L'educazione alla fede
Bruno Forte
Il Sinodo dei Vescovi dedicato al tema della nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana, svoltosi dal 7 al 28 Ottobre 2012, ha rappresentato una straordinaria occasione per condividere esperienze pastorali e delineare vie affidabili per un annuncio della fede alle donne e agli uomini di oggi, annuncio “nuovo” tanto a partire dal rinnovamento dei cuori nello Spirito Santo, che dalla novità delle sfide poste ai credenti dai diversi contesti in cui vivono. Da tutti i partecipanti al Sinodo è stata rilevata nel mondo intero un’attesa – esplicita o celata – di un nuovo risuonare del Vangelo, che dia speranza, gioia e motivazione ai credenti, anche non praticanti, e si offra a chi non crede come proposta di vita e di speranza. Certamente, nella varietà delle situazioni presenti nel “villaggio globale”, la proposta cristiana incontra non poche difficoltà. A volte esse si manifestano sotto forma di una vera e propria persecuzione religiosa; altre volte in una diffusa indifferenza dovuta al rigetto, conseguente alla crisi delle ideologie, nei confronti di ogni visione del mondo totalitaria e violenta; a volte, infine, specialmente nel Nord del pianeta, nella sfida rappresentata dalla cosiddetta “modernità liquida”, in cui ciascuno si sente portatore della propria verità soggettiva, incapace di affidarsi a un progetto comune.
La “globalizzazione”, comunemente intesa nel suo profilo socio-economico, è stata vissuta al Sinodo come un’esperienza unica di coappartenenza a una stessa umanità, vissuta come famiglia di Dio, raggiunta dal dono del Suo amore in Cristo nella varietà delle mediazioni storiche e culturali. Il continuo scambio fra i Padri sinodali ha dato più volte l’impressione intensa di un ritrovarsi fraterno, radicato nell’incontro col Risorto, vivo e presente per la fede nei cuori. In questa luce è emerso con chiarezza il senso vero dell’aggettivo posto davanti al sostantivo evangelizzazione. Non si tratta di una novità cronologica, quasi che si voglia fare quello che prima non si era mai fatto, secondo il significato di novità temporale, espresso nel greco del Nuovo Testamento col termine “neòs”. Ciò che è veramente in gioco è la novità di un cuore “nuovo”, capace di nuovo ardore, di creatività e audacia nuove, secondo il senso della novità qualitativa o escatologica, che il greco biblico esprime con l’aggettivo “kainòs”. È la novità dei “comandamento nuovo” datoci da Gesù, l’“entolé kainé”, nuovo non perché chieda quello che prima non veniva richiesto, l’amore di Dio e del prossimo, ma perché lo chiede a cuori resi nuovi dal dono dello Spirito. In altre parole, questo Sinodo ha domandato alla Chiesa di rinnovarsi nella fede e nella carità, di intraprendere cammini umili e coraggiosi di conversione pastorale, che metta al primo posto l’esperienza dell’amore fraterno, della carità verso Dio e verso i poveri, e lasci trasparire il Vangelo attraverso testimonianze contagiose di gioia e di bellezza, rese sempre con simpatia e amicizia verso i destinatari dell’annuncio.
In questa prospettiva, particolare attenzione è stata manifestata da parte del Sinodo ai giovani, che in considerazione dei processi in atto di estraniamento dalla fede, alcuni già definiscono “la prima generazione incredula”: da più interventi si è sottolineato come alle nuove generazioni bisogna più che mai proporre in maniera credibile l’incontro con Gesù come amore liberante e salvifico, anche se forte ed esigente. In famiglia, nella scuola, nella comunità cristiana, occorre dare ai giovani tempo e ascolto, stabilendo relazioni personali feconde, annunciando la bellezza della sequela del Signore, senza mai scoraggiarsi. La trasmissione della fede alle nuove generazioni diventa così in qualche modo la cartina da tornasole della temperatura spirituale degli evangelizzatori: la loro credibilità, la profondità delle loro convinzioni e la verità dell’amore con cui si dedicato alla causa del Vangelo, emergono qui in primo piano, anche per la singolare capacità che hanno i giovani di discernere l’autenticità di ciò che viene loro proposto a partire dall’autenticità del testimone. Come diceva Paolo VI nella “Evangelii Nuntiandi” (n. 41), “l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”. I giovani stessi, peraltro, sono chiamati a essere soggetto attivo della nuova evangelizzazione, specie fra i loro coetanei: un tale impegno li aiuterà anche a discernere il progetto di Dio su di loro e a corrispondervi come alla vocazione che dà senso e bellezza alla vita. Alla luce di quanto emerso nei lavori sinodali, mi pare allora di poter evidenziare alcune indicazioni di fondo sul tema dell’educazione alla fede specialmente dei giovani.
1. La sfida educativa
In primo luogo, circa la rilevanza della cosiddetta sfida educativa: essa appare chiara se solo si consideri quanto la trasmissione ai nostri ragazzi e giovani di ciò che per noi veramente conta nella vita risulti oggi più che mai ardua. È come se la distanza fra le generazioni si fosse improvvisamente accresciuta, sia per l’accelerazione dei cambiamenti in atto, sia per la novità dei linguaggi che il mondo del computer e della rete ci va imponendo. I “nativi digitali” – coloro cioè che sono nati nell’era di “internet” e che vi accedono con strabiliante naturalezza – fanno fatica a intendersi con gli abitanti del vecchio pianeta terra, solcato da confini e lontananze, che risultavano spesso difficilmente valicabili. Quanto viene proposto dall’opera di genitori e educatori desiderosi di far bene, rischia di essere volatilizzato dal mondo della “rete” in cui i nostri ragazzi navigano alla grande, spesso senza adeguata cautela e discernimento. Mentre il “villaggio globale” dei giovani è sempre più omologato su modelli planetari, le identità tradizionali, radicate in storia, usi e costumi, appaiono relativizzarsi e perdere d’interesse ai loro occhi. Anche nell’azione pastorale ci sembra a volte di rispondere a domande che nessuno pone o di porre domande che non interessano più nessuno!
L’amore per i nostri ragazzi, che ci motiva a trasmettere loro quanto di più bello abbiamo in cuore, sembra dunque ferito dalla difficoltà di trovare la via giusta perché ciò avvenga. Come vivere questo amore ferito? Come affrontare la sfida che ne consegue? Come dire alle nuove generazioni ciò che veramente ci sta a cuore, la vita della nostra vita, il senso delle nostre fatiche e la speranza dei nostri giorni? È a domande come queste che più volte ha invitato a rispondere Papa Benedetto XVI, che all’educazione alla fede ha dedicato tutta la sua vita di teologo e di pastore. È a tali domande che i Vescovi italiani hanno scelto di prestare la loro attenzione prioritaria in questi “anni dieci” del terzo millennio. È su di esse che vorrei riflettere a partire da un’icona biblica, quella dei discepoli di Emmaus, cui si affianca sulla via un viandante dapprima non riconosciuto, Gesù, che li introduce progressivamente alla realtà tutta intera del suo mistero (Lc 24, 13-35). Mi sembra che il modello del Figlio di Dio, che si fa educatore dei due discepoli tanto simili a noi e ai nostri ragazzi, come noi “stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti”, possa aiutarci a capire come rispondere alla sfida tanto urgente, quanto decisiva dell’educazione.
2. La posta in gioco: il senso della vita
Ciò che il racconto di Emmaus ci fa anzitutto capire è che l’educazione è un cammino: essa non avviene nel chiuso di una relazione esclusiva e rassicurante, decisa una volta per sempre, ma si pone nel rischio e nella complessità del divenire della persona, teso fra nostalgie e speranze, di cui è appunto figura il cammino da Gerusalemme a Emmaus percorso dai due discepoli e dal misterioso Viandante. Siamo tutti usciti dalla città di Dio, in quanto opera delle Sue mani, e andiamo pellegrini verso il domani nell’avanzare della sera, bisognosi di qualcuno che ci stia vicino, sulla cui presenza affidabile poter contare: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto” (v. 29). Tutti siamo incamminati verso l’ultimo silenzio dell’esistenza che muore! Proprio nel confronto con l’enigma della morte, però, si affacciano alla mente e al cuore due radicali e opposte possibilità: ritenersi “gettati verso la morte” (come pensa Martin Heidegger riflettendo sulla condizione umana) o considerarsi “mendicanti del cielo” (come sostiene ad esempio Jacques Maritain), destinati alla vita vittoriosa sulla morte della Gerusalemme celeste. Se l’uomo è solo in questo mondo, l’ultima parola sul suo destino non potrà che essere quella del finale silenzio in cui la sua esistenza si spegnerà. Se invece c’è un Dio che è amore, ogni essere personale è un “tu” unico e singolare cui quest’amore è rivolto, e che come tale vive e vivrà per sempre grazie all’eterna fedeltà dell’interlocutore divino. La tristezza dei due discepoli all’inizio del racconto di Emmaus è quella di chi teme che la morte l’abbia vinta sulla vita; l’entusiasmo con cui ripartono nella notte per andare ad annunciare a tutti di aver incontrato il Risorto è quello di chi sa che la vita ha vinto e vincerà la morte.
Fra le due opzioni la scelta è decisiva e va fatta ogni giorno: ecco perché siamo tutti in cammino sulla via dell’educazione, per scegliere sempre di nuovo ciò su cui sta o cade il senso ultimo della nostra vita. Ed ecco perché l’annuncio della vita vittoriosa sulla morte deve risuonare ogni giorno, in un’incessante testimonianza vissuta nella condivisione del cammino e nella proposta umile e coraggiosa della buona novella dell’amore, fatta nella più ampia varietà di forme, di linguaggi, di esperienze: è questa la “nuova evangelizzazione” di cui ogni generazione ha bisogno. Non va mai dato per scontato l’annuncio del senso e della bellezza della vita, vista nell’orizzonte di Dio e del Suo eterno amore. Ci sarà sempre bisogno di educatori, che siano persone dal cuore nuovo, capaci di cantare il cantico nuovo della speranza e della fede lungo le vie, talvolta tortuose e scoscese, che i pellegrini del tempo sono chiamati a percorrere. Chi educa non dovrà mai dimenticare che la posta in gioco nell’educazione è la scelta decisiva della persona, l’opzione fondamentale che qualificherà il suo stile di vita e le singole decisioni settoriali. Educare vuol dire introdurre al senso della realtà totale, attraverso un processo che aiuti la persona a riconoscere come vere e ad accogliere nella libertà le ragioni di vita e di speranza che le vengono proposte. La meta di un’educazione piena e realizzante non può che essere la scelta libera e fedele del bene, la sola che consenta alla persona di entrare nell’obbedienza al disegno di Dio su di lei, dov’è la sua vera pace. È quanto afferma nella forma più densa e precisa il Poeta: “E in la sua volontade è nostra pace / ell’è quel mar al qual tutto si move / ciò ch’ella cria e che natura face” (Paradiso, Canto III, 85).
3. La condizione base del processo educativo: il dono del tempo
Se educare è introdurre alla realtà totale, colta nel suo senso e nella sua bellezza ultima, si comprende quali possano essere le resistenze e gli ostacoli principali che si frappongono oggi all’impegno educativo. La fine dei “grandi racconti” ideologici, caratteristici dell’epoca moderna, ha lasciato il campo all’esperienza della frammentazione, tipica della cosiddetta post-modernità. La cultura del frammento ha modificato profondamente gli scenari tradizionali dell’educare anzitutto nella concezione del tempo. Questa risulta profondamente segnata dai processi culturali avviatisi a partire dall’Illuminismo: la ragione, che sa di sapere e vuole tutto dominare, imprime ai percorsi storici di adeguamento del reale all’ideale un’incalzante accelerazione. Questa “fretta della ragione” si esprime tanto nella rapidità dello sviluppo tecnico e scientifico, quanto nell’urgenza e nella passione rivoluzionarie, connesse all’ideologia. Il mito del progresso non è che una forma della volontà di potenza della ragione: in esso la presunzione della finale conciliazione, che superi la dolorosa scissione fra reale e ideale, diviene chiave ispiratrice dell’impegno di trasformazione del presente, anticipazione militante di un avvenire dato per certo. Le moderne filosofie della storia non si limitano a interpretare il mondo, ma intendono trasformarlo al più presto, secondo la propria immagine e somiglianza. L’emancipazione ‑ motivo ispiratore e sempre ammaliante dello spirito moderno ‑ porta con sé un’indiscutibile carica di urgenza, un’indifferibile accelerazione sui tempi: il divario fra “tempo storico” e “tempo biologico”, ad esempio, è spinto al massimo dalla sete di compimento totale, di soluzioni finali, tipica della religione emancipata del progresso.
Le conseguenze di questa sfasatura di tempi – di cui l’esempio forse più vistoso è il possibile impiego distruttivo dell’energia nucleare – non sono riscontrabili solo negli effetti devastanti che essa ha sul deterioramento ambientale, ma anche nelle prospettive che si disegnano per i soggetti storici. Occorre ritrovare il predominio umano sul tempo, per tornare a dare tempo alla persona e alle esigenze del suo sviluppo integrale. Di fronte a questa urgenza si comprende come la prima e decisiva condizione del processo educativo riguardi proprio l’uso del tempo: occorre aver tempo per l’altro e dargli tempo, accompagnandolo nella durata con fedeltà, vivendo con perseveranza la gratuità del dono del proprio tempo. Oggi si parla di “banca del tempo” per dire quanto è prezioso il mettere a disposizione degli altri gratuitamente anche solo qualche ora della nostra settimana: l’impegno educativo esige un’immensa disponibilità a spendere le risorse di questa banca. Chi ha fretta o non è pronto ad ascoltare e accompagnare pazientemente il cammino altrui, non sarà mai un educatore. Tutt’al più potrà pretendere di proporsi come un modello lontano, alla fine poco significativo e coinvolgente per la vita degli altri. Gesù sulla via di Emmaus avrebbe potuto svelare subito il suo mistero: se non lo ha fatto, è perché sapeva che i due discepoli avevano bisogno di tempo per capire quanto avrebbe loro rivelato, e forse – come diceva Sant’Ireneo agli albori della riflessione cristiana – perché anche Dio ha bisogno di tempo per imparare a farsi vicino alla sua creatura così fragile e incostante. Come in ogni rapporto basato sull’amore, anche nel rapporto educativo il dono del tempo è il segno più credibile del proprio coinvolgimento al servizio del bene dell’altro.
4. Camminare insieme: la relazione educativa come “compagnia”
Una seconda, decisiva condizione per realizzare un efficace processo educativo è la relazione interpersonale: come affermava Romano Guardini, “solo la vita accende la vita”, ed è perciò solo nell’arco di fiamma del rapporto fra le persone in gioco che il cammino dell’educazione può realizzarsi. Anche qui una resistenza e un ostacolo non di poco conto all’impegno educativo vengono dalle vicende storiche legate alla parabola della modernità e all’insorgere del post-moderno: oltre la crisi delle ideologie e delle appartenenze forti che esse propugnavano, sono diffuse nella condizione post-moderna l’esperienza dell’incomunicabilità e la predominanza delle cosiddette “passioni tristi”, che ripiegano ciascuno nell’orizzonte corto del suo “particulare”. È stato detto che il postmoderno è tempo della contaminazione, dove tutto appare contaminato, sporco, infondato. “L’essere non è, ma ac-cade”, cade cioè nel nulla, diranno i portavoce del “pensiero debole”. Non s’intravede più un fondamento su cui si regga la consistenza del reale: tutto è insostenibile leggerezza dell’essere, irrefrenabile caduta. Perciò il postmoderno è anche tempo della fruizione, del bruciare l’istante, assolutizzando l’adesso e consumando l’intensità dell’attimo,. Questo aggrapparsi all’evanescenza della fruizione immediata condanna il postmoderno a essere il tempo della frustrazione, dell’abbandono nichilista, perché la fruizione non riesce a dare durevolmente senso alla vita.
La relazione interpersonale è divenuta debole: la “cultura forte” dell’ideologia si è frantumata nei tanti rivoli delle “culture deboli”, in quella “folla delle solitudini“, in cui è rilevante la mancanza di orizzonti comuni, una penuria di speranze “in grande”, che piega ciascuno nel mondo chiuso del suo privato. La fine delle ideologie appare come la pallida avanguardia dell’avvento dell’idolo, che è il relativismo di chi non ha più alcuna fiducia nella forza della verità. Siamo malati di assenza, poveri di speranza e di grandi ragioni, sempre più soli, perché privi di un sogno comune: scommettere sulla possibilità di creare ponti fra le solitudini diventa allora questione vitale. Comprendiamo così la rilevanza di un’altra condizione necessaria al processo dell’educazione: occorre camminare insieme. Prima che essere per l’altro, chi educa deve stare con l’altro. L’educazione avviene attraverso la relazione di ascolto, di condivisione e di dialogo: l’essere genitori nella relazione ai figli, l’insegnamento vissuto nel porsi accanto e di fronte a chi apprende, la testimonianza resa a chi vorremmo condurre all’incontro con la verità, esigono compagnia della vita e della parola. Il fallimento di un’educazione solo autoritaria, che neghi il valore del dialogo e dell’ascolto dell’altro, si dimostra da sé. Sarebbe parimenti sbagliato, però, pensare che l’educazione possa realizzarsi solo fra pari: l’egualitarismo educativo ha prodotto disastri. Il dialogo non significa appiattimento delle differenze: non si amano gli altri se non si è se stessi, accettando anche l’inevitabile diversità da loro. “Se mi ami, dimmi di no” è un valido progetto educativo, se inserito in una rete di attenzione e di amore, che non escluda le differenze, ma le porti all’incontro reciprocamente arricchente.
Anche in campo educativo è, dunque, urgente realizzare quella “convivialità delle differenze” (don Tonino Bello), di cui è esempio eloquente il comportamento del misterioso Viandante sulla via di Emmaus: si fa prossimo, accompagna il cammino dei due, ascolta, trasforma il loro modo di vedere. “Gesù in persona si accostò e camminava con loro” (v. 15). Accompagnarsi, porre domande, ascoltare, leggere il cuore dell’altro e farlo ardere con l’annuncio della parola di vita, accendere il desiderio e corrispondervi coi gesti della condivisione: questo è la compagnia della vita, lo spezzare insieme il pane dei giorni, stando in cammino con l’altro per comprendere e parlare al suo cuore e trasformarlo. Non si tratta tanto di insegnare dall’alto di una cattedra, quanto di trasmettere il senso e la bellezza della vita con l’eloquenza della vita stessa. Chi educa deve farsi prossimo: la luce della vita si trasmette nella reciprocità fra i due, nella pazienza di accettare i suoi tempi e di stimolarne le scelte. Come amava ripetere John Henry Newman, “cor ad cor loquitur”, è il cuore che parla al cuore. Accompagnare vuol dire prevenire e accogliere l’altro nell’amore: “Nulla maior est ad amorem invitatio quam praevenire amando”, scrive Sant’Agostino all’amico che gli chiedeva come educare i difficili ragazzi dei suoi tempi (De catechizandis rudibus, 4) – “Non c’è invito più grande all’amore che prevenire amando”. Chi educa deve amare per primo e senza stancarsi, o non educa affatto. Per essere buoni educatori bisogna dare amore ricordandosi sempre dell’amore ricevuto e accettando di lasciarsi continuamente educare dall’amore. Chi sa accogliere, sa anche donare! Per accompagnare fedelmente l’altro, l’educatore deve dimostrargli di apprezzarlo, deve valorizzarlo, perché chi va educato ha bisogno anzitutto di fiducia, di quel sentirsi amato che gli consentirà anche di lasciarsi correggere e ammonire. L’incoraggiamento e l’elogio sono spesso più utili del rimprovero, perché danno la forza di impegnarsi a migliorare. Il rigorismo stanca e deprime. Solo l’amore eleva e incoraggia ed è vita che genera vita…
5. La sfida dell’identità e la memoria di quanto veramente conta
Un’altra sfida importante che viene all’impegno educativo dalla parabola della modernità e dall’avvento del post-moderno è la cosiddetta “crisi delle identità”, radicata in una sorta di perdita della memoria collettiva e personale, frutto di una malintesa emancipazione dal passato e dalle proprie radici. Siamo in un’epoca di “identità deboli”: da quella della persona, a quella del genere, all’identità comune della nazione, della cultura, della spiritualità, della lingua. Lo sradicamento dal passato da cui veniamo, così com’esso è trasmesso attraverso l’insieme delle espressioni culturali, sociali, artistiche, religiose, compromette la stessa possibilità di affrontare le sfide del presente e dell’avvenire. Senza memoria non c’è identità né profezia! Nel racconto dei discepoli di Emmaus è significativo che Gesù non si limiti ad accompagnare i due discepoli: egli fa memoria delle cose avvenute e del grande quadro della storia della salvezza che le illumina, e così stimola i due, schiudendo loro il senso della vicenda collettiva, per introdurvi il loro cuore inquieto e aprirlo allo stupore davanti al dono dell’amore divino: “Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (v. 27). Facendo memoria delle meraviglie compiute da Dio per il suo popolo, il misterioso Viandante introduce i due nella realtà totale del suo mondo vitale, apre il tesoro del suo cuore e fa loro comprendere ciò che tutti abbiamo ricevuto dal Padre celeste e di cui viviamo veramente. Si comprende qui come il linguaggio della memoria ravvivi l’identità dell’interlocutore se sa coniugare oggettività e passione, dati ed emozioni: non basta ricordare il passato; occorre coglierne il senso per noi, compiendo una sorta di interpretazione esistenziale di esso che si faccia carico delle domande più vere e profonde del presente.
Il “rischio educativo” consiste nel compiere questa operazione della memoria viva, “pericolosa”, capace di inserire la persona nella realtà totale che conti per lei e per tutti, e dunque nella tradizione viva della fede e dell’amore che nutrono la vita e ci trasmettono la luce che viene dal passato della salvezza, aprendoci alla novità del futuro della promessa. Veramente, l’educazione è opera totale, “cattolica”, nel senso etimologico del termine (“kath’òlou” = in pienezza): formando al grande abbraccio della realtà, grazie all’opera educativa perseverante e integrale, la vita suscita e contagia la vita, il dono ricevuto si fa amore donato, la verità accolta e trasmessa libera e salva. È necessario perciò che la memoria sia come quella evocata da Gesù, viva, trasformante, non asettica e inerte: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (v. 32). Solo la parola convinta e la testimonianza credibile di ciò di cui abbiamo fatto esperienza sono in grado di accendere la vita. La memoria va insomma partecipata all’altro con amore, come avviene in Gesù, che al culmine del cammino condiviso si rivela nel gesto dello spezzare il pane benedetto, di offrire e condividere il dono di Dio nel dono di sé. Il Maestro non comunica solo con la parola, ma lo fa anche col gesto: “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” (vv. 30 e 31). Il gesto benedicente si unisce al segno della condivisione del pane, della vita, del cuore. La comunione memorante e narrativa è rete relazionale attraverso cui è possibile introdurre l’altro alla pienezza della vita: solo in una relazione di amore fedele e ricca di memoria, nutrita di radicamento nel passato da cui veniamo, passa la vita che illumina la vita, tanto fra genitori e figli, quanto in generale fra insegnanti e alunni, fra educatori e discepoli, fra pastori e popolo loro affidato, fra catechisti e catechizzandi...
6. La profezia della vita nuova e piena
Un’ultima sfida al processo educativo viene dalla penuria di speranze in grande che sembra caratterizzare la cultura post-moderna: tramontato il sole dell’ideologia, il futuro non appare più certo e affidabile, come volevano rappresentarlo i “méga-recits” ideologici delle più diverse matrici. Uscire dal buio degli orizzonti verso cui andare è sfida decisiva, tanto per l’esistenza personale, quanto per l’impresa collettiva. Anche su questo punto il racconto di Emmaus svela ricchezze sorprendenti: Gesù schiude ai due discepoli un nuovo futuro, aprendo il loro cuore a una speranza affidabile; egli accende la profezia, contagiando il coraggio e la gioia. È scopo dell’educazione schiudere orizzonti, raccogliere le sfide e accendere la passione per la causa di Dio tra gli uomini, che è la causa della verità, della giustizia e dell’amore. Chi educa non deve pretendere di dominare l’altro, ma deve aspirare a liberarlo per la sua libertà più vera. Gesù procede così: si fa vicino, spiega le Scritture, alimenta il desiderio, si fa riconoscere e offre ai due l’annuncio di sé, della sua vittoria sulla morte, rendendoli liberi dalla paura e provocandoli alla libertà della missione: “Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro… E cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (vv. 15 e 27). “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista” (vv. 30-31). Si accende nei cuori dei due una “grande gioia” (v. 41). È da questa gioia che scaturisce l’urgenza di partire subito per portare agli altri la buona novella di cui sono ormai testimoni: “E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone” (vv. 33-34).
L’incontro vissuto esige di essere testimoniato: non puoi fermarti a ciò che hai avuto in dono. Devi a tua volta donarlo, camminando sulle tue gambe e facendo le scelte della tua libertà. L’educazione o genera testimoni liberi e convinti di ciò per cui vivono, o fallisce il suo scopo. Chi educa non deve creare dipendenze, ma suscitare cammini di vita, in cui ciascuno giochi la propria avventura al servizio della luce che gli ha illuminato il cuore. “Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane” (v. 35). L’educazione ha raggiunto il suo fine quando chi l’ha ricevuta è capace di irradiare il dono che lo ha raggiunto e cambiato: “Ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento della storia – affermava il Card. Ratzinger pochi giorni prima della sua elezione a Successore di Pietro, parlando a Subiaco il 1 Aprile 2005 – sono uomini che, attraverso una fede illuminata, rendano Dio credibile in questo mondo… Uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando di lì la vera umanità, uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore… Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini”. Educare, insomma, non è clonare, ma accendere la vita col dono della vita, suscitando i cammini di libertà di un’esistenza significativa e piena, spesa al servizio della verità che sola rende e renderà liberi. L’educatore o è testimone di una speranza affidabile, contagiosa di verità e trasformante nell’amore, o non è.
7. Contagiati dal Risorto, educare come Lui
L’icona biblica di Emmaus ci consente così una descrizione dell’azione educativa: educare è accompagnare l’altro dalla tristezza del non senso alla gioia della vita piena di significato, introducendolo nel tesoro del proprio cuore e del cuore della Chiesa, rendendolo partecipe di esso per la forza diffusiva dell’amore. Chi vuol essere educatore deve poter ripetere con l’apostolo Paolo queste parole, che sono un autentico progetto educativo: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Corinzi 1,24). Sullo stile educativo di Gesù, quale emerge dal suo rapporto con i discepoli di Emmaus, dobbiamo esaminarci tutti, chiedendoci se e fino a che punto il nostro impegno al servizio dell’educazione sia fatto analogamente di compagnia, memoria e profezia. Questo vale tanto per la quotidiana comunicazione vitale fra le generazioni, quanto per l’impegno educativo in campo scolastico e universitario, quanto per l’azione pastorale della Chiesa e il servizio alla causa della evangelizzazione. Facilmente il bilancio ci sembrerà perdente: ci conforta tuttavia il fatto di non essere soli. Dio – che ha educato il suo popolo nella storia della salvezza – continua a educarci e a educare: “Il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Giovanni 14,26). Non rinunciamo dunque a raccogliere la sfida educativa, qualunque sia il livello di responsabilità che ci è dato di vivere. E confidiamo nel divino Maestro.
A Lui vorrei rivolgermi allora in conclusione, dicendogli con semplicità e fiducia a nome di tutti coloro che vogliano accettare e vivere la sfida educativa: Signore Gesù, Tu ti sei fatto compagno di strada dei discepoli dal cuore triste, incamminati dalla città di Dio verso il buio della sera. Hai fatto ardere il loro cuore, aprendolo alla realtà totale del Tuo mistero. Hai accettato di fermarti con loro alla locanda, per spezzare il pane alla loro tavola e permettere ai loro occhi di aprirsi e di riconoscerti. Poi sei scomparso, perché essi – toccati ormai da te – andassero per le vie del mondo a portare a tutti l’annuncio liberante della gioia che avevi loro dato. Concedi anche a noi di riconoscerti presente al nostro fianco, viandante con noi sui nostri cammini. Illuminaci e donaci di illuminare a nostra volta gli altri, a cominciare da quelli che specialmente ci affidi, per farci anche noi compagni della loro strada, come tu hai fatto con noi, per far memoria con loro delle meraviglie della salvezza e far ardere il loro cuore, come tu hai fatto ardere il nostro, per seguirti nella libertà e nella gioia e portare a tutti l’annuncio della tua bellezza, col dono del tuo amore che vince e vincerà la morte. Amen. Alleluia”.
(Seminario di studio per i Vescovi Italiani Roma, 13 novembre)