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    Recensione e segnalazione

    casteg

    pp. 208 - E 17,00


    IN ESTREMA SINTESI

    I giovani sono il futuro e la speranza. Non possiamo averne altre. Perché allora descriverli solo attraverso gli aspetti problematici, come si tende oggi a fare in Italia, anche nella Chiesa cattolica? C'è bisogno di uno sguardo diverso, che questo libro - nato da approfondite ricerche sul campo - tenta di assumere. Un attento ascolto delle loro voci suggerisce che i giovani non siano diventati sordi alle ragioni del cuore, che il loro orizzonte spirituale non sia chiuso al trascendente e che non siano dunque divenuti increduli e indifferenti, ma piuttosto che siano "usciti dal recinto". Da quel mondo cioè in cui si pensa che l'istituzione - anche quella religiosa - venga prima della persona, che la risposta venga prima della domanda, che la legge venga prima della coscienza, che l'obbedienza venga prima della libertà.

    GLI AUTORI

    Alessandro Castegnaro
    sociologo, e presidente dell'Osservatorio Socio-Religioso Triveneto e membro del Consiglio scientifico della sezione "Sociologia della religione" dell'Associazione Italiana di Sociologia. Insegna "Sociologia e religione" presso la Facoltà Teologica del Triveneto.

    Giovanni Dal Piaz
    monaco camaldolese, insegna "Sociologia" e "Sociologia della religione" presso lo Studio teologico "S. Bernardino" e l'ISSR "S. Pietro Martire" di Verona

    Enzo Biemmi
    religioso della Congregazione dei Fratelli della Sacra Famiglia, è presidente dell'Équipe europea dei catecheti e docente presso vari istituti accademici.


    UNO SGUARDO PIÙ NEL PROFONDO

    Capitolo 1
    Prove di sguardo diverso sui giovani

    L'unica domanda che conta

    Non abbiamo conosciuto Alberto. Era figlio di amici con cui i legami si sono allentati, per le vicende della vita. "Dubito" è lo pseudonimo che si era attribuito, una sorta di "dubito ergo sum", quasi a definire una struttura della personalità. E del resto Alberto non era religioso, quel cielo che di lì a poco avrebbe solcato, sconvolgendo tutti, era per lui "vuoto" e così com'era - diceva - "gli stava bene"; il cielo forse, ma non la terra, che invece gli suscitava rabbia. Di lui sappiamo che era pieno di interessi e quindi - pensiamo - di energie che altri giovani non hanno. Era poeta, musicista, fotografo, street artist, aveva vinto premi ed era voce e autore dei testi di un gruppo rap sperimentale. Nella sua città era una voce nota, da qualcuno amata. La mattina di un giorno di primavera è volato dalla finestra della casa dove abitava. Aveva 21 anni.
    Ci sono ragazzi molto diversi da lui, trafitto - come Icaro forse - dal desiderio di volare troppo in alto, ragazzi che non cantano e non scrivono poesie, schiacciati a terra dalla mancanza di fantasia e di sogni, dalla povertà culturale, dall'impossibilità di pensare un futuro nel quale realizzare un desiderio, ragazzi che non volano e non vivono.
    -là-terra è il loro punto di contatto. Di quelli come Alberto che se ne sono staccati troppo e alla fine ne sono stati schiantati, e degli altri che non se ne sono mai separati, restandone schiacciati. Ci sono due modi di morii-e: provando il rischio del volo e non provandolo affatto.
    Abbiamo voluto dedicare il nostro libro a questi, che non sono tutti i giovani, che ne rappresentano solo una parte, ma che ci dicono qualcosa della giovinezza, per una semplice ragione. Perché volevamo ricordare a noi stessi che parlare di giovani vuol dire trattare una materia incandescente ma dura come il ghiaccio. La giovinezza non è proprio come nelle pubblicità della Coca Cola; la giovinezza è una sfida combattuta su un terreno irto di aculei che possono ferire, qualche volta uccidere. Parlare di loro espone dunque a rischi: quello di dire cose improbabili e di non capire, una eventualità nella quale certamente siamo incorsi in qualche misura. E quello di starnazzare e battere inutilmente l'aria dicendo cose insignificanti, un rischio che ci preoccupa ancor più del primo.
    In ogni caso noi, una strana coppia formata da due sociologi, monaco l'uno, sposato e padre di due figli l'altro, a cui si è aggiunto un terzo, religioso e catecheta, abbiamo preferito correrlo. Lasciata da tempo la giovinezza abbiamo ritenuto, provando a porci dal punto di vista dei giovani, di correre anche il rischio di sembrare patetici. Non è escluso che lo siamo.
    Abbiamo ritenuto di farlo perché da tempo nelle nostre ricerche e riflessioni ci occupiamo dei giovani, anche se da un punto di vista particolare, quello della fede; perché la situazione ci sembra richiederlo; perché ci pare che la Chiesa, a cui saliamo di appartenere e alla quale dedichiamo una parte importante della nostra vita, non sia realmente interessata a loro e che in essa si siano affermate idee sui giovani che non condividiamo. Questo libro ha dunque un interlocutore, che non sono i giovani - non pensiamo di poter ambire a tanto, anche se ci piacerebbe -, ma è la Chiesa italiana nella sua proiezione e anche nella sua mancanza di proiezione verso di essi.
    Forse non in primo luogo a quel genere di Chiesa per la quale i giovani sono diventati stranieri, quella dei palazzi e delle porpore, che di fronte a una vicenda come quella di Alberto direbbe: "Vedete? Cosa dicevamo? Lontani dalla Chiesa, lontani da Dio e lontani da Dio non c'è che dissoluzione e deriva, disperazione e nichilismo..."; quella che non ha mai cessato di pensare "extra ecclesiam nulla salus", secondo l'antico detto patristico che francamente i suoi diciotto secoli li dimostra tutti. Quella parte cioè indotta a ritenere in buona fede che tutti i problemi sarebbero risolti se i giovani "tornassero nella Chiesa", e interessata solo a questo.
    Ma certamente questo libro si rivolge a quel genere di Chiesa che ancora può sentire una vicinanza con i giovani, quella delle parrocchie, le nostre care vecchie sgangherate parrocchie, quella degli oratori "con tanto sole, tanti anni fa", dei gruppi, delle associazioni, dei campi estivi, delle "insensate" camminate in montagna, delle serate passate a condividere pensieri e paure. La "piccola Chiesa" che non pensa ai giovani come a truppe da spostare da una piazza all'altra del mondo per poter convincere e convincersi di essere ancora una "Chiesa giovane", ma che soffre per loro, e anche della loro assenza, che celebra i loro disperati funerali, ma che vorrebbe vederli anche nelle loro feste, ascoltare le loro canzoni, che vorrebbe sentirsi rianimata dalle loro speranze e, nel loro futuro, ritrovare il proprio.
    Sia all'una che all'altra Chiesa vorremmo dire che l'unica domanda che veramente conta di fronte al volo di Alberto è: che cosa sarebbe stata "la salvezza" per Alberto? Che cosa avrebbe potuto essere? Certo, i nostri bravi giovani cattolici direbbero ai suoi genitori feriti: "Non piangete. Alberto è in cielo, perché non c'è l'inferno nel regno del buon Dio", come canta il Vangelo che ha vinto, quello "secondo De André". Ed è un modo per evitare il dramma. Ma è una risposta insufficiente a cogliere la domanda che si leva dall'universo giovanile. Questa riguarda la salvezza qui e ora, in questo m'ondo, nel mentre con speranza e inquietudine ci si affaccia alla vita. Questa è l'unica domanda che oggi suscita la passione dei giovani. Come possiamo evitare di perderci? Come possiamo vivere bene? Come possiamo condurre una vita felice?
    Che cosa si può fare allora per incalzarli a volare quando, loro malgrado, sono troppo schiacciati sulla terra? Cosa si può fare per sostenere il loro volo quando provano a staccarsene, perché le loro ali non si spezzino? Cosa si può fare perché essi non si perdano, perché non siano travolti dalla noia, dalla disperazione o dalla rabbia? E, in termini più prosaici, che cosa si può fare perché essi riescano nel difficile compito di scoprire e inventare se stessi, condizione oggi essenziale per poter condurre una vita felice e autentica? Le nostre Chiese hanno qualcosa da dire su questo? Che non sia semplicemente: "Giovani ritornate con noi"?
    La preoccupazione primaria infatti non è quella che la Chiesa abbia perduto i giovani, ma che essi non si perdano, non è che essi ritrovino la Chiesa, ma che trovino se stessi.

    Giovani che non contano

    Nel noto racconto di James Matthew Barrie i "bambini sperduti" sono quelli che, caduti dalla carrozzina, non vengono reclamati da nessuno e finiscono a Neverland, l'"Isola che non c'è". Lì trovano un ragazzo che vola. Si chiama Peter Pan, fa loro da guida ed è capace di difenderli dagli adulti, i quali tramano da lontano spingendo i bambini ad abbandonare l'isola che non c'è per diventare come loro, cioè adulti. Peter ha un sistema efficace e tremendo per proteggerli da questo richiamo. A ogni suo respiro egli può uccidere un adulto e, quando vede gli amici fuggire, seguendo Wendy e i suoi fratelli che vogliono tornarsene a casa, comincia a respirare più forte che può. Peter è infatti convinto che gli adulti rovinino tutto.
    Difficile non ritornare a questo racconto dopo aver letto l'amara riflessione apparsa sui giornali nel luglio del 2012. "Esiste un aspetto di generazione perduta, purtroppo. Si può cercare di ridurre al-minimo i danni [.. .] ma più che attenuare il fenomeno con parole buone, credo che chi partecipa alle decisioni pubbliche debba guardare alla crudezza di questo fenomeno e dire: facciamo il possibile per limitare i danni alla generazione perduta, ma soprattutto impegniamoci seriamente a non ripetere gli errori del passato, a non crearne altre di generazioni perdute". Queste considerazioni erano del presidente del Consiglio in carica, Mario Monti. Sarebbe ingiusto prendersela con lui, che è arrivato per ultimo, ma dopo questa sua avvilita riflessione non si può evitare di pensare che forse Peter Pan aveva ragione;' sì, effettivamente in questo Paese gli adulti hanno rovinato tutto, noi abbiamo rovinato tutto.
    Ci sono dunque oggi giovani sperduti, che nessuno reclama, per i quali, dice in sostanza lo stimato presidente, si tratta di creare "l'isola che non c'è proprio", una specie di zattera di giunco in cui schiaffare la "generazione perduta" e lasciarla in balia del mare della crisi, con qualche social card per sfamarsi. Forse servirebbe un nuovo Peter Pan.
    In una relazione dal titolo Generazione senza prerogative, il demografo Massimo Livi facci scrive: "Sui giovani d'inizio secolo influiscono potentemente elementi fuori del loro controllo". Si è affermato infatti "un processo assai critico [.. .] costituito dalla lenta erosione delle prerogative dei giovani" intendendo con ciò che essi hanno perso la facoltà "di essere presenti in modo rilevante nello spazio culturale, sociale, economico o politico. L'erosione di queste prerogative dura da molto tempo, con la conseguenza che i giovani di casa nostra contano meno, nel proprio paese, di quanto non avvenga per i loro coetanei del continente. Questo fenomeno, che ha profonde implicazioni negative per lo sviluppo, è occultato dal fatto che i giovani italiani godono di livelli di vita non dissimili da quelli prevalenti altrove, Ma, sollevato il velo, si vede come lo spazio di azione dei giovani si sia ristretto, nonostante il dilatarsi dello spazio di vita che oggi riteniamo da loro occupato". Il testo da cui è tratta questa lunga citazione è dell'inizio del 2009, quando la crisi non aveva ancora cominciato a graffiare. Non è dunque essa la responsabile delle condizioni scoraggianti in cui versano i giovani italiani. La crisi ha solo dato il colpo di grazia a una generazione già duramente provata quanto alla sua possibilità di contare nella società e di costruire un futuro dignitoso.
    Parlare male dei giovani, come peraltro si continua a fare - do you remember i "bamboccioni", gli "sfigati", quelli che "pretendono il posto fisso nella stessa città, vicino a papà e mamma", quelli che è meglio si scordino "la monotonia" del posto fisso? - è veramente come sparare sulla croce rossa ed è una indecenza a cui indulgono soprattutto anziani signori e gentili signore benestanti che i giovani veri li hanno persi di vista da molto tempo.
    Come è diventato normale oggi addossare ai poveri le responsabilità della loro condizione, così si fa con i giovani, in modo che non solo appaiano spossessati del futuro, ma siano anche indotti a pensare che la colpa è loro.
    Nel frattempo la "generazione mille euro" è velocemente tramontata, sostituita dalla generazione "datemi uno stage", e oggi si arrabatta come può, nelle condizioni normative più incredibili, pur di guadagnare qualcosa; altro che giovani "rigidi"!
    "E mi raccomando mettete da parte i soldi per il fondo pensione", gracchiano i vecchi signori, mentre molti giovani non hanno un euro in tasca e nelle famiglie non si parla d'altro che della mancanza di una qualsiasi prospettiva per i figli. "E meno male che in Italia c'è la famiglia a fare da ammortizzatore sociale", dicono economisti, politici e prelati. Dimenticando che la famiglia non è la zia d'America che inaspettatamente lascia ai parenti i guadagni di una vita. La famiglia è un padre e una madre costretti a farsi carico dei figli in un'età in cui dappertutto in Europa i figli si arrangiano.
    Se il governo della Chiesa italiana possedesse realmente tutto il radicamento che dice di avere nelle famiglie, essa non avrebbe potuto non capire che questa è la loro sofferenza principale e la vera priorità oggi in Italia, e non avrebbe potuto non indicarla all'intero Paese, con tutta la durezza di cui è capace quando un tema le sta veramente a cuore. Ci sarebbe stato forse qualcuno che avrebbe potuto dire che si trattava di una indebita ingerenza? Se non lo ha fatto, è purtroppo perché i giovani anche nella Chiesa sono pochi e non contano nulla.
    Questo libro non si occupa di questi problemi, discorre di altri versanti dell'esperienza giovanile. Ma non si poteva lasciare sottaciuto il quadro sociale in cui le riflessioni qui sviluppate si collocano. Ricordarlo è anche un modo per rendere esplicita fin dall'inizio la simpatia e la partigianeria per i giovani che lo ispira. Sì, questo è un libro di parte!

    Un problema di ascolto

    Lo è anche perché i giovani di oggi non godono di una buona fama e non hanno buoni avvocati dalla loro. Gli stereotipi sui giovani sono antichi e ricorrenti, passano da una generazione all'altra come le stagioni della vita e oggi hanno ripreso il sopravvento. Se dovessimo prestare credito a quello che, a ogni tornante della storia, le generazioni precedenti pensano di quelle successive, non riusciremmo proprio a capire come abbia fatto l'umanità a progredire, sia pure in mezzo a mille difficoltà. Dobbiamo pensare ogni volta che i nostri figli sono la prova che Darwin aveva torto? Dobbiamo pensare che il Vangelo non è servito a niente?
    Né riusciremmo a capire per quale miracolo la società stia ancora in piedi, nonostante tutto. Perché, a dar credito ai profeti di sventura dai Sumeri a oggi, ogni volta è il fondamento stesso del vivere sociale a sembrare posto in questione dalle nuove generazioni. Poi invece - chissà come mai! - in qualche modo si procede, le mamme invecchiano, i giovani diventano adulti, le società non crollano ma si riproducono, in forme più o meno apprezzabili.
    Naturalmente può succedere che qui e là, oggi o domani, vi sia un arretramento. Questo non lo possiamo escludere. Quando la Hitler-Jugend accoglieva milioni di giovani tedeschi e la Gioventù Italiana del Littorio faceva altrettanto con i ragazzi nostrani, un qualche arretramento deve esserci stato...
    Ma in queste cose è necessario essere accorti e usare prudenza nelle valutazioni. Le generazioni, magari non si scontrano più apertamente come un tempo, ma a causa della rapidità delle trasformazioni si sono distanziate, vestono e cantano in modo diverso, costruiscono universi culturali propri, e c'è dunque un problema di ascolto reciproco: in altre parole, di comunicazione.
    "Non mi hai mai ascoltato...", diceva un adolescente alla madre durante un colloquio familiare raccontato da una psicoterapeuta sul quotidiano cattolico francese La Croix. "Come avrei potuto ascoltarti? Non mi hai mai parlato...", rispondeva la madre. "Ma se tu mi avessi ascoltato, ti avrei parlato...". Questo dialogo familiare può essere letto come una metafora del rapporto tra le generazioni, ma anche della relazione tra i giovani e la Chiesa. Essa suggerisce come in un processo di comunicazione l'ascolto preceda la parola e sia la fonte della parola.
    Ecco, questo libro nasce anche per reagire alla fastidiosa sensazione che molti - fuori e dentro la Chiesa - parlino dei giovani, ma po--chi provino a parlare con loro. Molte delle cose che si sentono dire, a ben guardare, non sono altro che proiezioni di un mondo adulto che non ha fatto la fatica di ascoltarli. Gli adulti confrontano perciò l'immagine non verificata che si sono fatti dei giovani attuali con quello che immaginano essere stato il mondo della loro giovinezza e quello che loro pensano di essere stati un tempo. Essi si scordano che ciascuno di noi tende a essere molto accomodante con il proprio passato, che nel confronto si insinua la nostalgia della giovinezza perduta e che dunque si tende a comparare la situazione attuale, ricostruita impressionisticamente, con il sogno dei bei tempi andati, finendo così per paragonare i giovani attuali con quello che si sarebbe voluto essere, ma molto probabilmente non si è stati.
    Che le generazioni si confrontino è inevitabile e necessario, ma nel farlo oggi sarebbe opportuno tener conto anche di una difficoltà che riguarda in particolare il tempo presente. Le generazioni attualmente viventi delimitano uno spazio di tempo nel quale la nostra società è stata attraversata da grandi cambiamenti sotto il profilo culturale e religioso. Quando si confrontano allora i bei tempi andati con quelli attuali, non c'è solamente un problema di sfasamento dell'immagine, ma un obiettivo cambiamento del quadro culturale.
    Per fare un esempio: c'è una smisurata distanza tra il modo in cui si poneva la questione del credere in un mondo nel quale l'esistenza di Dio non era in realtà messa in discussione che da stravaganti personaggi e si poteva invecchiare senza avere mai avuto l'occasione di incontrarne, e il modo in cui si presenta in un contesto nel quale l'esistenza di Dio è solo una ipotesi tra le altre e magari quella per la quale militano meno "ragioni" argomentatili. Il confronto tra le generazioni pone dunque in relazione realtà sociali ed esperienze esistenziali tra cui vi sono aspetti di incommensurabilità che molti tendono a sottovalutare. Ci sono delle discontinuità nella storia culturale, come quelle cui allude Virginia Woolf quando scrive: "Nel dicembre del 1910, o giù di lì, la natura umana cambiò".
    Gli uomini di Chiesa in particolare, quando fanno questi confronti, sono più esposti di altri al rischio di sopravvalutare il passato. Nati in famiglie di un certo tipo, in prevalenza di origini contadine e di norma molto religiose, hanno iniziato il loro servizio pastorale in tempi in cui l'autorità dei pastori era riconosciuta e le chiese erano piene. Come potrebbero non vivere quanto avvenuto se non come perdita? Ma essi non dovrebbero estendere l'immagine della propria famiglia alla società di allora e non dovrebbero pensare che quella che è una "loro" perdita sia una generale eclissi di tutto ciò che è bello, buono e ricco di significato.

    Alle origini di questo libro

    In ogni caso questo libro nasce da un tentativo di ascolto dei giovani, che ha utilizzato metodi un po' particolari, certamente rischiosi è in Italia poco considerati, quelli della ricerca sociologica. Sua fonte principale sono le ricerche, che ci hanno visto in diversi modi coinvolti, condotte nell'arco di un quinquennio dall'Osservatorio Socio-Religioso Triveneto, un ente di ricerca sostenuto dalle Diocesi del Nord Est.
    Inizialmente ci si era limitati a condurre alcune indagini di tipo più tradizionale, quelle che fanno ricorso a questionari standardizzati da somministrare à. campioni rappresentativi della popolazione. Tali indagini ci hanno detto alcune cose non irrilevanti, come vedremo nel capitolo 2. Ma poi siamo passati ad altri metodi. Ed è stato allora che il nostro atteggiamento è cambiato e abbiamo avuto l'impressione di avere "ascoltato".
    Cosa abbiamo fatto? Dapprima si è costituito un gruppo di ricerca intergenerazionale, che ha condotto alcuni incontri di discussione (o focus group) con gruppi di giovani e progettato una impegnativa ricerca, di carattere qualitativo. Si è poi formato un gruppo di giovani ricercatori i quali, recatisi nelle case di un certo numero di coetanei, hanno condotto colloqui approfonditi e della durata necessaria. Questi erano finalizzati a raccogliere i sentimenti dei giovani, a capire che cosa realmente li "prende", che cosa è importante e significativo per loro, quali emozioni e valori attraversino la loro vita spirituale. Solamente dopo aver parlato di tutto questo, delle' corse in moto, della band, del karate, dei viaggi, delle serate rannicchiati nell'angolo della propria camera, del lavoro di fisioterapista e di quello in fabbrica, della mamma che è morta proprio il giorno del tuo compleanno, del padre che ti ha ferito e della madre che ti ha consolato, delle zie suore e del fratello disabile, dell'impegno di educatore e della mancanza di impegno; solamente dopo aver ascoltato questi loro racconti si è parlato anche della loro esperienza religiosa, quando c'era e quando sembrava non esserci.
    Queste esperienze di ricerca e di ascolto sono state per noi importanti. Ci è sembrato che esse ci consegnassero una responsabilità particolare, che non vorremmo lasciar cadere, quella di far conoscere, agli ambienti ecclesiali in particolare ma non solo, quello che abbiamo capito di quanto grande sia la diversità tra come i giovani possono sembrare e come invece apparirebbero se avessero luoghi e modi per potersi raccontare sul serio.
    Abbiamo avuto così la sensazione di imparare tante cose, della cui esistenza non sospettavamo, che ci hanno indotto a cambiare molte idee sui giovani, cose che ora ci permettono di guardare con più empatia al loro mondo e anche con un pizzico di speranza in più.
    Tutto questo è confluito in un grosso libro di 626 pagine dal titolo C'è Campo? Giovani, spiritualità, religione, pubblicato nel 2010 dalla casa editrice Marcianum Press di Venezia, che assieme alle ricerche di tipo campionario condotte prima e dopo la pubblicazione del volume fa da sfondo alle riflessioni che qui presenteremo.

    Il mondo non è una clessidra

    Queste esperienze ci hanno però anche indotto a prendere le distanze da quanto leggevamo e ascoltavamo in proposito da molti ambienti ecclesiali. Anche in questi infatti prevale un panorama piuttosto pessimistico sui giovani. O meglio, vi sono due immagini che si alternano, apparentemente molto diverse, ma non di rado intercambiabili e usate dalle stesse persone in contesti diversi.
    La prima è quella "ufficiale", della Chiesa trionfante, dei grandi raduni di massa, delle interviste televisive, che marcia assieme a migliaia e migliaia di bravi giovani i quali guardano radiosi a degli anziani signori, dal nobile incedere, vestiti in gradazioni diverse di rosso, come ai propri maestri di vita. In questa immagine chiese e oratori non sono forse ancora piene di giovani come una volta, ma se ne intravedono comunque ampie schiere su cui si può contare per un futuro di speranza, soprattutto quando c'è il vescovo in visita. E, se proprio qualche vuoto non può essere occultato, ci sono adesso i nuovi movimenti religiosi, i quali "loro sì che sono capaci di attrarre i giovani".
    Sotto traccia però, anche in molti di coloro che amano dare questa immagine, e certamente in quelli che guardano con più pessimismo al futuro della Chiesa; se n'è affermata un'altra, piuttosto cupa. Anche nella Chiesa cioè si comincia a guardare ai giovani d'oggi come a "una generazione perduta", ma ovviamente in un senso diverso dal presidente Monti; perduta dal punto di vista. morale e da quello della fede. Non si spiegherebbero altrimenti quei toni così allarmati che sono a fondamento di tutta la problematica dell'emergenza o sfida educativa" posta al centro degli "Orientamenti pastorali dell'episcopato italiano per il decennio 2010-2020".
    Che vi sia oggi, forse in Italia con più evidenza che altrove, una questione educativa non può certo essere negato. Ma bisognerebbe anche chiedersi, quando si accenna a tale questione, quale modello interpretativo operi nel senso comune delle nostre Chiese. L'impressione è che i processi di trasmissione della cultura vi siano rappresentati come una sorta di clessidra, se la metafora può essere utile. In alto troviamo i valori delle generazioni adulte, in basso un vuoto che si appresta a essere riempito da quegli stessi valori. Entro questo schema mentale i problemi nascono dal fatto che qualcosa si è guastato nel ristretto condotto attraverso cui i granelli di sabbia, e cioè i valori culturali, passano per giungere alle nuove generazioni. Lì ci sono degli ostacoli, dei freni, delle vischiosità, si è persa l'arte, la volontà, la convinzione, l'autorità, eccetera, e ciò comporta una carenza, nella parte bassa, che si esprime in varie forme: caos culturale, assenza di direttive per l'azione, relativismo, eccetera.
    Ma naturalmente dovremmo chiederci che cosa realmente vi sia nella parte alta della clessidra. Se anche là non vi sia disordine, scompiglio, relativismo e quant'altro. Perché, se così fosse, la faccenda sarebbe ovviamente più complessa. La questione non può evitare di porsi le domande "chi educa chi?", "chi trasmette cosa?".
    Dovremmo poi chiederci se è poi così vero che il ristretto condotto attraverso cui la sabbia "deve" passare sia usurato al punto tale da non lasciarla più scorrere. Anche se sono numerosi quelli che tendono a dare per scontato tutto ciò, non vi sono molti dati di ricerca che confermano questa tesi. Le trasformazioni che emergono dalle ricerche sui valori paiono assumere un carattere assai più graduale di quanto molti pensano. Le persistenze sono frequenti e possono colpire tanto quanto i cambiamenti. L'idea, diffusa anche nelle famiglie, che le giovani generazioni siano, quanto a riferimenti valoriali di fondo, molto diverse da quelle più anziane non trova grandi conferme. La sabbia dunque scorre ancora. E vi sono ancora altre due considerazioni da fare.
    La prima è che non è molto utile, e può essere rischioso, immaginare la parte bassa della clessidra come un vuoto da riempire. Il processo di comunicazione e di apprendimento tra le generazioni è oggi assai più orientato in senso bidirezionale di quanto non fosse un tempo. Quanto più cresce l'età del soggetto coinvolto, quanto più s'avanza verso quei tempi in cui gli adulti cominciano ad avvertire la propria impotenza educativa, tanto più egli si dimostra in grado di disporre di competenze che questi non hanno, semplicemente perché nati in un altro mondo. P, una implicazione della rapidità dei cambiamenti in atto.
    Non solo, ma quel modo di intendere può essere rischioso perché è cambiato lo statuto di chi un tempo veniva chiamato "minore", o comunque giovane e perciò dipendente, e il confronto con la sua soggettività è oggi uno snodo inevitabile attraverso cui non si può evitare di passare. Ne va della possibilità stessa di esercitare una qualche autorità che non sia ridotta a puro esercizio di potere. Basterebbe ascoltare quello che, dicono i preti, gli insegnanti, le catechiste e gli stessi genitori quando raccontano le loro esperienze.
    La seconda osservazione è che i granelli di sabbia che penetrano nella parte bassa della nostra clessidra assumono toni, forme e Mori diversi da quelli che avevano quando erano nella parte alta. In altre parole, nel passaggio da una generazione all'altra i modelli culturali cambiano; non c'è solo un problema di trasmissione, ma anche di rinnovamento e di invenzione, resi necessari dalle nuove sfide che i cambiamenti avvenuti nella società pongono alle persone.
    Oggi, inoltre, i granelli ormai collocati in basso tendono a essere sempre più differenziati, anche tra di loro e non solo in rapporto a quelli che stanno in alto, e vengono montati insieme in costruzioni originali e variopinte, rendendo più difficile scorgere una trama e un senso, inducendo facilmente nell'errore di pensare che questi siano del tutto assenti. È il pluralismo delle culture.
    Ora è proprio qui il punto: le generazioni più vecchie tendono a concepire queste trasformazioni come perdita e distruzione, non anche come invenzione di nuovi valori e di nuovi modelli culturali.
    Si dovrebbe invece cercare di intendere le "emergenze" in senso etimologico, al di fuori di un quadro catastrofico, come "segni dei tempi", cose nuove che vengono alla luce e richiedono di essere comprese, non come eventi e circostanze minacciosi o devastanti. Si dovrebbe farlo anche per un'altra ragione, perché se la diagnosi è troppo gravida di negativo, essa rischia di lasciare poco spazio a una speranza reale, al di là dei richiami messi al termine dei documenti ecclesiali per rincuorarci. E su che cosa mai potrebbe basarsi questo-sperare se già nella realtà qualcosa di positivo, da riconoscere e far lievitare, non si manifesta?

    Le connessioni errate

    L'immagine che sta diventando prevalente non sembra purtroppo avere nella misura necessaria questa sensibilità, non si sforza di vedere attraversò i cambiamenti culturali, per distinguere il grano dalla pula, il nuovo che inquieta da quello che invece dà fiducia. Essa parte da un dato vero, non più occultabile ormai, di cui parleremo tra breve anche noi e cioè il distacco dell'ultima generazione che sta diventando adulta dalla Chiesa cattolica, ma stabilisce una serie di connessioni tra questo grande avvenimento, sotto gli occhi di tutti, e altri aspetti della religiosità e della cultura giovanile che invece non sono dimostrati e noi riteniamo poco fondati.
    Sì, è vero, i giovani stanno "uscendo dal recinto" costituito dall'educazione cattolica che quasi tutti ancora ricevono in Italia, guardano con atteggiamento critico alla Chiesa (spesso anche quando fanno parte di un gruppo religioso), non comprendono molte delle cose che essa dice, non se ne sentono più parte e vanno per la loro strada. Ma questo non significa che essi hanno perduto "le antenne della fede", per usare l'evocativa espressione adottata da Armando Matteo in un libro dal titolo azzeccato ma discutibile, La prima generazione incredula; non significa che brancolano nel "buio della fede", come La Stampa di Torino titolava tempo fa un accorato intervento di Enzo Bianchi.
    Anche noi pensavamo che potesse essere semplicemente così quando abbiamo iniziato a interessarci di questi temi. Anche noi avevamo il dubbio che, trasferitisi ormai in un mondo virtuale e tecnologico, influenzati da quel tipo di pensiero che richiede "prove" obiettive per tutto, distratti dall'albero dei consumi piantato nei centri commerciali, avessero perso la capacità di ascoltare le ragioni del cuore. Ma ci siamo ricreduti.
    La connessione "fuori dalla Chiesa uguale lontani da Dio" non ci convince, anche perché è più facile "pensare" di essere lontani da Dio, che esserlo veramente. Come ha detto Jürgen Moltmann nel corso di un intervista ad Avvenire: "...credo che Dio sia con i senza Dio. E che lo si possa trovare tra di loro. In essi Dio attende coloro che credono". Ma non è solo per questa ragione, di tipo teologico, che la connessione non ci convince; ve ne sono anche altre, come cercheremo di dire.
    L'uscita dal recinto non implica nemmeno immaginare tormentate schiere di giovani travolti da deriva etica, che hanno perduto i criteri di giudizio necessari a orientare l'azione in senso morale, preda di un radicale scetticismo, vittime loro malgrado di un distruttivo nichilismo cui la presa di commiato dalla Chiesa e la presunta-distanza da—Dio li condannerebbero inesorabilmente. Forse non li si è ascoltati, forse non si è parlato con loro, torniamo a dire.
    Forse sarebbe il caso di smettere di pensare a un mondo bipartito in "dentro" e "fuori" la Chiesa, in "vicini" e "lontani" dalla Chiesa, come se tutto il bene fosse dentro e tutto il male fosse fuori. Forse, in un universo che non ha più un centro, sarebbe necessario distaccarsi dall'idea che il centro del mondo sia la Chiesa e che tutto ruoti intorno a essa al punto tale che se ciò non accade più, come a un certo punto diventa necessario riconoscere, questo fatto appare come la fine del mondo, e non semplicemente come la fine di un mondo, e dunque come il passaggio a un mondo diverso, policentrico e dotato di valori propri che hanno origini sia religiose che extrareligiose. I francesi che vanno a messa sono molti meno degli italiani: La Francia è per questo un Paese meno civile e più immorale dell'Italia? C'è qualcuno che si sentirebbe di sostenere questa tesi? I vescovi francesi, se abbiamo capito quello che scrivono, sicuramente no. I vescovi italiani forse sarebbero tentati di pensarlo, ma certamente si fermerebbero un attimo prima.
    Anche questa seconda connessione - uscita dalla Chiesa e lontananza da Dio implicano una deriva morale - non convince, nel caso dei giovani che abbiamo conosciuto.
    I propugnatori di questa diagnosi infausta rischiano essere gli unici ormai che sostengono la teoria della secolarizzazione nel suo esito più radicale: con il progredire delle cose le persone non crederanno più. Ma sono rimasti veramente in pochi a sostenere questa tesi. Infatti molti di quegli stessi che a suo tempo l'avevano proposta, come ad esempio il sociologo nordamericano Peter Berger, non ne sono più convinti e la pensano diversamente.
    La proposta di lettura che emergerà dalle pagine di questo libro è invece un'altra. Essa condivide l'idea che i giovani italiani si stiano allontanando dalla Chiesa cattolica, ma non ritiene che ciò sia la diretta conseguenza della perdita di quelle disposizioni elementari è che rendono possibile il sentimento religioso. Né che sia il derivato dell'esplodere tra di essi di un'ottusa incredulità. La loro, semmai, è una condizione caratterizzata dalla compresenza di attrazioni contrastanti ed essi stessi la concepiscono come uno stato che è nel contempo di stallo e di apertura, e dunque come una condizione che può evolversi in direzioni imprevedibili.
    Avanza l'idea che tra di loro vi siano modi di credere diversi da quelli che, di solito senza prove, pensiamo essere stati quelli un tempo, in parte legati alla fase della vita in cui si trovano, in parte antesignani di nuove forme del credere.
    Suggerisce che essi abbiano modi di guardare alla vita per certi aspetti nuovi, ma non su tutto e non del tutto diversi da quelli tipici delle generazioni precedenti e che, in ogni caso, non siano privi di valori e di criteri di discernimento.
    Si fonda sulla convinzione che il fatto veramente nuovo, anticipato dai giovani ma destinato a diffondersi e a diventare permanente, sia lo spostamento della fonte della legittimità, in altre parole di ciò che permette di considerare plausibili, credibili, degni di rispetto e di attenzione un discorso e una proposta di senso, dall'esterno all'interno della persona, dall'esteriorità all'interiorità, dall'istituzione al soggetto, dall'offerta alla domanda di senso, dall'enfasi sulla legge all'enfasi sulla coscienza, in definitiva dall'obbedienza alla libertà. Si tratta di qualcosa che tutte le istituzioni faticano a comprendere e a cui cercano di resistere, ma che una religione di Chiesa come il cattolicesimo ha difficoltà maggiori a comprendere e ad accettare.
    Sostiene che gli ostacoli nel rapporto con i giovani attuali non si spieghino se non parzialmente come effetto di una eclissi di Dio, ma siano in misura non trascurabile l'effetto di una difficoltà propria della Chiesa e che sarebbe perciò sbagliato addossare a Dio le difficoltà della Chiesa.
    Ritiene che vi sia oggi una fatica della Chiesa a trovare parole comunicabili ai giovani e che questo stia facendola pericolosamente avvicinare al punto di pregiudicare la sua possibilità di comunicare la Parola.
    Invita a pensare che il modo in cui oggi viene sperimentata la fede dalle nuove generazioni richieda modi inediti di concepire le persone dal punto di vista religioso, non come "stati" fissi, definizioni stabilite una volta per tutte - i cattolici, i non credenti, i praticanti, i saltuari, i vicini, i lontani e via categorizzando - ma come processi, cammini, itinerari, storie, vite. Che ciò implichi ripensare i modi attraverso cui non "la religione viene trasmessa", ma "si fa esperienza della fede"; e che tutto questo implichi innanzitutto un profondo mutamento di atteggiamento nei confronti dei giovani.

    Fonti e note per la lettura

    Questo libro non sarebbe stato scritto se non avesse potuto avvalersi delle attività di ricerca, alle quali abbiamo contribuito in vario modo, condotte negli ultimi anni dall'Osservatorio Socio-Religioso Triveneto (OSReT). Le fonti specifiche sono indicate in dettaglio e separatamente nella bibliografia al termine del volume.
    Riteniamo sia giusto ringraziare la Conferenza Episcopale Triveneta e le Diocesi del Nord Est che in questi anni hanno generosamente sostenuto le attività dell'Osservatorio, rendendo possibile l'accumulo di una notevole mole di conoscenze ancora solo Parzialmente utilizzate, in particolare sulle nuove generazioni.
    Esso deve molto anche alle riflessioni maturate nel corso delle numerosissime occasioni in cui i risultati di ricerca che mano a mano emergevano da questo lavoro sono stati presentati e discussi all'interno dei più disparati ambienti, ecclesiali e non. Di particolare importanza per noi è stata la possibilità di dibatterne con giovani, operatori della pastorale giovanile, catechisti, preti, religiosi e religiose, docenti, insegnanti di religione, genitori e teologi, oltre che con altri colleghi sociologi.
    L'impianto generale del volume e le sue tesi di fondo sono state discusse in via preliminare da tutti e tre gli autori dei testi qui confluiti. Alessandro Castegnaro ha poi di fatto steso buona parte del testo, mettendovi anche molto del suo stile, e si assume perciò la responsabilità di firmarlo come autore principale. Quelle che certamente alcuni riterranno essere delle intemperanze sono sue, come sue sono le manchevolezze e le cantonate che sicuramente non mancheranno.
    La ricerca da cui abbiamo ricavato il maggior numero di stimoli per scrivere è una indagine qualitativa condotta su un certo numero di giovani compresi tra 18 e 29 anni. L'età è da sottolineare. Spesso, negli ambienti ecclesiali, quando si dice "giovani" ci si riferisce, anche inconsapevolmente, agli adolescenti in senso stretto, individuati grosso modo dall'età in cui frequentano la scuola secondaria di secondo grado. Noi ci siamo sempre occupati invece di giovani collocati nella fase successiva della vita, quella in cui il passaggio alla vita adulta diventa più prossimo, per la quale le Chiese diocesane hanno meno proposte e in cui essi si fanno notare soprattutto per la loro assenza, dagli ambienti ecclesiali in modo più accentuato, ma non solo da questi.
    Come già accennato, il rapporto finale scaturito da questa indagine è stato pubblicato nel 2010, con il titolo C'è campo? Giovani, spiritualità, religione, dalla casa editrice Marcianum Press di Venezia, che ringraziamo per avere con ciò consentito una divulgazione del materiale di ricerca raccolto in forma ampia e analitica. A questa pubblicazione rinviamo perciò il lettore che avvertisse come non adeguatamente documentate alcune affermazioni o volesse semplicemente approfondire aspetti qui sintetizzati, solamente accennati o assenti.
    Il lettore troverà nel testo numerose citazioni comprese tra virgolette basse (« »). Quando questi simboli compaiono, anche a chiudere singole parole, significa che si tratta di estratti dalle interviste pubblicate in C'è campo? o di altre citazioni tratte dal fondo di interviste depositato presso l'OSReT.
    Nel volume sono stati inseriti alcuni profili individuali di giovani che abbiamo conosciuto nelle nostre ricerche. Ci è sembrato interessante farli conoscere al lettore non per la loro tipicità, ma perché permettono di comprendere meglio il materiale conoscitivo da cui siamo partiti, e possono dare qualche idea di come i giovani d'oggi trattano i temi di cui il volume si occupa. Considerati i limiti dello spazio disponibile, nel selezionare tra la settantina di profili in nostro possesso quelli da pubblicare abbiamo privilegiato figure di giovani che presumiamo essere meno note agli ambienti di Chiesa.


    INDICE

    Indice

    1. PROVE DI SGUARDO DIVERSO SUI GIOVANI
    L'unica domanda che conta
    Giovani che non contano
    Un problema di ascolto
    Alle origini di questo libro
    Il mondo non è una clessidra
    Le connessioni errate
    Fonti e note per la lettura
    LEVIS. Il Dio personale

    2. QUI DIAMO I NUMERI
    Tendenze, confronti, domande
    Pochi giovani A un punto di svolta
    Uomini e donne
    La domanda spirituale: tre indizi

    3. DIVENTARE SE STESSI
    La ricerca di sé
    Il diritto di scegliere la propria eredità
    I valori e le regole
    Un obbligo sociale
    MARINELLA. Sentire Dio senza la Chiesa

    4. LA RICERCA DI AUTENTICITÀ E I SUOI RISCHI
    Il principio del rispetto
    Il relativismo temperato
    Io ho i miei valori
    Individualisti-altruisti
    La fatica di essere se stessi
    Biografie a rischio
    Fare la cosa giusta

    5. DIVENTARE CRISTIANI OGGI
    Fuori dal cristianesimo di tradizione
    Libertà nella religione
    Un radicale mutamento di prospettiva
    Trasmettere la religione
    Il "sacramento del ciao". Lo snodo tra cristianesimo dovuto e cristianesimo scelto
    Religione in standby
    NOEMI. Pregare un Dio senza nome

    6. SUL CRINALE DEL CREDERE
    Credere e dubitare
    Al di là dei "vicini" e dei "lontani"
    In ricerca ai confini del credere
    Esiti diversi
    Alle origini del credere
    L'emergere del Dio buono
    Il cattolicesimo di sfondo
    Una religiosità mobile e curiosa

    7. LA CHIESA: UN'IMMAGINE POCO ATTRAENTE
    Perché non vengono?
    Grande e piccola Chiesa
    Un potere poco trasparente
    La fastosità
    La chiusura
    ROSA. Desiderare di credere

    8. LA CHIESA DELLA LEGGE
    La custode dei valori
    Una montagna di divieti
    Sentirsi parte della Chiesa e liberi di scegliere
    Tra vita e legge

    9. DUE ALBERI E UNA FORESTA
    L'albero dell'integralismo
    L'albero dell'incredulità
    La "terra di mezzo" del credere
    Dietro l'incertezza
    Affacciati su uno spazio aperto
    Campi di forza, non spazi inerti
    Il pellegrino e il convertito
    Storie, non istantanee
    Che cosa cercano?
    Una domanda globale di salvezza
    Fuori dal recinto
    Aprite le porte!
    EDOARDO. Lo scettico buono

    10. IL VANGELO CON I GIOVANI
    In punta di piedi
    Uno sguardo corretto
    Una vita buona
    Una Chies ospitale e che si lascia ospitare
    Una proposta credibile

    Conclusione
    Bibliografia


    T e r z a
    p a g i n A


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