Michele Falabretti
(NPG 2014-04-8)
Dopo domenica, è lunedì
Con questo numero (e in due puntate) della rivista, Note di pastorale giovanile molto cortesemente fa spazio al XIII Convegno nazionale di pastorale giovanile che si è svolto a Genova nello scorso mese di febbraio. Lo fa riprendendo gli interventi principali offerti dai relatori durante il convegno. Non, però, con la semplice intenzione di riprodurre dei testi come se questa fosse una sorta di pubblicazione di atti, da destinarsi con ogni probabilità alla lettura dei più solerti o agli scaffali della zona-riviste. Piuttosto con il tentativo di allargare e continuare il confronto-dibattito che ogni convegno prevede, ma necessariamente con qualche ristrettezza. Perché riprendere e riflettere è un compito importante e da qui, soprattutto dopo il convegno, si vorrebbe ripartire.
In queste righe, mi sembra importante andare ai pensieri del pre-convegno: quelli che hanno ispirato la sua progettazione e la sua programmazione. Perché la scelta del tema legato alla cura educativa? Perché il percorso offerto?
Andiamo con ordine e ripercorrendo la nostra ventennale storia, e in ascolto del territorio (in particolare le Commissioni regionali), individuiamo alcuni punti di riferimento che mi sembra interessante esplicitare e riproporre all’attenzione di tutti, proprio perché rappresentano due snodi non indifferenti per chi vuole fare pastorale giovanile oggi. Due snodi che partono dal ricupero di un principio fondamentale, direi quasi uno dei “motori” del Concilio: e qui mi piace ricordare che tutto questo lavoro è nato nell’anno in cui si è celebrato il cinquantesimo anniversario della sua apertura.
Un motore di pensiero e azione: il principio di incarnazione
Con le grandi riflessioni teologiche, espresse nella riforma del Concilio, si riscopriva l’essenza della rivelazione cristiana in quanto avvenimento storico e la sua appropriazione nella fede come esperienza libera. Dio parla (come non sentire l’eco di Dei Verbum?), e lo fa con parole e gesti di uomini. Nasceva da qui la spinta a rinnovare il metodo di una formazione alla vita cristiana che lavorasse sull’intero della persona e non semplicemente sull’aspetto dell’apprendimento di conoscenze.
Tutta l’impostazione pastorale della Chiesa era chiamata a rinnovarsi: accanto alla preoccupazione di insegnare, nasceva l’attenzione alla cura e all’accompagnamento (Mater et magistra, scriveva Giovanni XXIII). Se Dio parla con “gesti e parole”, i cristiani non possono che farsi compagni di viaggio dei loro contemporanei; dentro un tempo segnato fortemente dalla fine di un regime di christianitas, da non recepire come un dramma, perché rimane aperto un orizzonte pieno di sfide e possibilità anche per i cristiani.
Non è questa una lettura così serena e assodata. Prova ne è che negli ultimi anni abbiamo assistito a vere e proprie contrapposizioni su cosa fosse più urgente o da ricuperare: molte storpiature sono avvenute nel mondo della pastorale giovanile attorno a espressioni come “emergenza educativa” o “valori non negoziabili”. A farne le spese, soprattutto, la liturgia e l’impostazione pastorale che qualche volta ha portato a vere e proprie derive anche nei confronti dei giovani: “noi siamo qui, se vogliono possono venire”…
Non è stato solo il cambio di un pontificato (con tutto quello che si potrebbe dirne): un forte senso di smarrimento e di disagio di fronte alla fatica di incontrare il mondo giovanile e soprattutto di come poterlo provocare, era diffuso. Come se anni di esperienze anche entusiasmanti, non avessero lasciato nessuna eredità pastorale. Ricuperare il principio di incarnazione che il Concilio ci ha consegnato, è stata più la scoperta di un fiume carsico pronto a riemergere che una vera e propria intuizione.
Gli scenari nuovi
È indubitabile che siamo davanti a nuovi scenari di pastorale giovanile e che il loro delinearsi sia via via più legato a cambiamenti sempre più repentini.
Per esempio, le nostre parrocchie e i nostri oratori (qualunque forma essi abbiano, che siano al nord, al centro o al sud) stanno sempre più diventando luoghi di ospitalità per i più "poveri" e sempre più laboratori di "intercultura" e di "meticciato" (termine utilizzato dal card. Scola quando era a Venezia). Paradossalmente assistiamo al fatto che facciamo spesso esperienza con ragazzi di altre religioni. Noi facciamo educazione con ragazzi, a dei ragazzi che non c’entrano nulla con il cristianesimo e il cristianesimo non è il loro punto di riferimento (drammaticamente non lo è più nemmeno per chi è cristiano). Però il vangelo è quella ospitalità a perdere che apre ad ognuno, senza chiedere carta d'identità particolare. La scommessa è che il vangelo non è solo qualcosa da dire o da raccontare, ma anche qualcosa da trovare e che è già all'opera nel cuore e nella vita delle persone. Anche in chi non è cristiano.
E questo, evidentemente, vale non solo con adolescenti e giovani di altre culture e religioni. Vale anche per quelle situazioni di “marginalità” che tutti, ma proprio tutti conoscono: nessuna parrocchia italiana, nessun quartiere o comune, stanno sotto una campana di vetro (sotto la quale qualcuno – ancora – si illude di potersi nascondere): i ragazzi hanno un prolungamento della loro mente, del loro cuore e dei loro sentimenti (attenzione: la sintesi di tutto questo si chiamerà coscienza ed è un processo personalissimo e libero!) in ciò che tengono in mano: le nuove tecnologie. Lo sa anche l’insegnante più sgamato, che un adolescente durante le sue ore di scuola va dove vuole, incontra e parla con chi vuole, tenendo una mano sotto al banco e digitando un piccolo cellulare. Questo significa che esistono “periferie” che agli occhi di chiunque risultano drammatiche: penso alle zone dove la criminalità organizzata è ad alta densità. Ma penso anche a quei ragazzi che crescono lasciati a se stessi, senza che qualcuno li accompagni.
Costruire parrocchie e oratori (ripeto, qualunque forma essi abbiano; con il cortile o sulla strada) come laboratori di un'ospitalità così alta, mi parrebbe una prima possibilità di risposta all'appello del vangelo stesso. Dove il senso della cura è lo stile più evidente e raccomandabile.
Lo stile da cercare
A questo punto bisognerebbe prepararsi alle solite geremiadi: quelle che tante volte fioriscono sulle labbra dei genitori o delle catechiste. Ma come si fa? È così difficile! È vero: non è una passeggiata per nessuno; genitore, prete o educatore che sia. Ma non si può abdicare al compito di educare, non si può restare sopiti e tutto deve essere rimesso in gioco. È possibile che inizialmente lo si faccia a partire dalle sensazioni, dal disagio: insomma dalla pancia. Ma non tutto deve fermarsi lì, perché nella chiesa si educa per rendere un servizio ai poveri: e non c’è povertà più grande che essere sguarniti di fronte al compito di crescere e diventare uomini.
Qui il senso di cura deve fare i conti non solo con gli slanci generosi di chi si mette a disposizione, perché il rischio è quello di essere risentiti di fronte alle fatiche e ai fallimenti: e infatti questo era ed è l’atteggiamento che ancora si respira in chi pensa al mondo giovanile come a una comunità di educande di un secolo fa. E quindi va evitata la più classica delle domande: ne sarò capace? La domanda fondamentale deve essere piuttosto: voglio assumere il mandato? Dio ci ha mostrato il modo di incontrare il mondo e di incontrare l’uomo: sono disposto a prendermene cura con il suo stile, quello che prevede il morire per gli altri e il portare la croce del discepolo (che è – appunto – l’atteggiamento di chi segue il Maestro sapendo che il mondo è già redento; o, in altre parole, riconoscendo che io incontro l’umanità scoprendo che la grazia di Dio è già all’opera)? Attenzione: il metodo di Dio prevede anche il fallimento…
Una cura così vissuta chiede più attenzione alle domande che alle risposte, e questo significa anche sviluppare una cura che non pretenda di vedere grandi risultati. Dio decide di correre il rischio di dire se stesso attraverso la povertà della mia umanità: non posso annunciare al di fuori di questa esperienza e dunque bisogna pensare di concedere agli altri di fare i conti con le proprie fragilità, perché la fatica di comprendere dove si è arrivati è sempre generativa.
Per chiudere e – soprattutto – andare avanti
Il Convegno di Genova è partito dai pensieri appena raccontati, di cui si è fatto sintesi e da cui si è cercato di rilanciare. Vent’anni di strada percorsi in compagnia di moltissime persone, un principio come quello dell’incarnazione che facesse riscoprire il gusto di sentirsi pellegrini su questa terra, in questa vita accanto a ogni persona (specialmente giovane) che ci capita di incontrare. Scenari nuovi: che a volte creano paura e disagio; ma che sono il contesto nel quale siamo chiamati a vivere e a testimoniare il vangelo e davanti ai quali è più intelligente imparare a stare con la semplicità delle colombe e l’astuzia dei serpenti. Uno stile da trovare, perché la cura educativa non è un pio esercizio ascetico dove con un po’ di sopportazione delle intemperanze giovanili si viene fuori dalle tempeste. Semmai sono loro, i ragazzi, che hanno bisogno di attraversare la tempesta che ogni adolescenza propone a chi ha l’avventura di diventare grande.
Il Convegno aveva questa “piattaforma” e ha offerto le sue riflessioni. Ma in questa situazione di passaggio, la capacità di discernimento è importante. Nella nostra storia continua ad agire lo Spirito di Dio: chi lo sa invocare, trova gli orizzonti del Regno. Per questo ritengo preziosa la pubblicazione di relazioni, accanto ad alcune riletture e reazioni che provengono da tutta l’Italia. Nella speranza che questo processo di verifica e discernimento non si esaurisca troppo in fretta: vorrà dire che insieme stiamo cercando le indicazioni pastorali che il Signore Gesù, ancora oggi, ci indica.