Giuseppe Casti
(NPG 2007-04-2)
Gli ultimi fatti riportati dalla cronaca non possono lasciarci indifferenti come educatori. Il bullismo nelle scuole, la violenza negli stadi, il risveglio di gruppi terroristici, vanno letti, al di là dei rigidi moralismi, nel fascio delle contraddizioni laceranti e nella ricerca di un difficile orizzonte di senso.
Capire la violenza giovanile
Nella società di oggi la violenza assume forme varie e di gravità diversa, ed è originata da cause altrettante varie. Comprendere per noi educatori significa una ferma volontà di conoscere una certa realtà giovanile sotto la guida di un preciso giudizio di valore.
Cosa vuol manifestare il giovane con l’uso della forza? La violenza è sempre un messaggio da non ignorare, è il messaggio di chi si sente estraneo al tessuto sociale, o meglio sente di non poter partecipare al cammino comune. Il giovane non è riuscito ad esprimere la sua identità.
Ciò impone una seria riflessione.
Innanzitutto in famiglia. Un’educazione iperprotettiva non permette al giovane una piena maturazione intellettuale e spirituale, e una conseguente assunzione dei propri bisogni e degli strumenti per risolverli.
Confessiamolo pure: il mondo contemporaneo, per ragioni che non possiamo nascondere, incita in tutti i modi a sognare un mondo irreale. Lo fa tutti i giorni con il suo corteo di divi e di divette, di campioni e di veline, di personaggi famosi relegati nell’isola per offrirci un concentrato di stupidità. La cultura del servilismo di fronte ai potenti di turno e l’amore smisurato per il denaro, tendono a presentarci tutto questo come l’unico modello di vita. Tutto concorre a fare del successo come tale un ideale assoluto. Non viene risparmiato niente pur di raggiungere questo nuovo ideale di «vita riuscita», e chi non riesce prova una forma di colpevolezza, si sente un «fallito» destinato a rimanere anonimo.
Il giovane che ricorre alla violenza non spera più, ha fatto della disperazione il senso della sua vita. Non pensa e non crede che la sua vita trovi compimento nel bene, nella felicità e nella pace. La disperazione porta l’uomo ad affermare la morte fisica del suo simile e quindi la soppressione di chi lo contrasta. In lui si spegne ogni voglia di creare una società migliore, più pulita, ma cresce sempre più l’affermazione della insopportabile incapacità di capire la vita come è data.
È, in primo luogo, la famiglia che dovrebbe dare sicurezza al giovane, fargli credere «che vale». Ora, di regola una sana coscienza di «valere» si forma a partire dall’esperienza di essere valorizzato dagli altri. È questo il primo compito dei genitori: dimostrare al figlio, mediante il loro amore e la loro dedizione, che vale. L’apprezzamento da parte della madre è affettivo; fa sì che si senta compreso e stimolato, spinto a provare di nuovo una volta perdonato. L’apprezzamento del padre comunica maggiore sicurezza (egli è il simbolo del mondo esterno, sconosciuto) e provoca al rischio e al nuovo. Solo colui che si sent
e apprezzato e sicuro di sé (cioè, con dignità e capacità di essere libero) può essere fraterno e solidale; accetta che anche l’altro vale perché amato dagli stessi genitori che lo amano. Il capitale sociale del giovane cresce quando l’apprendimento nella scuola dive
nta collaborativo e nella parrocchia o nell’oratorio può vivere l’appartenenza a un gruppo.
Non basta, infatti, «proteggere» i giovani offrendo loro le condizioni per una vita sufficientemente agiata. Ci vogliono azioni tese a renderli soggetti attivi e protagonisti nella vita sociale, ecclesiale, economica e politica.
Il lavoro
La violenza giovanile si è espressa, soprattutto, nel mondo dello sport e del lavoro. Colpisce il fatto che le nuove reclute del terrorismo siano giovani sindacalisti e che abbiano preso di mira dei giuristi del lavoro. Una riflessione a questo proposito. Qualcuno aveva preconizzato troppo in fretta che le ideologie erano morte.
In un tempo in cui l’uomo è diventato l’alfa e l’omega della propria esistenza e le trascendenze di un tempo, quelle del Cosmo o di Dio, ma anche della Patria e della Rivoluzione, sembrano a molti illusorie, dogmatiche o mortifere, ecco che rispunta l’ideale di qualcosa che vada oltre l’orizzonte chiuso del materialismo radicale. È vero che per molti c’è la paura fondata che flessibilità nel mondo del lavoro si traduca inesorabilmente in precarietà. Il futuro oggi alle nuove generazioni appare come una minaccia e non come una promessa.
Senza dubbio esiste il problema di trovare un lavoro stabile che dia garanzia al futuro, ma nella mente di molti giovani c’è una grande confusione tra ciò che si chiama una «vita felice», e la semplice «riuscita sociale». C’è una bella differenza tra la saggezza autentica e il «culto del successo». Non si può confondere la vera felicità con la bramosia narcisistica e illimitata del potere, del denaro, della notorietà. Far capire la differenza tra utilità e felicità è uno dei punti più difficili. E per noi educatori rimane l’arduo compito di preparare seriamente alla vita dal punto di vista professionale senza dimenticare ciò che intendeva D. Bosco per felicità.
Lo sport
Ciò che doveva essere il campo dove i giovani esprimono al meglio la loro libertà, lealtà e fraternità, è diventato un terreno dove si intrecciano e si scontrano interessi economici e politici.
La violenza, purtroppo, esplode non solo nei grandi stadi ma anche nei campi di provincia e talvolta… anche nei nostri campetti dell’oratorio. Lo sport con il suo carattere di spontaneità e gratuità è un luogo educativo che permette di ritrovare la bellezza delle dimensioni elementari e di immettere la circolazione di senso dentro la vita dei giovani. Essere presenti nel mondo dello sport è guardare la vita dalla parte dei poveri, di coloro per i quali anche l’elementare è frutto di conquista.
Lo sport, spesso, non è più gioco, non è più festa perché ci arriva già «confezionato», «scontato», e ci sembra impensabile che sia diversamente. Quando nello sport subentra la logica del potere e del professionismo non c’è più festa, e senza festa si lascia spazio alla violenza. L’oratorio ha la missione di ricuperare la bellezza delle azioni nel quotidiano, riscattare un insieme di attività sportive e culturali che troppo facilmente sono state considerate alienate semplicemente perché umili, dimesse, di servizio invece che di appropriazione.
Di fronte alla violenza giovanile
Di fronte a questi fatti non possiamo fermarci a una lettura sociologica della realtà giovanile anche se, come educatori, dobbiamo conoscere tutti i fattori che costituiscono la situazione vitale e totale del giovane per incidere con il nostro intervento educativo.
Tornare al cuore
Quando D. Bosco diceva che «l’educazione è una cosa di cuore» non intendeva certo un vago sentimentalismo. Parlava di profondità. Ciò richiede educatori vigili, svegli e attenti alle condizioni profonde dell’esistenza. Non un semplice lavoro psicologico, ma un tentativo di scoprire le profondità che ci fondano e ci giustificano. Tornare al cuore significa partire dalle esperienze del giovane per ascoltarle, esorcizzarle e purificarle. Solo quando sono purificate dall’incontro con Dio possono ritornare al cuore, cioè al centro della vita del giovane come energie rivitalizzanti.
Le energie dei giovani devono essere saggiamente canalizzate per ritrovare la causa grande, trainante della liberazione. Ciò comporta riconoscere e denunciare tutte le alienazioni del nostro tempo per coinvolgere e impegnare le energie in un processo dinamico di costruzione dell’uomo che allarga l’orizzonte fino ai confini della storia. La liberazione personale per essere autentica deve avere il grande respiro di una liberazione globale. Da una visione «borghese» della vita, tutta centrata sul privato e sul personale, passiamo a una visione di storia in cui è inclusa tutta l’umanità, principalmente quelle fasce deboli in cui c’è più schiavitù: i poveri, i bisognosi, il terzo mondo.
In questa prospettiva l’educazione in genere e l’educazione alla fede diventa un’educazione liberatrice. E quando l’educazione è sorretta dall’energia della liberazione, che è l’energia stessa della Risurrezione, nasce una nuova visione di parrocchia, di scuola, di oratorio.
Dove trovare Anania?
Che sarebbe diventato Paolo accecato nella via di Damasco se non fosse stato accolto da Anania e dalla sua piccola comunità? Che sarebbe diventato Domenico Savio senza D. Bosco che l’accoglie nell’oratorio?
Dove trovare Anania oggi, dove trovare un educatore per poter con lui rileggere, esprimere, confortare e fortificare ciò che si è vissuto? Spesso sembriamo estranei alle esperienze dei giovani, preoccupati prima di tutto di amministrare una religione con la sua dottrina, i suoi riti, le sue opere. Il nostro ruolo di educatori è quello di Anania.
Delle risposte o dei cammini?
Il problema della violenza ci ripropone con forza la scelta fatta da D. Bosco: la prevenzione. Non è la repressione che cambierà la persona e la società, ma il cambiamento interiore. Non per rimanervi, ma affinché questo giunga ad esprimersi in linguaggi, costumi, strutture e istituzioni nuove. Dobbiamo evitare di sostenere l’errore individuato con acutezza da Gandhi: «Credere che in un mondo con strutture adeguate l’uomo potrà vivere felice senza bisogno di essere buono».
Tutto si decide, dunque, nella nostra capacità di accompagnare i giovani.
Troppo spesso proponiamo risposte quando ci chiedono cammini. Arrivando da orizzonti molto diversi, non si aspettano la sicurezza di un porto al riparo di tutti i pericoli. Non ci chiedono neppure la descrizione del porto, ma di accompagnarli su un cammino di cui non conoscono ancora il termine: sanno che li attende un incontro che farà loro scoprire il meglio di loro stessi e il senso dell’avventura umana. Ciò che sperano, è una compagnia di ricerca e di disponibilità, non un armadio pieno di certezze. Vorrebbero incontrare dei magi sulla loro strada verso la stella, non gli scribi di Gerusalemme.
Troppo preoccupati delle verità da trasmettere, siamo poco sensibili all’attesa di coloro che non ci chiedono ancora che cosa bisogna credere ma che cosa significa credere. Noi partiamo da una tradizione da trasmettere, mentre bisognerebbe accompagnare una nascita. Chi di noi si sente così libero nella fede per osare la novità in una fedeltà creatrice al dono che abbiamo ricevuto?