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    Letteratura e formazione /3. Libri memorabili tra classici e contemporanei

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2010-05-51)


    «Non servono tranquillanti o terapie
    Ci vuole un’altra vita»
    (Franco Battiato)


    Un altro posto: un posto per ricominciare da zero, per rinascere, per sbagliare. Un desiderio umano straordinariamente forte che trova il suo significato più pregnante nel termine Utopia.

    La parola, nata con Thomas More nel 1516 per denominare l’Insula Utopia nella quale si svolge il romanzo, va immediatamente incontro a una duplicità semantica: ou-topia – non luogo – è parola che subito nella pronuncia inglese rivela una possibile pseudo-etimologia (per omofonia) con eu-topia, luogo felice. Nel 500 e 600 il termine si trasforma da nome proprio a metafora pseudogeografica indicante lo stato ideale fittizio, mentre nel 700 diviene denominazione di genere letterario e da qui concetto politico. Nella prima metà dell’800 passa ad essere nozione peggiorativa di politica sociale, mentre nella seconda metà dell’800 fino a tutto il 900 recupera un senso positivo nel linguaggio filosofico-letterario: è l’inizio del ritorno dell’idea di utopia dal suo esilio e del primo interesse da parte del pensiero pedagogico.
    Il percorso del libro di More è molto chiaro così come lo è il suo punto di partenza: la letteratura utopica è prima di tutto letteratura di denuncia, così il primo libro descrive le disgrazie dell’Inghilterra. È a partire dalla descrizione del negativo che ha origine il positivo; l’utopia getta uno sguardo indagatore e critico sul presente, e proprio per questo motivo può pensare a un differente futuro.
    More propone l’abolizione della proprietà privata e del denaro perché ha visto gli effetti deleteri di una società che già si avviava a mettere il profitto prima di ogni cosa; propone di dare a ciascuno secondo i propri bisogni perché ha visto la povertà iniziare a divenire endemica; propone la coltivazione della terra da parte di tutti a turni di due anni perché ha visto i danni causati dalla lobby allevatori, sintetizzati nella frase «la pecora mangia l’uomo», dal momento che le enclosures, le recinzioni e privatizzazioni dei pascoli, riducono letteralmente alla morte per fame i piccoli contadini; propone che la politica interna dello Stato sia retta da poche e semplici leggi e che i rapporti con l’estero siano basati sulla fratellanza di tutti i popoli perché ha visto i danni di una politica basata sulla superpotenza dello Stato e sullo stato di guerra permanente; propone che il tempo libero delle persone sia dedicato allo studio e soprattutto che vi sia tolleranza religiosa (tutte le fedi hanno diritto di essere tranne quelle che negano la provvidenza divina, ma chi crede in queste ultime non deve comunque essere punito) perché è stato e sarà vittima dell’intolleranza religiosa.

    Cos’è Utopia

    Proprio il carattere estremamente preciso e documentato delle accuse che More rivolge alla politica e alla società del suo tempo rende utopico il suo romanzo e ci aiuta a capire che cosa è utopia e che cosa non lo è.
    L’utopia non è: il mondo alla rovescia, studiato per esempio da Hill o da Le Roi Ladurie, con la sua inverosimiglianza e la sua funzione tutto sommato conservatrice, perché propone soluzioni sociali radicali ma impraticabili; non è una robinsonata che mette al centro della sua attenzione l’individuo isolato come Robinson Crusoe sulla sua isola, perché non rinuncia alla socialità e alla socializzazione delle soluzioni; non è la rievocazione dell’età dell’oro, perché si sviluppa dopo la Caduta e la perdita dell’innocenza e prevede un futuro che sia qualitativamente differente dal presente e dal passato; non è l’Arcadia, evasione bucolica élitista; non è il paese di cuccagna, visione anarco-individualista di un mondo contadino consolatorio.
    L’utopia si caratterizza per la sua protensione verso un futuro «redento dall’uomo per l’uomo», per la visione di un futuro che non si lascia mai cristallizzare ma sfugge sempre ad ogni categorizzazione, per la sua dimensione irrimediabilmente sociale, per la sua inesauribilità semantica e per la sua non completa dicibilità a partire dal qui e ora.
    Possiamo identificare alcuni topoi pedagogici nelle utopie del passato e del presente.
    Anzitutto l’immagine dell’isola, che rappresenta la concretezza ma anche la capacità di sognare (l’isola di More è l’Inghilterra stravolta ma anche un luogo concreto dell’immaginario).
    L’isola è l’approdo finale, perché il viaggio utopico deve avere un punto di arrivo e non girare a vuoto come sembra oggi di moda prescrivere («non è importante arrivare ma viaggiare»); ma l’arrivo è anche un ritorno a ciò che si è lasciato un tempo (una suggestione che viene da Itaca) e un nuovo punto di partenza in una sorta di tempo a spirale che ci sembra tipico dell’utopia. Isola significa isolamento: nel senso della separatezza e del salto di qualità esistenziale che sono necessari per un superamento definitivo del presente: verso la perfezione, quelli dell’Eden e dell’Isola-che-non-c’è di Berry in Peter Pan.
    È proprio il viaggio il secondo topos pedagogico che possiamo analizzare: il viaggio come itinerario iniziatico (basti pensare ad opere solo parzialmente utopiche, come Il Signore degli Anelli o La Storia Infinita) prevede i pericoli e la fatica perché l’Utopia è una terra che non si lascia raggiungere facilmente.
    Diverse sono le modalità del viaggio, perché l’Utopia non si raggiunge mai in un modo soltanto: è possibile viaggiare in sogno (come in Notizie da nessun luogo di William Morris e nel delicatissimo Il pianeta degli alberi di Natale di Rodari), e il sogno mette in campo mediazione con l’ignoto inteso come attraversamento della notte ma anche la liberazione dai vincoli spazio-temporali, mentre il risveglio trasforma l’utopia in compito da svolgere (è evidente in Rodari).
    Il viaggio nel tempo è un’altra modalità di raggiungimento dell’Utopia: lo spostamento in avanti può essere artificio letterario ma può anche ridefinire l’idea di temporalità e di progresso, tenendo conto che l’annullamento del tempo è anche annullamento della morte.
    Il volo, antico desiderio umano di liberazione della gravità intesa come la forza più oppressiva, può portare all’isola, ma la stessa Utopia può essere un’isola, volante come Laputa nei Viaggi di Gulliver; e il volo può anche portare a ridefinire la specie umana come nelle donne alate di Bulwer-Lytton (The Coming Race), un vero ponte verso una nuova definizione di uomo e donna. Infine l’Utopia può essere raggiunta attraverso un viaggio sulla Luna, che mette in campo archetipi profondi: da Luciano ad Ariosto relativi forse all’immagine del femminile e dell’alterità (si pensi all’elegante serie TV Spazio 1999: la Luna come utopia umana che vaga per lo spazio).

    La terra della felicità

    Comunque ci si arrivi e dovunque la si trovi, l’Utopia è la terra della felicità: intesa come gratificazione dei bisogni (recupero di una infanzia radicale dell’umanità, di una dimensione pre-lapsaria, pre-natale presente in quadri di Bruegel); come riconciliazione con la natura (le radici sono ad esempio nella profezia di Isaia nella quale è in gioco il recupero della pace edenica); nell’Utopia la riconciliazione avviene attraverso la liberazione dalla macchine (Morris) e la redenzione degli animali.
    La felicità passa sempre attraverso la critica sociale e la richiesta di giustizia: l’utopia è sempre un partire dagli ultimi (viene in mente la Ursula Le Guin, di I reietti dell’altro pianeta, titolo poco originale per The Dispossessed, così come la distopia o utopia negativa getta luce sulle insufficienze del presente, come in Orwell, Zamjatin, Huxley.
    E infine felicità in terra di Utopia significa vittoria sulla morte: un tema che ha inizio con Morris e con la nuova concezione della morte nell’Ottocento, ma che nella seconda metà del Novecento diventa discorso sulla morte e non contro la morte come negli splendidi libri di Marge Piercy e per certi versi di Zenna Henderson (si tratta soprattutto di un discorso al femminile).
    Ma la terra d’utopia può essere altrove così come può essere dopo: il famoso calendario cosmico elaborato dall’astrofisico statunitense Carl Sagan comprimendo la storia dell’universo in un solo anno ci aiuta a capire quanto marginale sia la nostra presenza nel Cosmo: procedendo nell’analisi di questo anno di vita dell’Universo che sintetizza circa 14 miliardi di anni, scopriamo che l’11 aprile ha origine la via Lattea, il 25 agosto nasce il Sistema Solare, il 25 settembre nasce la vita così come noi la conosciamo, mentre il 13 dicembre nel mare compaiono i primi organismi animali pluricellulari: occorre aspettare l’ultimo giorno dell’anno per avere traccia dell’uomo: il 31 dicembre verso le ore 20.15 inizia la linea evolutiva che dai primati porterà all’uomo, mentre solo verso le ore 23.58 compare l’Homo sapiens sapiens e un secondo prima della mezzanotte del 31 dicembre fa la sua comparsa la civiltà occidentale. Che cosa accadrà dopo la mezzanotte? Quanti altri anni cosmici dovranno passare?
    Uno straordinario romanzo dello scrittore statunitense Clifford Donald Simak, Anni senza fine (Milano, Mondadori, 1980), prova a immaginare una Terra che prosegue nella sua esistenza senza la presenza dell’uomo, una Terra che è lasciata in eredità ai cani e alle formiche. Ma comunque una Terra che ha visto l’uomo e la donna e ha potuto apprezzare quanto di positivo essi hanno saputo fare.
    Forse la vera Utopia sta nel saper tramontare: passare leggeri sulla Terra lasciando un segno che non sia di distruzione ma di cura; e poi andare via, lasciando altri scenari e altri protagonisti, lasciando utopicamente che tra le macerie della civiltà torni a crescere l’erba «muta dove non passa l’uomo».


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