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    La richiesta


    Alla scuola di Gesù /4

    Elizabeth E. Green

    (NPG 2008-04-49)


    Dio ci chiama a realizzare il suo sogno secondo il piano che ha per ciascuno e ciascuna di noi. Ma Dio, che cosa richiede da noi? Abbiamo visto come Dio ci chiama, abbiamo visto che Dio vuole che noi diamo corpo al suo sogno, abbiamo visto che per la vita di ognuno e di ognuna Dio ha un piano.
    Ora è arrivato il momento di chiedere, insieme all’apostolo Paolo: «Signore, che vuoi che io faccia?» (Atti 22,10), ossia: quale è la richiesta di Dio nei nostri confronti?
    A questa domanda le scritture rispondono in vari modi secondo le diverse chiamate. Nel caso di Mosè, per esempio, al quale torneremo la prossima volta, la richiesta divina era di ampio respiro (e ci vorrà tutto un libro per raccontarcelo): Dio voleva che Mosè andasse dal faraone per fare liberare il suo popolo. Nel caso di Saulo, invece, all’inizio la richiesta di Dio riguarda solo il suo immediato futuro: «Levati, entra nella città e vi sarà detto ciò che devi fare» (Atti 9,5).
    Tuttavia, in molti altri casi, forse la maggior parte, nessuna informazione su ciò che ci si attende viene fornita, la chiamata è limitata ad un «Seguimi» perentorio. Che cosa richiede Dio da noi, allora?

    Tutto e niente

    La risposta è semplice e allo stesso tempo paradossale: da noi Dio richiede tutto e niente!
    Lungo i vangeli suonano come un ritornello le condizioni poste da Gesù a coloro che lo vogliono seguire. Sentiamole dal vangelo di Luca: «Se uno viene a me e non odia il suo padre, e sua madre, e sua moglie, e i fratelli e persino la sua propria vita non può essere il mio discepolo» (Lc 14,27). Che cosa sta dicendo qui Gesù? Che per seguirlo, lui pretende (sì!) di occupare il primo posto nella nostra vita, diventando più importante persino dei nostri affetti più cari. In altre parole, Gesù richiede tutto da noi; non è possibile tenere una zona franca libera dalla sua presenza, dal suo amore, dalle sue richieste! D’altronde, quando gli viene domandato qual è il grande comandamento, Gesù citando l’antico Deuteronomio risponde: «Ama il Signore Iddio con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua e con tutta la mente tua» (Mt 23,36), con tutto noi stessi appunto. E se non l’avessimo compreso, il vangelo di Matteo rende ancora più chiaro il concetto: «Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; e chi ama figliuolo o figliuola più di me, non è degno di me» (Mt 10,37).
    Il cammino con Gesù, quindi, comincia con una rinuncia, con un lasciare, con un perdere: «Se uno vuole venire dietro a me rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la sua vita la perderà» (Mc 8,34). Essendo lui l’unico Assoluto, Dio relativizza tutto il resto, e non solo i legami familiari ma anche tutte le altre cose alle quali siamo attaccati, inclusa la nostra stessa vita. Anzi, per dirlo prendendo in prestito un’idea nota al buddismo, Dio ci libera da ogni attaccamento che non sia Lui, e così facendo, ci fa diventare veramente liberi! Non sono solo i nostri affetti ad essere un eventuale ostacolo al cammino col Maestro. Potrebbero essere anche i nostri beni, le cose cui siamo particolarmente affezionati, gli oggetti con i quali ci circondiamo, le case, i terreni, il denaro. Non che queste cose siano in se stesse un male, ma lo diventano il momento in cui cominciamo a porre la nostra fiducia in esse. Quando pensiamo, cioè, di stabilire chi siamo, ossia la nostra identità, mediante ciò che abbiamo (anche se abbiamo solo un bel paio di jeans e un motorino ultimo modello) o ciò che facciamo (tutte le attività in parrocchia!). «Quanto è difficile a coloro che confidano nelle ricchezze entrare nel regno di Dio», diceva Gesù. E avvertendo precisamente questo pericolo nel giovane ricco gli disse: «Va’, vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri; poi vieni e seguimi» (Mc 10, 21). Gesù richiedeva che l’uomo si liberasse dei suoi beni prima di venire a seguirlo.
    Tuttavia, non sono nemmeno solo i nostri affetti o i beni materiali (per molti o pochi che abbiamo) che possono frapporsi tra noi e Dio. C’è anche il nostro modo di pensare cui di solito siamo molto attaccati! Nel suo Un minuto di saggezza nelle grande religioni (Milano 1987, p. 144), de Mello racconta la storia di una persona che si rivolge a un maestro dicendo: «Sono pronto, nella ricerca di Dio a rinunciare a tutto: ricchezza, amici, famiglia, patria, la vita stessa. A che cos’altro può rinunciare una persona?»; al quale il maestro risponde: «Alle proprie convinzioni circa Dio». Ecco, bisogna rinunciare ai nostri preconcetti sulla religione, la fede, l’essere cristiani, persino su Dio. Tutto richiede il Signore! Vuole che facciamo piazza pulita, che svuotiamo da cima a fondo le nostre stanze. Vuole che noi, insieme a Pietro possiamo dire: «Noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito» (Mc 10,28).

    L’esperienza di Paolo

    Per comprendere meglio questa richiesta, la storia dell’apostolo Paolo ci viene di nuovo in aiuto. Ricordiamoci che dopo l’esperienza sulla via di Damasco Paolo entrò in città dove «rimase tre giorni senza vedere, e non mangiò e non bevve». Tre giorni al buio! Tre giorni senza né mangiare né bere! Tre giorni! Un periodo di tempo ben preciso che ricorda i tre giorni di Gesù nella tomba. In quei giorni passati al buio, Paolo era più morto che vivo. Infatti, più tardi Paolo stesso dichiara: «Sono stato crocifisso con Cristo: non sono più io che vivo ma Cristo vive in me!» (Gal 2,20). Credo che in quei tre giorni Paolo (allora Saulo) facesse pulizia delle sue stanze, si liberasse di tutto ciò che finora era stato importante per lui, in cui si era confidato. In quei tre giorni cominciò a fare spazio a Dio nella sua vita, lasciando che Dio la riempisse. Per utilizzare una sua stessa espressione, si spogliò «del vecchio uomo» per rivestirsi del¬l’«uomo nuovo» (Ef 4,22-24). Di che cosa doveva spogliarsi Paolo?
    Secondo le sue stesse parole, Paolo doveva rinunciare a tutto ciò che finora aveva fatto parte del suo patrimonio religioso! Lui che era «circonciso l’ottavo giorno, della razza di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo d’ebrei, quanto alla legge fariseo, e quanto allo zelo, persecutore della chiesa; quanto alla giustizia che è nella legge, irreprensibile». Tutte queste cose che da un certo punto di visto erano altamente rispettabili e encomiabili. Paolo, esprimendosi con una parola probabilmente poco gradita agli editori di questa rivista, arriva a considerare tanta «spazzatura al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3, 5-8). Detto altrimenti, davanti «all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù», a Paolo ogni cosa diventa un danno. Che cosa richiede Dio da noi? Tutto!
    «Prendi Dio la vita mia, consacrare la voglio a te, essa un inno sempre sia, alla gloria tua mio Re», recita un inno dell’ottocento. Dio richiede da noi niente meno che tutto di noi stessi. Che cosa richiede Dio? Tutto. Ma proprio a questo punto dobbiamo subito dire il contrario! Da noi, Dio richiede proprio niente! Ed è questo il paradosso. Dio chiede tutto e niente. Il pensiero si fa un po’ più difficile. Che cosa potrà mai significare «tutto e niente?»
    Abbiamo visto che il piano che Dio ha per ognuno e ognuna di noi nasce dall’amore divino nei nostri confronti. Nasce dal fatto che agli occhi di Dio noi tutti e tutte siamo preziosi. E questo essere preziosi, importanti, di valore non dipende minimamente da noi, da ciò che siamo o da come siamo, da che facciamo o non facciamo. Dipende esclusivamente dall’amore di Dio, da – se vogliamo – una decisione liberamente presa nel cuore di Dio di amarci! Che cosa scrive San Paolo? «A mala pena uno muore per un giusto; ma forse per un uomo dabbene qualcuno ardirebbe morire, ma Iddio mostra la grandezza del proprio amore, in quanto mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5, 8). Ecco Dio ci ama non perché abbiamo qualcosa da offrirgli ma precisamente il contrario; ci ama malgrado la nostra inadeguatezza, le nostre paure, le nostre cattiverie, le nostre meschinità e via dicendo. Dio non chiede niente da noi perché veramente non abbiamo niente da dargli! Ed è proprio questo il nocciolo della questione.
    Leggendo le scritture scopriamo che spesso e volentieri Dio chiama le persone che secondo gli standard della società contano di meno: le donne senza figli, il più giovane dei figli, i pastori, pescatori, «peccatori», casalinghe, sarte, prostitute e quella gente poco raccomandabile e odiata «gli esattori delle tasse» per non parlare dei vari reietti che trovano posto tra i discepoli. Ma tutto questo, secondo Paolo, fa parte della logica divina. Scrivendo a quella comunità incasinata (se questa volta gli editori mi passano la parola) quale Corinto, Paolo dice: «Guardate la vostra vocazione: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, né molti potenti, né molti nobili» (1 Cor 1, 26). Ma non è un puro caso: la composizione di quella comunità cosmopolita e piena di problemi rispecchia un preciso disegno da parte di Dio: «Dio ha scelto le cose pazze del mondo per svergognare i sapienti; Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti; Dio ha scelto le cose ignobili del mondo e le cose disprezzate, anzi le cose che non sono per ridurre al niente le cose che sono». Perché? «Affinché nessuno si vanti di fronte a Dio» (1 Cor 1, 26-29). Paolo insiste ripetutamente su questo fatto, la possibilità che noi avessimo qualcosa da offrire a Dio è respinta; il vanto è tassativamente escluso; l’essere umano ha niente di che poter vantarsi davanti a Dio. Che cosa richiede Dio da noi? Proprio niente! La stessa idea che noi abbiamo qualcosa da dargli è assurda.

    In cambio, la vita

    Ma a questo punto sorge un dilemma, dopo tutto ciò che abbiamo detto su come Dio ci vuole coinvolgere nel suo progetto, su come Dio non può fare niente senza che noi gli prestiamo mani, piedi, cuore, com’è possibile che da noi Dio non richiede niente? Sembra che ci siamo messi in un bel pasticcio; che siamo diventati come Paolo sulla via di Damasco ciechi e affamati. Abbiamo bisogno di un Anania che ci faccia recuperare la vista! Manca, infatti, un pezzo del puzzle che stiamo costruendo. Gesù sì richiede tutto di noi, anima, corpo e mente pur essendo consapevoli che quel tutto è un niente. Promette, però, che se noi rinunciamo alla nostra vita, la riceveremo indietro. Il paradosso è proprio questo: solo perdendo la nostra vita la guadagneremo, solo svuotando le nostre stanze la nostra vita diventerà una bella casa spaziosa tutta da abitare! «Chi vorrà salvare la sua vita la perderà; ma chi perderà la sua vita per amor mio e del Vangelo la salverà» (Mc 8, 35)
    Se guardiamo ancora una volta la storia di Paolo, scopriamo come Dio riprende, «salva» tutto ciò che lui era e era stato. Come avrebbe potuto fare da ponte tra gli cristiani di origine ebraica e i cristiani di origine pagana se Paolo non fosse stato egli stesso ebreo? Come avrebbe potuto radicare il vangelo di Gesù Cristo nelle scritture ebraiche se lui stesso non fosse versato nelle scritture e nella loro esegesi? Come avrebbe potuto annunciare che Gesù fosse il messia nelle sinagoghe se lui stesso non appartenesse a quell’ambiente? E come avrebbe potuto disquisire con le autorità civili se lui stesso non fosse stato un cittadino romano?
    E così potremmo continuare per vedere come Dio prende tutto di noi, tutti i nostri doni, i nostri talenti, i nostri punti forti come quelli deboli, le nostre predisposizioni, la nostra storia, tutto ciò che siamo in tutte le sue sfaccettature per riempirlo e re-orientarlo verso il suo sogno. E in tutto questo processo Dio dona ad ognuno e ognuna di noi una vita abbondante, la nostra vita, quella che siamo chiamati a vivere. Il sogno divino diventa la nostra salvezza! Dio promette di rinnovarci e di fare di ognuno e ognuna di noi una nuova creatura. Da noi richiede tutto e niente. In cambio ci promette la vita.


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