitres de saint Paul, Paris 1949; L. Bouyer, Le sens de la vie monastique, Paris 1962; B. Besret, Incarnation ou eschatologie?, Paris 1964; J. Leclercq, Vita religiosa e vita contemplativa, Assisi 1972; G. Dossetti, "L'esperienza religiosa. Testimonianza di un monaco", in L'esperienza religiosa oggi, Milano 1986, pp. 221-223.

    17 Cf. supra, pp. 19-20.

    18 Sono queste tre libidines le tentazioni idolatriche cui si oppongono i consigli evangelici e non "la proprietà privata, l'amore coniugale, la libera iniziativa", come pareva suggerire IL 55. Cf. anche E. Bianchi, "Un vivere alternativo", in Bozze 6 (1982), pp. 35-52; A. Gesché, Dieu, Paris 2994, pp. 156-157; tr. it. Dio, Cinisello Balsamo 1996, pp. 170-171.

    19 Cf. supra, pp. 54-56.

    20 Cf. E. Bianchi, "Vita religiosa e nuova evangelizzazione", in Nuova evangelizzazione, a cura di E. Franchini e O. Cattani, Bologna 1990, pp. 62-64.

    21 Quando diciamo che la vita religiosa è "figura ecclesiale" o "memoria evangelica" non vogliamo affermare una sua esemplarità per gli altri, ma la sua qualità di segno, cioè un'istanza di discernimento a servizio della chiesa. E triste vedere la confusione e l'arroganza di chi invoca la vita religiosa come segno per essere vista e imitata. Il segno è posto per essere visto quasi di sfuggita, per poter subito indicare, far segno, far vedere. Non è forse per questo che la vita religiosa ha sentito Giovanni il Battista, l'indicatore del Cristo, come suo typos: "il principe dei monaci"? Cf. J.-C. Guy, La vie religieuse: mémoire évangélique de l'Eglise, Paris 1987, pp. 89-97.

    22 Cf. infra, pp. 239-256.



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