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    Tesi per un corretto utilizzo delle emozioni in ambito educativo


    Educare le emozioni /10

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2010-01-77)


    Poi quel bambino si voltò, e contò le nostalgie
    scese dal palco e disse «No!
    Sono cose mie, solamente mie».
    (Roberto Vecchioni, Canzone per Laura)


    A chiusura e riassunto di questa rubrica presentiamo – sotto forma di tesi – alcuni consigli per chi volesse utilizzare le emozioni in campo educativo.

    1. Il lavoro con le emozioni non esclude o sostituisce il lavoro con la ragione: spesso sembra che si tenda a riproporre, sul versante opposto, la suddivisione in due dell’essere umano che certo iper-razionalismo pedagogico ha messo in campo in tempi non lontani; insomma, sembra che si passi da una eccessiva insistenza su una ragione disincarnata e non affettivizzata, una specie di fredda razionalità strumentale, a un’altrettanto insostenibile esaltazione di un mondo affettivo che vede di malocchio tutto quanto sia analisi, ragionamento, categorizzazione. Il risultato è ancora una volta un soggetto diviso in due, una specie di interruttore on-off (o Ac/Dc, se preferiamo citazioni più o meno musicali) da far scattare a seconda delle giornate o dell’identità dell’educatore.
    Occorre invece ribadire che proprio il lavoro sulle emozioni ci mostra un soggetto irrimediabilmente intero e al tempo stesso plurale, da affrontare in tutte le sue dimensioni, nessuna esclusa.

    2. Le emozioni provate sul campo educativo sono fittizie Dopo avere sgridato fortemente una classe per un compito mal riuscito una professoressa si sentì chiedere da un ragazzo: «Ma Lei è davvero arrabbiata con noi o fa finta?». Una domanda azzeccata: è assolutamente ovvio che la professoressa provava veramente un sentimento di rabbia o di delusione ma – questo il nostro parere e la nostra tesi – tanto più poteva comunicare rabbia quanto più lasciava la rabbia «vera» fuori dalla porta, o meglio la transustanziava in quella rabbia fittizia che è rabbia recitata, rabbia pedagogica.
    La cosa importante è da un lato che la finzione non scada in affettazione, dall’altro che il sentimento provato in campo educativo non sfondi sulla vita reale; il che significa che alla base delle relazioni educative ci deve essere comunque un sentimento vero, perché proprio in quanto fondata comunque sulla vita la professione educativa suscita affetti ed emozioni reali; tutto questo significa inoltre che queste emozioni non possono essere lasciate al libero fluire della vita reale, ma devono in qualche modo essere modificate – come tutto quanto viene modificato entrando nel cerchio magico dell’educazione – e rese adatte al ruolo e al contesto. Questo comporta per l’educatore/trice la capacità di separare i sentimenti reali da quelli vissuti nella vita professionale, dunque una sorta di «igiene mentale» che limiti per quanto possibile ogni sfondamento dalla/nella vita reale; e inoltre, la capacità di adattare l’espressione del sentimento provato al contesto specifico nel quale deve essere espresso: comunicare la propria rabbia a una classe di ragazzini è differente dall’esprimerla a un gruppo di anziani, a una comunità di tossicodipendenti (e perché no, alla propria équipe di colleghi/e).

    3. Le emozioni devono essere ancorate a un oggetto. Pierino deve amare/odiare l’allenatore di calcio? Posto che ovviamente la situazione peggiore è quella in cui Pierino è talmente indifferente al suo allenatore da non ricordarne nemmeno il nome, la nostra speranza è però che il ragazzino arrivi ad amare il calcio proposto dal suo mister; il che rientra nella nostra idea di necessaria triangolazione delle emozioni in ambito educativo.
    L’amore dell’allievo per il suo educatore, e viceversa, non è libero come l’amore di coppia o come l’affetto amicale; è vincolato al motivo che ci ha chiamati qui oggi, e conta poco che questo sia il congiuntivo da ripassare, lo schema per battere il corner da imparare o la Prima Comunione da preparare. È sugli oggetti (intesi in senso ampio: la Divina Commedia è un oggetto) che si riversano le emozioni e gli affetti di educandi ed educatori/trici, ed è attraverso di essi che il loro libero fluire viene in qualche modo interrotto e riportato con i piedi per terra. Se tu sei il mio allenatore, io sono qui per imparare da te il calcio, non (solo) perché ti voglio bene; anzi, non solo imparerò il calcio proprio perché ti voglio bene, ma soprattutto vorrò bene al calcio perché me lo hai insegnato tu.
    Uno degli elemento di più profonda crisi della scuola è la difficoltà ad operare questa triangolazione in senso positivo: si sentono i ragazzi dire che odiano la matematica perché gliela insegna la prof. X e che amano il prof. Y perché è gentile, simpatico, premuroso a prescindere da quello che insegna. Ci scusino gli emuli del collega Y, ma per noi si tratta di due fallimenti educativi e didattici, due posizioni dogmatiche che finiscono con l’alimentarsi a vicenda.

    4. Tutte le emozioni possono essere mobilitate, ma alcune emozioni o alcune modalità di espressione delle emozioni vanno incontro a un interdetto.
    È perlomeno curioso che quando si parla di emozioni e affetti in educazione si sottolineino sempre gli affetti positivi: la paura, la delusione, la noia sembrano non avere diritto di cittadinanza in un progetto educativo; con il risultato che – scacciate dalla porta – rientreranno dalla finestra, vanificando una visione troppo idillica e rosea delle relazioni umane.
    Ma è anche necessario ribadire che non tutti gli affetti rientrano nel campo di azione di un processo e di un progetto educativo; non nel senso che alcuni ne sono esclusi «di diritto», ma nel senso che occorre concentrarsi solamente su alcuni affetti, magari anche uno solo per volta.
    Vi saranno allora in ogni istituzione educativa, in ogni progetto, manifestazioni di affetti che verranno sanzionate, vietate, evitate: occorrerà capire quanto, e come.
    Per quanto ci si sforzi di compiere una operazione illuministica, vi saranno comunque codici affettivi sotterranei all’interno della istituzione: occorre sempre capire e far capire ai ragazzi e alle ragazze come si configura e quanto è esteso l’universo dei tabù affettivi e quali dimensioni comporta: posso piangere? Cosa faccio se ho paura? Posso dare una carezza al mio educatore? È da queste domande di senso che partono i ragazzi quando si relazionano ai nostri progetti educativi, ed è a queste domande di senso che occorre risponder anche ponendo dei limiti e proponendo dei tabù.[1]

    5. Occorre sempre privilegiare la verbalizzazione delle emozioni, in quanto non c’è lavoro sulle emozioni senza restituzione ed elaborazione. Portare le persone a passeggiare a piedi nudi nei prati sotto la luna è un’operazione pedagogica? Crediamo di no; almeno se poi non si aiutano le medesime persone a verbalizzare, discutere, categorizzare le sensazioni, gli stati d’animo, le emozioni e i sentimenti che hanno provato, a partire dal chiarimento attorno alla differenza che intercorre tra questi quattro moti dell’anima.
    Insomma, crediamo che le emozioni in educazione debbano essere al servizio di un progetto di crescita e di condivisione; e non vale nulla dire che «le emozioni non sono razionalizzabili» perché qui ad essere sottoposte ad analisi e categorizzazione non sono le emozioni di per sé ma la situazione e l’evento che le hanno suscitate, il proprio modo di viverlo e soprattutto il processo formativo che sta alle spalle di tutto quanto. Se la passeggiata a piedi nudi non si inserisce in un progetto pedagogico rigorosamente monitorato, allora sinceramente non c’è proprio bisogno di un educatore; basta togliersi le scarpe e sperare nella momentanea assenza di ortiche e zanzare.

    6. Le emozioni dell’educatore sono su un livello diverso rispetto alle emozioni degli educandi. Questo perché l’educatore stesso è su un livello diverso rispetto agli educandi; non su un livello migliore, solo diverso. È diverso il livello di potere, di consapevolezza rispetto alle dinamiche in atto, di capacità di guidare i singoli e il gruppo attraverso il percorso educativo. Nessuna retorica pedagogica o antipedagogica può convincerci che non vi siano differenze strutturali e ineliminabili tra educatori ed educandi.
    Nello specifico del lavoro sulle emozioni, sono gli educandi che hanno il diritto di vedere le loro emozioni prese in carico dall’educatore e in nessun caso questo diritto è ribaltabile; il che significa che l’educatore farebbe bene a tenere per sé le storie delle sue paure, dei suoi divorzi e dei suoi complessi di Edipo, ad operare una vera e propria consegna del silenzio sulle proprie emozioni, a meno che queste siano del tutto fittizie e recitate, come detto sopra.
    Sono altri gli ambiti nei quali l’educatore o l’educatrice possono veder presi in carico i loro affetti, ambiti di formazione in servizio o di supervisione: nel box proponiamo un esempio di lavoro di questo tipo

    7. Infine: il rispetto del pudore è la prima e l’ultima regola per un lavoro sulle emozioni.
    Il professor Keating che costringe i ragazzi a scrivere la poesia e dice anche a Todd: «So benissimo che questo compiuto le suscita ansia» è da cacciare dalla scuola; non perché faccia salire i ragazzi in piedi sui banchi o strappi le pagine dei libri, ma perché gioca indecentemente con i sentimenti e le emozioni dei ragazzi. Non perché è troppo radicale ma perché lo è troppo poco, e non capisce che il pudore e il silenzio sono opzioni di resistenza rivoluzionarie. Davanti a ogni pretesa dell’educatore di sfondare il muro che ogni ragazzo o ragazza frappone tra sé e chi vuole leggere dentro la sua anima, è assolutamente legittima e auspicabile la risposta «No! Sono cose mie. Solamente mie».

    Una esercitazione

    Dopo avere proposto esercitazioni per ragazzi e ragazze, in questo articolo conclusivo proponiamo invece una esercitazione che possa servire da riflessione per educatori ed educatrici sul tema delle emozioni. Si scelga a caso (magari lanciando un dado) uno o più tra i sentimenti elencati nella tabella qui sotto (i riquadri possono essere ritagliati in modo da ottenere delle carte da gioco utili anche per altre attività.

    Gioia

    Allegria

    Paura

    Rabbia

    Compassione

    Terrore

    Orrore

    Malinconia

    Noia

    Spavento

    Impotenza

    Frustrazione

    Speranza

    Depressione

    Felicità

    Divertimento

    Spensieratezza

    Delusione

    Si reciti poi l’espressione del sentimento scelto ambientandola in differenti contesti educativi e professionali («quella volta che ho provato delusione in ambito educativo, in qualità di educatore/trice») e si confronti la propria recita con quelle di altri colleghi e colleghe. Il gioco può anche essere utilmente abbinato a una narrazione intitolata «Quella volta che ho provato…», che porti a confrontare il sentimento espresso nella vita reale con quello recitato nei contesti educativi.

    NOTE

    [1] Nonostante sia passato un secolo dalla pubblicazione di Totem e tabù di Freud, è incredibile quanto la parola «tabù» sia ancora intesa in senso meramente negativo e quanto si fatichi a capire come i tabù siano inevitabili ed essenziali in ogni contesto civilizzato e soprattutto in ogni progetto educativo: in questo caso ovviamente come tabù che prevedono il loro essere sfatati.


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