Gioia Quattrini
(NPG 2001-03-4)
C’è un museo a Berlino dove fa freddo. Bianco e freddo ovunque. Qualcuno rintraccia nel perimetro il profilo della stella di David. Qualcun altro invece pensa ad una saetta di zinco, acciaio e cemento.
Lo spazio del silenzio, un silenzio che stordisce, s’impasta con le lacrime che a tratti sfuggono e chiude il naso, spinge a spalancare la bocca per cercare aria. E di aria verrebbe da pensare ce ne sia troppa perché gli spazi che ci circondano sono smisurati, tesi forse nell’inutile sforzo di contenere l’orrore o il lungo esilio o il tormento insistito di un popolo che non ha mai avuto pace.
Gli spazi costruiti in questo vuoto non riescono a fuggire dalla carica simbolica che si impone poiché non ci sono parole che tengano per narrare l’ineffabile e non ci sono immagini che tengano per dipingere l’indescrivibile: allora si è scelto di suggerire. La sensazione è di quelle difficili da definire: si cammina lentamente quasi l’aria fosse un velo che si teme di strappare. Dei visitatori entrati prima di noi e di quelli subito dietro non sembra essere rimasta traccia. Dove siano, rimarrà un interrogativo perenne anche dopo la fine della visita. Il fatto è che in quel monumento al vuoto di spazio e di suoni si finisce per perdersi e si esce convinti di essere stati soli ad attraversare quel mare infinito di sensazioni. Soli davanti all’orrore e alla follia. Berlino ha dedicato questa strana creazione ai sei milioni di ebrei morti mentre gli occhi del mondo fingevano di non vedere la cenere nell’aria e le orecchie del mondo fingevano di non sentire le grida nei forni.
Ai giovani come una margherita sono donate le ultime parole del Ministro delle finanze tedesco Hjalmar Schacht quando Hitler ebbe finito di illustrare il suo piano di sterminio degli ebrei e conquista del mondo: «OHNE MICH». Senza di me.
C’è un museo a Berlino dove prima c’era filo spinato. Un edificio anonimo davanti la torretta di Checkpoint Charlie e dentro l’edificio la storia di un muro, la sua nascita dai primi accenni di filo spinato, la sua crescita mattone su mattone, la sua morte davanti la forza travolgente della libertà. Conculcata dalle colate di cemento, schiacciata da enormi massi, tenuta sotto tiro dalle armi, resa muta dai fili elettrici la libertà è tornata all’improvviso a circolare nelle vene sotterranee, ha travolto gli ostacoli e rotto gli argini, gigante che si scrolla dalle corde che cercavano di paralizzarlo. E così la storia del muro diventa invece la storia degli uomini che piccoli gnomi mai stanchi hanno lavorato giorno e notte per vincere quel nemico, per ingannare quel gigante che sembrava dormire ed invece cercava di narcotizzare i loro cuori e di smemorare i loro affetti. Cercava di sfiancare i loro respiri e soffocare i loro pensieri amputandogli lo sguardo con un orizzonte artificiale. Cercava di stordire le loro forze strappandogli gli sguardi e le carezze dei cari, rubandoglieli lontani e cancellandone i colori.
Così qualcuno si affidò ad una mongolfiera e qualcuno nascosto in una valigia e qualcun altro perfino scavando un tunnel purché portasse dalla propria casa verso ovest. Qualcuno senza un progetto e neppure una remota possibilità di riuscire scelse soltanto di morire sfidando il mostro perché non poteva sopportare di vivere nella sua soggezione. Morire è di certo tremendo ma l’idea di morire senza essere vissuti è assolutamente insopportabile.
L’ignoranza, il sordido calcolo politico, l’interesse e i pregiudizi avevano tenuto quel muro in piedi per ventotto anni fino a quando l’intelligenza degli uomini, la loro audacia e l’arguta intraprendenza avevano cominciato a minarlo dalle fondamenta.
I giovani sorridono a spasso per questo museo. Sorridono e imparano che nulla è più pericoloso di un’idea quando è l’unica che abbiamo.