Editoriale
L’invito sinodale a qualificare vocazionalmente il nostro impegno educativo-pastorale
Rossano Sala
In questi mesi, nella Chiesa, si percepisce un certo silenzio. Non passivo ma meditativo. Consultando il Popolo di Dio, i Lineamenta del prossimo Sinodo stanno ottenendo il loro effetto, che è quello di creare un clima di verifica e di riflessione seria e profonda sul tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. D’altra parte, per chi si è cimentato nella lettura attenta del Documento Preparatorio, alcune provocazioni emergono in maniera senz’altro chiara. Voglio affrontare qui quella che ritengo la più suggestiva e stimolante.
L’analisi testuale dell’intero Documento ci mostra che in quattro momenti viene usata l’espressione “pastorale vocazionale”, mentre una sola volta si impiega invece l’espressione “pastorale giovanile”. Per ben cinque volte invece viene utilizzata la dicitura “pastorale giovanile vocazionale”.
Effettivamente, a pensarci bene, questa espressione rappresenta una vera e propria innovazione, quasi l’emergere di una nuova grammatica. All’inizio del terzo capitolo, quello dedicato all’azione pastorale, dopo la domanda che fa da Leitmotiv all’intero capitolo e alla dichiarazione dello scopo dello stesso, vi è un’espressione che davvero ci dà da pensare sull’impostazione di fondo circa il nostro modo di intendere il compito che ci è affidato:
Che cosa significa per la Chiesa accompagnare i giovani ad accogliere la chiamata alla gioia del Vangelo, soprattutto in un tempo segnato dall’incertezza, dalla precarietà, dall’insicurezza?
Lo scopo di questo capitolo è mettere a fuoco che cosa comporta prendere sul serio la sfida della cura pastorale e del discernimento vocazionale, tenendo in considerazione quali sono i soggetti, i luoghi e gli strumenti a disposizione. In questo senso, riconosciamo una inclusione reciproca tra pastorale giovanile e pastorale vocazionale, pur nella consapevolezza delle differenze. [1]
Si dicono due cose importanti sul legame tra pastorale giovanile e pastorale vocazionale: prima di tutto che c’è un’inclusione reciproca tra le due, e in secondo luogo che si è consapevoli delle loro differenze.
Il primo versante, quello dell’inclusione reciproca, è garantito dal prosieguo del capitolo, che non parla praticamente più della questione, lasciando quindi intendere che l’andamento si riferisce, in un certo senso, all’insieme organico delle “due” pastorali.
Il secondo versante, quello della consapevolezza delle differenze, praticamente non viene mai trattato, perché in nessun luogo puntuale del documento, ci pare, si dice con chiarezza indiscutibile e con impegno teorico che cosa sia l’una e che cosa sia l’altra.
La prassi non mente. Ognuno di noi è sufficientemente accorto e consapevole che una pastorale giovanile senza attenzione e fuoco vocazionale rischia sempre il cosiddetto “giovanilismo” anonimo, omologante e massificato, che si realizza nella volontà di contatto, certamente sincero, con i giovani, ma non sempre accompagnato da un annuncio delle esigenze ineludibili della vita cristiana, che chiede la risposta personale ad un appello altrettanto personale: tante volte la nostra pastorale giovanile va avanti così, nella logica dell’intrattenimento ludico, culturale, sociale. Che in fondo non impegna fino in fondo la vita dei nostri giovani in ottica vocazionale.
In direzione opposta, sappiamo anche dai nostri colleghi che si occupano di “vocazioni” che una pastorale vocazionale separata da un più ampio inserimento nel contesto della pastorale giovanile ordinaria, pur tenendo standard di spiritualità molto alti e richiesta di coinvolgimento esistenziale totalizzante, rischia di divenire una “pastorale degli eletti”, cioè di una piccola minoranza molto selezionata. Quando nel Documento si parla varie volte dei giovani in ottica universale – “tutti i giovani, nessuno escluso” –, questa logica elitaria viene criticata e messa al bando senza alcuna possibilità di appello.
Anche dal punto di vista accademico ci si imbatte spesso nella stessa problematica, che rimanda però ad opzioni teoriche che stanno a monte della pratica e che il più delle volte appaiono poco tematizzate e poco argomentate: un’attenzione teorica molto concentrata verso la necessità di garantire il contatto, la simpatia, la vicinanza, la familiarità e la condiscendenza con il mondo giovanile – esigenza tipica di una pastorale giovanile che fa perno sull’evento dell’incarnazione –, talvolta rischia di non avere il coraggio di confrontarsi con la forza e la profondità dell’evento cristiano nella sua totalità, di cui l’incarnazione rimane lo splendido e singolare portale d’ingresso, ma non certo esaustivo della rivelazione in quanto tale, che ha di certo negli eventi pasquali il suo fondamento ineludibile e la sua pienezza inesauribile.
La dinamica vocazionale, che implica come minimo la necessità di mettere a disposizione la propria vita per il Vangelo in forma piena attraverso la risposta ad un decisivo appello personale che viene dal Dio unitrino, offre consistenza alla pastorale giovanile e la qualifica in maniera decisiva, tanto che senza l’istanza vocazionale la pastorale giovanile rischia senz’altro di ridursi a sommario impegno di promozione umana o di animazione in ottica meramente educativa o genericamente culturale.
Ci pare allora che l’espressione Pastorale giovanile vocazionale rilanci con intelligenza la nostra riflessione e la nostra pratica verso una integralità non sempre raggiunta, per diversi motivi, dalle due singole diciture di “pastorale giovanile” e di “pastorale vocazionale”. Entrambe, per alcuni aspetti, prese da sole, rischiano di non dire in pienezza ciò che davvero ci sta a cuore nel rapporto tra giovani ed evangelo.
Invece il Documento, proponendo questa nuova grammatica, ci chiede di qualificare dall’interno la pastorale giovanile e di estendere gli spazi della pastorale vocazionale.
Per andare in questa precisa direzione bisogna prendere il largo e andare in profondità, analizzando qual è la nostra antropologia di riferimento: se è di tipo “progettuale” e “autoreferenziale”, prediligendo cioè la persona del giovane che prende attivamente in mano la propria vita a partire dai suoi interessi e dalle sue inclinazioni; oppure se ci muoviamo partendo da un’antropologia di tipo squisitamente “vocazionale”, che si orienta cioè nel pensare la vita umana nell’ottica di un dono ricevuto e di un appello chiaro verso una risposta d’amore. Mettere ordine e giusta relazionalità tra “vocazione” e “progetto” è davvero uno dei compiti che il Sinodo ci consegna. Nel cuore della seconda parte dei Lineamenta, quando si parla di fede e vocazione, si prende posizione, attraverso una citazione del capitolo quindicesimo dell’evangelo di Giovanni, dove risulta chiaro che la scelta vocazionale da parte di Dio – “io ho scelto voi” – non è disattivante, ma esattamente chiede una progettualità attiva e responsabile nella logica della fecondità e della fruttuosità:
«Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 15,16-17). Se la vocazione alla gioia dell’amore è l’appello fondamentale che Dio pone nel cuore di ogni giovane perché la sua esistenza possa portare frutto, la fede è insieme dono dall’alto e risposta al sentirsi scelti e amati. [2]
NOTE
1 SINODO DEI VESCOVI – XV ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA (presentazione di R. Sala – Riflessioni di E. Castellucci e N. Dal Molin), I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Documento preparatorio e questionario, LDC, Torino 2017, 53.
2 Ivi, 41.