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    Le colonne dell’umano. Le “dieci parole” o Decalogo: una introduzione



    Carmine Di Sante

    (NPG 04-01-14)


    L’evento del Sinai

    “Durante la rivelazione di Dio sul Sinai il mondo intero restò immoto: sole, luna e stelle non si mossero dal loro posto, non soffiò un alito di vento, nessun animale si mosse, né l’uccello né l’aria, né il pesce nell’acqua, né l’animale domestico nel campo. Gli uccelli non cinguettavano, nessun bove muggiva. Persino le onde e i flutti del mare si trattennero. Non si udiva alcun suono. E in questo silenzio le parole di Dio pervasero l’intero universo: ‘Io sono il Signore, Dio tuo’” (I. Z. Kanner, Fiabe ebraiche, Mondadori, Milano 1991, pp. 61-63).
    Il rivelarsi di Dio sul Sinai è evento, cioè indeducibile dalla trama delle causalità umane, siano queste il passato, l’inconscio, il desiderio, la dialettica o l’evoluzione. Il midrash, la storia rabbinica sopra riportata per la quale il mondo intero vi partecipa attonito, è messa in una luce di questa dimensione di evento o evenemenziale, di fronte al quale tutto il creato, dalla luna alle stelle all’aria agli uccelli ai pesci agli animali domestici e al bue, si sente coinvolto e resta senza fiato, perché ciò a cui assiste non si iscrive in nessuna profondità delle sue viscere. La rivelazione di Dio sul monte Sinai – di cui la consegna delle tavole a Mosè scritte sulla pietra sono il simbolo per eccellenza depositato nell’immaginario occidentale attraverso l’iconografia classica e, con l’invenzione del cinema, attraverso l’immagine filmica – è lo svelarsi di un Dio di fronte al quale l’uomo è impotente; e a parlare non è la sua ragione poetica, filosofica o scientifica, ma Dio che, per questo non più oggetto ma soggetto, a lui si rivela, dicendo chi egli sia e soprattutto cosa egli voglia.
    “I dieci comandamenti” o “le dieci parole”, come vuole più coerentemente la tradizione ebraica, sono il cuore della rivelazione biblica ed essi – più che una parte, foss’anche la più importante, delle scritture ebraiche – ne rappresentano la totalità e ne sono il cuore. Ne sono la pars pro toto, quella parte che non si pone contro il resto né lo esclude ma lo esige e lo include. “I dieci comandamenti” o “le dieci parole” sono la sintesi o “breviario” della rivelazione biblico-ebraica, dove, in forma concisa ed essenziale, si dice chi sia e cosa voglia il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Mosè e di Gesù.
    Che è il Dio di Adam e di Eva, cioè dell’Uomo e della Donna, di ogni uomo e di ogni donna di tutti i tempi. E che allo stesso modo è il Dio del cielo e della terra, dei mari e delle montagne, come vogliono i primi capitoli della Genesi.
    Le pagine che seguono (e la rubrica che ne prende le mosse) sono una reinterrogazione di queste “dieci parole”, nella convinzione che in esse si cela la grandezza del monoteismo ebraico, che l’originalità cristiana non trascende ma suppone, e che esse sono le grandi parole fondative dell’umano che ne svelano il senso e ne additano l’incommensurabile altezza e dignità. Questa reinterrogazione è e vuole essere nuova interrogazione alla luce dei problemi di fronte ai quali si trova l’uomo spaesato dell’inizio del nuovo millennio che in poco tempo ha assistito incredulo al crollo di tutti i grandi racconti ai quali attingere parole di orientamento. E sarà fatta indagando ciascuna di queste “dieci parole” le quali custodiscono il senso e il segreto dell’umano. L’introduzione che segue come premessa è chiarificazione e proposta di chiavi di lettura per meglio ascoltare e penetrare la musica che risuona da queste impensabili e insondabili parole.

    “I dieci comandamenti”

    Nella tradizione cristiana le due tavole consegnate da Dio a Mosè sul monte Sinai sono note come “Decalogo” o “i dieci comandamenti”, a differenza della tradizione ebraica la quale preferisce “le dieci parole”. Nel testo biblico il termine più noto e reso immortale dalla iconografia è quello delle “tavole della Legge”, che Dio incide sulla pietra, o “tavole della Testimonianza”, nel senso che attestano e visibilizzano ciò che è accaduto tra Dio e Mosè nel silenzio impenetrabile del monte Sinai, dove Dio si è rivelato e ha parlato alla presenza solo del suo profeta.
    Queste due espressioni – “tavole della Legge” o “tavole della Testimonianza” – nella bibbia vengono continuamente ribadite: sia quando Mosè viene invitato da Dio a salire sul Sinai [“Il Signore disse a Mosè: ‘Sali verso di me sul monte e rimani lassù: io ti darò le tavole di pietra, la legge e i comandamenti che io ho scritto per istruirli [i figli di Israele]’” (Es 24,12)], sia quando vi discende [“Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra scritte dal dito di Dio” (Es 31,18)], sia quando vengono infrante per la disobbedienza del popolo che, in attesa del ritorno di Mosè, non fidandosi più del Dio liberatore che lo aveva sottratto alla schiavitù d’Egitto, aderisce ad un altro dio costruendosi il “vitello d’oro”, simbolo di divinità naturalistiche [“Mosè ritornò e scese dalla montagna con in mano le tue tavole della Testimonianza, tavole scritte sui due lati, da una parte e dall’altra. Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole” (Es 32,15-16)], sia quando Mosè ottiene il perdono da parte di Dio per il peccato del vitello d’oro [“Il Signore disse a Mosè: ‘Taglia due tavole di pietra come le prime. Io scriverò su queste tavole le parole che erano sulle tavole di prima, che hai spezzate. Tieniti pronto per domani mattina: domani mattina salirai sul monte Sinai e rimarrai lassù per me in cima al monte. Nessuno salga con te e nessuno si trovi sulla cima del monte e lungo tutto il monte; neppure armenti o greggi vengano a pascolare davanti a questo monte’. Mosè tagliò due tavole di pietra come le prime; si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano” (Es 34, 1-4)].
    Ciò che colpisce in questi testi è l’insistenza sull’iniziativa di Dio, non solo perché è lui a chiamare Mosè per rivelarglisi sul monte Sinai, ma soprattutto perché è sempre lui a dettargli la modalità di “fissaggio” su tavole di pietra del suo volere: “Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole” (Es 32,16). Tutto è opera di Dio: le tavole di pietra e la scrittura incisa sulle tavole di pietra.
    Dio vuole che il suo volere sia consegnato alla scrittura, che, a differenza della trasmissione orale, garantisce maggiore sicurezza e fedeltà, essendo sottratta alla fragilità della memoria umana, e vuole che sia incisa su tavole di pietra che, a differenza di ogni altro materiale, non è deperibile e attraversa indenne il tempo. Scrittura e incisione della scrittura nella pietra: più che semplici annotazioni descrittive e fattuali sono, per il testo biblico, modalità di annuncio che la voluntas Dei, che si rivela sul monte Sinai e che Mosè accoglie e raccoglie dandogli forma linguistica, è evento che accade nella storia ma non proviene dalla storia, dalle sue profondità o dai suoi abissi e, se non proviene dalla storia, neppure di questa subisce lo scacco o il deperimento, per cui essa vi resta salda, come la roccia stessa del monte Sinai.
    A. Chouraqui, il celebre scrittore ebreo di origine algerina, nel suo recente libro dedicato a “I dieci comandamenti” scrive: “Nell’umile sinagoga della mia città natale di Aïn Témouchant, in Algeria, i dieci comandamenti erano scritti a lettere d’oro su due tavole di legno di quercia appese sopra l’armadio che conteneva i rotoli della Torah.
    Come tutti gli altri bambini ebrei, imparavo a memoria le dieci Parole centrali, le cui 620 lettere ebraiche, disposte su due colonne allineate, danzavano davanti ai miei occhi, affascinandomi. Rimanevo estasiato davanti a quelle dieci Parole che riassumono tutto ciò che l’uomo può comprendere e auspicare per l’universo” (I dieci comandamenti, Mondadori, Milano 2001, p. 7).
    Di queste parole scritte “a lettere d’oro su tavole di legno di quercia appese sopra l’armadio che conteneva i rotoli della Torah”, se l’uomo occidentale, indifferente e secolarizzato, non può averne un ricordo estasiato come l’ebreo Chouraqui, può però forse custodirne una traccia che, nascosta nelle profondità della sua coscienza o del suo immaginario, può sempre di nuovo tornare a parlare.

    Il numero e la classificazione

    Che i comandamenti siano dieci è attestato esplicitamente dal libro del Deuteronomio nel primo discorso che Mosè rivolge al popolo al quale ricorda la rivelazione dell’Oreb (un altro nome che sta per il Sinai e che per la scuola di Wellhausen apparterebbe alla tradizione elohista e deuteronomistica) e le sue esigenze: “[Sull’Oreb Dio] vi annunciò la sua alleanza, che vi comandò di osservare, cioè i dieci comandamenti, e li scrisse su due tavole di pietra”; e ugualmente nel secondo discorso nel quale, sempre al popolo, viene ricordata l’alleanza tradita e successivamente ricostituita: “In quel tempo il Signore mi disse: ‘Tagliati due tavole di pietra simili alle prime e sali da me sul monte e costruisci anche un’arca di legno; io scriverò su quelle tavole le parole che erano sulle prime che tu hai spezzato e tu le metterai nell’arca. Io feci dunque un’arca di legno d’acacia e tagliai due tavole di pietra simili alle prime; poi salii sul monte con le due tavole in mano. Il Signore scrisse su quelle tavole la stessa iscrizione di prima, cioè le dieci parole che il Signore aveva proclamato per voi sul monte, in mezzo al fuoco” (Dt 10,4).
    Considerando però che il testo ebraico non conosce la separazione delle parole e tanto meno la numerazione dei versi o capoversi, testualmente non è facile risalire esattamente al numero dieci. Il capitolo 20 dell’Esodo, in cui si ha la prima formulazione del decalogo, e lo stesso capitolo 5 del Deuteronomio, in cui si ha la seconda formulazione, sembrano far pensare ad un numero di dodici, secondo questo ordine:

    1. “Non avrai altri dèi di fronte a me” (Es 20, 3;).
    2. “Non ti farai idolo né immagine alcuna” (Es 20, 4).
    3. “Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai” (Es 20,5).
    4. “Non pronuncerai invano il nome del Signore” (Es 20,7).
    5. “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo” (Es 20,8).
    6. “Onora tuo padre e tua madre” (Es 20, 12).
    7. “Non uccidere” (Es 20, 13).
    8. “Non commettere adulterio” (Es 20,14).
    9. “Non rubare” (Es 20, 15).
    10. “Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo” (Es 20, 16).
    11. “Non desiderare la casa del tuo prossimo” (Es 20, 17).
    12. “Non desiderare la moglie del tuo prossimo” (Es 20, 17b).

    Ma come giustificare allora il numero dieci di cui parla la bibbia stessa?
    Per Filone d’Alessandria e Giuseppe Flavio, due contemporanei di Paolo di Tarso, il primo comandamento coinciderebbe con l’ordine di avere un solo Dio, il secondo con la proibizione di farne delle immagini, il terzo e il quarto con la prescrizione di non pronunciarne il nome invano e di santificarne il nome. Quelli che vanno dal quinto al nono costituirebbero gli altri cinque, mentre l’undici e il dodici formerebbero insieme il decimo, cioè l’ultimo. Secondo questa numerazione, i primi quattro comandamenti riguarderebbero il rapporto tra Dio e l’uomo, mentre i restanti sei quello tra l’uomo e l’uomo.
    Questa soluzione dei due pensatori ebrei non venne però accettata dall’ebraismo ufficiale, rabbinico e talmudico, il quale impose una diversa numerazione divenuta canonica nella tradizione ebraica, e suddivisa in modo tale che le prime cinque parole o comandamenti riguardano il rapporto tra l’uomo e Dio, mentre le altre cinque il rapporto tra l’uomo e il prossimo.
    La tradizione cristiana accetta la classificazione rabbinica ma vi introduce una duplice differenza, riducendo a uno solo i primi due comandamenti e, per ottenere sempre il numero dieci, suddividendo in due l’ultimo.
    Quanto alla tradizione cristiana, c’è ancora da precisare che essa, soprattutto a partire dal Concilio di Trento, in cui si afferma la pratica dei “catechismi” popolari, di brevi sunti o riassunti delle verità cristiane da meditare e memorizzare facilmente, pur ispirandosi sostanzialmente alle formulazioni del linguaggio biblico, a volte le semplifica o “cristianizza”. Valga come esempio il terzo comandamento, che nella tradizione ebraica è considerato come quarto, in cui “ricordati del giorno di sabato, per santificarlo…” è trasformato in “ricordati di santificare le feste”, cioè le feste cristiane, a partire da quella che è la festa per eccellenza, la domenica del messia morto e risorto (cf Catechismo della Chiesa cattolica, 1992).

    1. I. “Adorerai il Signore Dio tuo e lo servirai”;
    II. “Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai”;
    III. “Non avrai altri dèi di fronte a me”;
    IV. “Non ti farai alcuna immagine scolpita”.
    2. I. Il nome del Signore è santo;
    II. Il nome di Dio pronunciato invano;
    III. Il nome cristiano.
    3. I. Il giorno di sabato;
    II. Il giorno del Signore.
    4. I. La famiglia nel piano di Dio;
    II. La famiglia e la società;
    III. Doveri dei membri della famiglia;
    IV. La famiglia e il Regno;
    V. Le autorità nella società civile.
    5. I. Il rispetto della vita umana;
    II. Il rispetto della dignità delle persone;
    III. La difesa della pace.
    6. I. “Maschio e femmina li creò”;
    II. La vocazione alla castità;
    III. L’amore degli sposi;
    IV. Le offese alla dignità del matrimonio.
    7. I. La destinazione universale e la proprietà privata dei beni;
    II. Il rispetto delle persone e dei loro beni;
    III. La dottrina sociale della Chiesa;
    IV. L’attività economica e la giustizia sociale;
    V. Giustizia e solidarietà tra le nazioni;
    VI. L’amore per i poveri.
    8. I. Vivere nella verità;
    II. “Rendete testimonianza alla verità”;
    III. Le offese alla verità;
    IV. Il rispetto della verità;
    V. L’uso dei mezzi di comunicazione sociale,
    VI. Verità, bellezza e arte sacra.
    9. I. La purificazione del cuore;
    II. La lotta per la purezza.
    10. I. Il disordine delle cupidigie;
    II. I desideri dello Spirito;
    III. La povertà del cuore;
    IV. “Voglio vedere Dio”.

    Il contenuto e la struttura

    Piccola “summa” (la parte più alta o vertice) o “breviario” (compendio che si consulta facilmente) della bibbia ebraica, il decalogo si organizza intorno a due nuclei irriducibili e inseparabili: ciò che l’uomo deve a Dio, e ciò che deve all’altro; ciò che deve a quell’altro da sé che è Dio, e ciò che deve a quell’altro da sé che è il prossimo. I comandamenti sono l’istituzione di un “vincolo” paradossale che è assenza di costrizione, apertura di una libertà che è vera libertà e responsabilità nei confronti dell’alterità divina e dell’alterità umana. “Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto”: con queste parole Dio si autopresenta ad Israele e giustifica la sua “pretesa” di avere l’uomo per sé (“non avrai altri dèi di fronte a me”, “non pronuncerai invano il mio nome”, “ricordati del giorno di sabato”) e di comandargli l’amore all’altro (“onora tuo padre e tua madre”, “non uccidere”, “non commettere adulterio”, “non rubare”, “non pronunciare falsa testimonianza”, “non desiderare la moglie del tuo vicino…”).
    Se Dio rivendica la signoria sull’uomo (“Io sono il Signore tuo Dio”), il senso di questa rivendicazione è non di avere l’uomo per sé ma di inviarlo al prossimo, istituendolo responsabile della sua alterità. E. Lévinas ha scritto: “Il rapporto con il divino attraversa le relazioni con gli uomini e coincide con la giustizia sociale: ecco l’intero spirito della bibbia ebraica. Mosè e i profeti non si preoccupano dell’immortalità dell’anima ma del povero, della vedova, dell’orfano e dello straniero. Il rapporto con l’uomo in cui si realizza il contatto con il divino non è una sorta di amicizia spirituale, ma quella che si manifesta, si sperimenta e si realizza in un’economia giusta e di cui ogni uomo è pienamente responsabile” (E. Lévinas, Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, Editrice La Scuola, Brescia 1986, p. 76. La traduzione qui offerta è stata in parte rivista).
    Dio vuole l’uomo per sé per istituire tra gli uomini un vincolo d’amore che – giustizia e fraternità – è, come quello divino, benevolenza, bontà, gratuità e disinteressamento. Se ai nostri orecchi suona strano che, per amare, sia necessario, all’uomo, il comandamento divino, ciò proviene dal dare per scontato che egli sia socievole naturalmente, secondo il grande racconto aristotelico che lo vuole come “animale politico”, cioè sociale, ma che, con l’avvento della modernità, Hobbes ha smascherato come fabula, come racconto privo cioè di ogni fondamento, essendo per lui, secondo la celebre formula, homo homini lupus.
    Né socievole né lupesco per dotazione interna, per la bibbia l’uomo è naturalmente solo un essere per sé che, come ogni essere, dal filo d’erba, alla formica, al serpente, all’elefante, vuole essere e persistere con tutte le sue forze nel suo essere, prendendo e servendosi di ogni altro essere, in quella lotta senza inizio e senza fine che porta il nome di mors tua vita mea (la mia vita coincide con la tua morte). Da questa legge dell’essere e di ogni essere, che, a seconda dell’osservatore, può apparire come armonia o giungla, si fuori-esce solo attraverso il comandamento e, per la bibbia, dio è Dio perché, comandando, realizza questa fuori-uscita istituendo il nuovo spazio o orizzonte della bontà, gratuità e disinteressamento, dove essere non è più essere per sé ma per l’altro.
    Organizzati intorno ai due nuclei tematici di ciò che l’uomo deve all’altro da sé, Dio, e all’altro da sé, il prossimo, il termine che riempie di contenuto questo “deve” è l’amore. Ciò che l’uomo deve a Dio è l’amore, e ciò che deve al prossimo è ancora l’amore. L’amore – l’unico duplice amore per Dio e per il prossimo – è il contenuto non solo dei comandamenti ma di tutta la bibbia, come vuole Gesù rispondendo al dottore della legge: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti” (Mt 22, 37-39).
    Il primo nucleo tematico dei dieci comandamenti riguarda l’amore dell’uomo per Dio, riconoscendone la signoria, non rinnegandolo con falsi idoli, non pronunciandone invano il nome e santificandolo il giorno di sabato; mentre il secondo riguarda l’amore per il prossimo, partendo da coloro ai quali dobbiamo il miracolo dell’esistenza (“onora tuo padre e tua madre”) e attraverso i quali questo miracolo si tramanda (“non commettere adulterio”), fino ad includere ogni altro del quale custodirne la vita (“non uccidere”) attraverso il rispetto delle cose (“non rubare”), la trasparenza della parola (“non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo”) e l’autolimitazione del desiderio che, lasciato a se stesso, è principio di violenza (“non desiderare la moglie del tuo vicino… né alcuna cosa”).
    Oltre ai due nuclei tematici intorno ai quali i dieci comandamenti sono organizzati, va colto anche il nesso profondo tra i due. Amare Dio e amare il prossimo non sono due momenti separati che corrono accanto come linee parallele, ma l’uno l’esplicitazione dell’altro. Per la bibbia amare Dio non è amarlo oggettualmente, come termine del proprio eros o desiderio, ma volere quello che egli vuole, ed egli vuole che l’io – ogni io – ami il prossimo gratuitamente e disinteressatamente, superando la logica dell’essere e della persistenza nel proprio essere, la logica di ogni essere, e aprendosi alla logica della bontà o gratuità, altra dalla natura e altrimenti che essere. Se i primi quattro comandamenti, che riguardano Dio, sono il rivelarsi del suo amore gratuito che chiede di essere riconosciuto incondizionatamente, gli altri sei, riguardanti l’uomo, sono le aree costitutive dell’umano dove questo amore gratuito e disinteressato è chiamato a incarnarsi: il rapporto con l’origine (“onora tuo padre e tua madre”), il rapporto con la prossimità dell’altro in quanto altro (“non uccidere”), il rapporto con l’enigma della sessualità (“non commettere adulterio”), il rapporto con la parola (“non pronunciare falsa testimonianza”), il rapporto con le cose (“non rubare”) e il rapporto, infine, con la propria potenza desiderativa (“non desiderare”).
    Amare Dio è introdurre nell’umano, di cui l’origine, la prossimità, la sessualità, la parola, le cose e il desiderio sono come le grandi volte architettoniche, un al di là dell’umano che è la gratuità divina o bontà, che dell’umano è il senso ultimo e unico. Amare Dio è far scendere Dio sulla terra per trasfigurare questa in luogo di giustizia e di pace, dove, come si prega nella preghiera del Padre Nostro, la volontà di Dio, che è fatta in cielo, sia fatta anche sulla terra.
    Si è già notato che, per la bibbia, i dieci comandamenti vengono incisi su due tavole di pietra, cinque da una parte e cinque dall’altra, e che, per la tradizione ebraica, i primi cinque riguardano l’amore a Dio (l’“onora tuo padre e tua madre” può essere letto come riferito a Dio il cui potere creatore si riflette, partecipato, in ogni padre e in ogni madre!), mentre gli altri cinque l’amore al prossimo. Tenendo conto di questa disposizione, sempre la tradizione ebraica ama mettere in relazione i cinque comandamenti della prima tavola con quelli della seconda, facendo così corrispondere il primo comandamento con il sesto, il secondo con il settimo, il terzo con l’ottavo, il quarto con il nono e il quinto con il decimo.
    In questa ottica al primo comandamento: “Io sono il Signore tuo Dio” corrisponde il sesto: “Non uccidere”. Straordinaria connessione che l’esegesi rabbinica così interpreta: “ ‘Non uccidere’ significa: ‘non uccidere il modo particolare in cui l’eterno tuo Dio si è rivelato, e ha detto io sono’. Così dunque il secondo comandamento potrebbe essere tradotto: Non ucciderai ‘l’io sono’” (M.-A. Ouaknin, Le Dieci Parole. Il decalogo riletto e commentato dai Maestri ebrei antichi e moderni, Editrice Paoline, Milano, 2001, p. 135). Mirabile insegnamento che identifica il teologico (“io sono il Signore tuo Dio”) con l’etico (“non uccidere”) e fa dell’etico (“non uccidere”) il luogo originario del divino dove Dio si rivela come comandamento nel volto dell’altro o prossimo che, “l’unico” e “l’assoluto”, di Dio è traccia nella storia.
    Letti insieme i due comandamenti si cointerpretano, e producono un di più di senso per il quale – altezza e priorità dell’etico! – uccidere un uomo è come uccidere “l’io sono”, cioè l’unico e l’Eterno!

    Il comandamento e la libertà

    L’affermazione che il Dio biblico si rivela come comandamento suona incomprensibile e scandaloso per chi, nel pensiero moderno e soprattutto postmoderno, fa coincidere la libertà con l’autonomia, con l’io che si autointerpreta come legge (nomos) a se stesso (autos) e fa pertanto della libertà la definizione stessa dell’umano.
    Stranamente per la bibbia il comandamento, lungi dall’essere in contraddizione con la libertà, è la potenza capace di instaurarla, per cui – altro paradosso dal quale lasciarsi sorprendere e assumere come compito da pensare – esso non solo è dono ma, tra i doni, il più grande, come vuole sempre la tradizione ebraica, per la quale l’evento del Sinai è evento di donazione della Torah o Legge, e la festa di pentecoste, una delle più grandi feste annuali, ne è il memoriale.
    Perché, si chiedono i maestri della Torah, Israele nella scrittura è paragonato ad una colomba? E uno di loro risponde: “Quando Dio creò la colomba, questa tornò dal suo creatore e si lamentò: ‘O Signore dell’universo, c’è un gatto che mi corre sempre dietro e vuole ammazzarmi e io devo correre tutto il giorno con le mie zampe così corte’. Allora Dio ebbe pietà della povera colomba e le diede due ali. Ma poco dopo la colomba tornò un’altra volta dal suo creatore e pianse: ‘O Signore dell’universo, il gatto continua a corrermi dietro e mi è così difficile correre con le ali addosso. Esse sono pesanti e non ce la faccio più con le mie zampe così piccole e deboli’. Ma Dio le sorrise dicendo: ‘Non ti ho dato le ali perché tu le porti addosso, ma perché le ali portino te’. Così è anche per Israele, commenta il rabbi, al quale, quando si lamenta dei comandamenti e della Torah, Dio risponde: ‘Non vi ho dato la Torah perché sia per voi un peso e perché la portiate, ma perché la Torah porti voi’” (M. Cunz, Credibilità della chiesa come impegno di stile ecumenico, in AA. VV., La credibilità delle chiese e il Bem, Atti della XXII Sessione di formazione ecumenica organizzata dal Sae, Dehoniane, Napoli 1984, pp. 33-34).
    Dio, che consegna ad Israele i dieci comandamenti in rappresentanza dell’umano, non impone una catena che limita il proprio movimento, ma fa dono di ali che, metafora per eccellenza della libertà, permettono di volare.
    Per lasciarsi sorprendere dal dono di senso del paradosso biblico di un comandamento che instaura la libertà o, in altri termini, di una eteronomia che istituisce l’autonomia – paradosso che per il pensiero greco e per la modernità suona come contraddizione insostenibile – sono necessarie delle chiarificazioni che ne orientino la corretta interpretazione.
    La prima riguarda il soggetto del comandamento. A comandare l’uomo, per la bibbia, è solo Dio, e ogni altro che ne pretendesse il posto e rivendicasse di rappresentarlo – fosse il sacerdote, il re, il profeta, il carismatico o qualsiasi altro – ne sarebbe un usurpatore e più che l’obbedienza meriterebbe la denuncia. Il rifiuto del Dio biblico da parte della modernità e la cosiddetta morte di Dio annunciata da Nietzsche, più che il Dio della bibbia riguarda il Dio delle istituzioni e dei poteri che, tentazione ricorrente, di Dio si sono serviti piuttosto che servirlo. Affermare la signoria di Dio – il Dio signore unico dell’uomo che lo comanda – è sottrarre l’uomo ad ogni dominio e potere mondano e aprirgli lo spazio della libertà. Perché, come voleva Lutero, servire Deo regnare est.
    La seconda chiarificazione riguarda il contenuto del comandamento che è l’amore. Se Dio comanda, ciò che egli comanda è di amare il prossimo. Solo questo, l’amore al prossimo, è il contenuto del comandamento. Dio non comanda di credere nella creazione ex nihilo, nella sopravvivenza dopo la morte, nel mistero trinitario o in chissà quale verità astratta, ma che il prossimo – quello che mi è il più vicino – va amato. E se anche qui al nostro orecchio suona strano pensare all’amore come comandamento, è perché troppo facilmente l’amore viene identificato con l’amore di desiderio. Ma per la bibbia l’amore di desiderio è solo una figura dell’amore che raggiunge l’altro solo là dove l’altro è, per l’io, desiderabile, ma che lo ignora là dove l’altro è altro, nella sua alterità, irriducibile. Per questo, per la bibbia, l’amore può essere solo comandato: non l’amore di desiderio, che tende verso l’altro spontaneamente, ma l’amore di alterità, che è libera scelta e volontà di bene o bene-volenza.
    La terza chiarificazione riguarda il concetto di libertà, il mito fondante della modernità e l’unico “racconto” che, nel caduta dei racconti, ancora persiste. Per questo racconto, il racconto del mito della libertà moderna, l’uomo non solo è come un io che, dimentico di essere stato generato, si autogenera (il celebre cogito cartesiano), ma è soprattutto un io che naturalmente e razionalmente (dove il razionalmente ritrascrive il naturalmente sul piano concettuale!) va verso la propria realizzazione o automanifestazione, sia questa quella della natura, della storia, dell’essere o della vita eterna. Al di là della concezione della libertà come spontaneità, la bibbia lascia intravedere la libertà come decisione: non però la decisione tra le inesauribili possibilità dell’io che gli si dispiegano dinanzi, di fronte alle quali egli sceglie, e non può non scegliere, se non quelle più se-ducenti e at-traenti, bensì la decisione tra le possibilità dell’io, qualunque esse siano, e ciò che non proviene dall’io ma all’io si offre come possibilità altra dalle altre e nuova possibilità. Non la scelta dell’io tra le possibilità che gli si rivelano, bensì la scelta tra l’io e l’istanza che lo trascende e lo comanda, la scelta tra l’io e Dio, tra il desiderio del primo, mosso dalla volontà di essere e di persistere nel suo essere, e la voce imperativa del secondo che, con la forza della sua parola che chiama incondizionatamente, dischiude all’io un nuovo orizzonte, quello della bontà, della santità, della gratuità e del disinteressameto, per il quale decidersi liberamente con il sì o con il no.
    Lungi dall’essere limitativo della libertà umana, per la bibbia il comandamento divino – voce esterna e trascendente che comanda l’io incondizionatamente – è il solo capace di instaurarla veramente: non come spontaneità né come fine, ma come decisione e responsabilità. Al di fuori del comandamento la libertà umana sarebbe solo sinonimo di spontaneità dove l’io, tra le pluralità di scelte che gli si offrono, sceglie quella che, per lui, è la più appagante. Ma una libertà dove la scelta è scelta del valore più appagante, una libertà che, come vuole l’interpretazione agostiniana, è “delectatio victrix”, “seduzione vittoriosa”: più che affermazione della libertà “ne è una elegante soppressione” (cf A. Rizzi, Cristo verità dell’uomo. Saggio di cristologia fenomenologica, Ave, Roma 1972, p. 59).
    Il comandamento divino non solo instaura la libertà – che è vera libertà – come de-cisione, come slegamento (è questo il significato etimologico del termine de-cidere, che vuol dire tagliare) dell’io da se stesso, ma la investe anche di un compito che è quello di amare l’altro, il prossimo. Per la bibbia la libertà non è illimitata e fine in sé, ma finita e finalizzata all’amore per l’altro o responsabilità. Una libertà finita e non fine in sé, più che una contraddizione è una definizione nuova della libertà: non la libertà per la libertà, la libertà che si dispiega come infinite possibilità dell’io, ma la libertà come condizione di possibilità della responsabilità come amore liberamente scelto per l’altro o bontà; ed è soprattutto l’annuncio di un umano dove l’io non è più la parola prima perché prima c’è l’Altro che, con la sua Parola (Wort), mi istituisce risposta (Antwort), parola seconda che viene dopo e deve rispondere dell’altro e all’altro. L’anteriorità di questa Parola che mi comanda o comandamento, lungi dall’essere un limite all’umano, è affermazione che l’umano è preceduto dalla Bontà e chiamato alla bontà: “Questa anteriorità della responsabilità in rapporto alla libertà significherebbe la Bontà del Bene: la necessità per il Bene di eleggermi prima che io sia in grado di eleggerlo, di accogliere cioè la sua scelta… Il Bene prima dell’essere. Diacronia: differenza insormontabile tra il Bene e me, senza simultaneità dei termini divisi. Ma anche non-indifferenza in questa differenza. Il Bene che assegna il soggetto... all’approssimarsi all’altro, all’approssimarsi al prossimo” (E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1995, p. 154-55).

    Il comandamenti e la dignità dell’uomo

    Nel suo ultimo libro pubblicato a pochi mesi dalla sua morte, Luigi Pintor racconta la storia di un piccolo indiano dalla cui saggezza si era lasciato ammaestrare: “Finché l’uomo non si porrà di sua volontà all’ultimo posto tra le creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza”. Ma di questa saggezza Pintor, con il suo ironico disincanto, coglie l’impossibile attuazione perché: “Se l’uomo fosse capace di porsi volontariamente in basso non ci sarebbe più bisogno di questo suo atto di umiltà. Sarebbe un altro uomo. Pretendere che lo sia è come chiedere a un cieco di guardarsi allo specchio” (L. Pintor, I luoghi del delitto, Bollati Borighieri, Torino 2003, p.77).
    Per la saggezza indiana la salvezza consisterebbe nel porsi nell’ultimo posto ma questo, riconosce Pintor, per l’uomo è impossibile. Questa impossibilità, prima che nella volontà dell’uomo che, come vuole Pintor, non sceglierebbe mai di mettersi all’ultimo posto, è nella volontà divina che, per la bibbia, ha concepito l’uomo “poco meno di un dio”, come vuole l’originale del bellissimo salmo 8 che i Settanta, temendo che l’affermazione fosse di troppo, traducono riduttivamente: “poco meno di un angelo”. E se “poco meno di un dio”, l’uomo non può porsi “all’ultimo posto tra le creature sulla terra”, essendo “coronato di gloria e di onore”, avendo il “potere sulle opere della creazione” e essendo stato posto “tutto sotto i suoi piedi: tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare che percorrono le vie del mare” (cf sempre il salmo 8).
    Si resterebbe però vittima di un errore ermeneutico imperdonabile se si interpretasse questa signoria dell’uomo sul creato come volontà di potenza e di dominio, come vuole una certa volgata ambientalista ed ecologista che con troppa miopia attribuisce alla tradizione biblica, ebraico-cristiana, la distruzione del pianeta in atto.
    La signoria da parte dell’uomo sul creato non è, per la bibbia, la signoria della potenza e della prepotenza, ma quella dell’amore che, come Gesù nell’ultima cena, sa farsi ultimo e servire lavando i piedi. Ciò che, giustamente, per Pintor, l’uomo non farebbe mai volontariamente, e pretenderlo sarebbe “come chiedere a un cieco di guardarsi allo specchio”, per la bibbia è possibile farlo solo attraverso il comandamento: il comandamento che comanda di amare perché, come ricorda Rosenzweig, solo l’Amore può comandare e dire all’amato: “amami”.
    Il comandamento biblico – comandamento dell’amore che comanda di amare – non solo non limita la libertà dell’uomo, ma di quest’ultimo istituisce la imprescrittibile dignità che, per la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo proclamati dall’ONU nel 1948, è il fondamento stesso dell’umano e di ogni uomo, come si legge nel preambolo in cui si riconosce la “dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana”, e nell’articolo 1 dove si ribadisce: “Tutti gli esseri nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”.
    Ma cos’è la dignità umana, fondamento dei diritti e inerente ad ogni persona umana, indipendente dalle sue appartenenze e dai suoi atti per cui essa brilla, incancellabile, anche nel peggiore criminale?
    Per la bibbia la dignità umana non si iscrive nell’ordine naturale, quasi fosse un dato riconoscibile e individuabile oggettivamente; neppure nell’ordine razionale, quasi fosse un valore (il discorso sui valori dei quali si denuncia la crisi o la scomparsa!) da dedurre e universalizzare logicamente. Per la bibbia essa si iscrive dentro il comandamento – il comandamento divino – che si incarna nell’altro o volto che, nel suo bisogno e nella sua miseria, si rivolge all’io costituendolo responsabile. Percepire la dignità dell’altro, l’altro come assoluto indisponibile e per questo dotato di forza imperativa, è percepire il suo bisogno di pane e di perdono come comandamento rivolto a me. Percepire la dignità dell’altro è cogliere la sua povertà e la sua miseria come obbligazione per il mio io. La percezione della dignità dell’altro è la percezione della mia responsabilità incedibile e irremissibile nei suoi confronti. Se la dignità dell’altro è nell’essere, per me, il “luogo” in cui, nella sua miseria, l’assoluto mi parla e mi convoca, la dignità dell’io è nell’essere l’unico e l’eletto chiamato a rispondergli. La dignità umana è sempre dignità relazionale, dove l’altro è l’altro che comanda l’io, e l’io è l’io che risponde dell’altro: la dignità dell’altro che per l’io è forza imperativa; la dignità dell’io che, per l’altro, è responsabilità, bontà, diaconia e servizio.
    Ciò che la bibbia afferma della dignità umana, la quale si iscrive nell’ordine dell’obbligazione personale, vale anche per i valori. Ciò che nell’uomo vale e sempre permane, perché sottratto al flusso del tempo e del suo deperimento, è l’assoluto del bisogno dell’altro, che per l’io è imperativo, e l’assoluto della responsabilità dell’io, che per l’altro è servizio. Se questo è vero, più che la crisi dei valori, la bibbia conosce la crisi dell’io che, come Caino che, a Dio che lo interroga di suo fratello, sa solo rispondere: “Non lo so. Sono forse il custode di mio fratello?” (Gn 4, 9).
    Se il valore è la forza imperativa del bisogno che istituisce l’io responsabile, esso, per la bibbia, appartiene all’ordine della decisione personale che l’io, e solo l’io, può in ogni istante instaurare. Non iscritti né iscrivibili nell’ordine naturale né nell’ordine razionale, quasi fossero delle entità contemplabili, i valori non sono come dei soprabiti o degli ombrelli che si possono perdere e ritrovare, ma appelli – comandamento appunto – rivolti all’io perché con la sua responsabilità li faccia esistere.
    Da Westerbork, il campo nazista di transito dove volontariamente si era lasciata internare per solidarietà con il suo popolo, l’ebrea Etty Hillesum, il 7 agosto 1943, così scrive alla sua amica Maria: “Qui molti sentono languire il proprio amore per l’umanità, perché questo amore non è nutrito dall’esterno. Dicono che la gente di Westerbork non ti offre molte occasioni di amarla. Qualcuno ha detto: ‘La massa è un orribile mostro, i singoli individui fanno compassione’. Ma ho dovuto ripetutamente constatare in me stessa che non esiste alcun nesso causale fra il comportamento delle persone e l’amore che si prova per loro. Questo amore del prossimo è come un ardore elementare che alimenta la vita. Il prossimo in sé ha ben poco a che farci. Maria cara, qui di amore non ce n’è molto, eppure mi sento indicibilmente ricca, non saprei spiegarlo a nessuno” (E. Hillesum, Lettere, Adelphi, Milano 1990, pp. 114-115).
    La constatazione di Hillesum riguardo all’amore (“qui di amore non ce n’è molto”) può essere estesa coerentemente e realisticamente ai valori della cui assenza o decadenza la generazione dei padri – sembra quasi una legge di natura! – rimprovera quella dei figli. Il fatto è che i valori non esistono ma vanno fatti esistere, e ciò che li fa esistere è la loro forza di appello o comandamento istituente l’io come l’unico deputato, nella sua responsabilità indeclinabile, a farli esistere.
    “Si racconta che in una riunione di una Commissione nazionale dell’UNESCO, qualcuno si meravigliasse che si fossero trovati tutti d’accordo, nel formulare una lista dei Diritti, vari campioni di ideologie violentemente avverse. ‘Sì – risposero – noi siamo d’accordo su questi Diritti, ma a condizione che non si domandi il perché. Col perché comincia la disputa’”. A riferire questo aneddoto è J. Maritain, ambasciatore di Francia presso il Vaticano dal 1945 al 1948 che al dibattito sui diritti diede un contributo insostituibile (J. Maritain, I diritti dell’uomo. Testi raccolti dall’Unesco, Edizioni di Comunità, Milano 1960, p.12). Questo “perché” difficile da formulare e che, se formulato, porterebbe a dispute irrisolvibili, è la forza del comandamento del quale il diritto si riveste e che, essendo rivolto all’io, ad ogni io, nella sua singolarità irriducibile, è esposto, per definizione, alla possibilità del non riconoscimento e della stessa negazione, e la cui “verifica” e “giustificazione” per questo non può essere né l’analisi scientifica né la deduzione filosofica ma solo lo spazio della responsabilità incedibile personale.

    I comandamenti e il Nuovo Testamento

    Una idea diffusa e radicata, che affonda le sue radici in secoli di “insegnamento del disprezzo” (formula dello storico francese J. Isaac e grande pioniere del dialogo ebraico-cristiano) vuole che la morale dei dieci comandamenti sia stata superata da quella cristiana del perdono, più alta e più nobile. Alla radice di questo stereotipo c’è la contrapposizione, priva di ogni fondamento storico e biblico, tra la legge e l’amore, la prima segno distintivo dell’ebraismo e indebitamente identificata con la schiavitù del legalismo, il secondo tratto peculiare del cristianesimo e, sempre indebitamente, identificato con l’eccellenza del cristianesimo sull’ebraismo.
    In L’idea d’Israele D. Lattes scrive: “La schiavitù della Legge è un’invenzione dei secoli a cui la disciplina della vita e l’atmosfera del divino pesano come ogni conquista superiore. Ma il popolo ebraico non ha mai inteso questa schiavitù. Venticinque secoli di storia danno la testimonianza che nessuna classe del popolo ebreo, compresi i suoi operai, i suoi poeti, i suoi sapienti, i suoi mistici, dall’autore del Salmo 119 agli ultimi epigoni dell’idea e della vita ebraica, intese il peso della Torah, ma anzi intese la dolcezza, la consolazione, la gioia della sua esperienza e del suo adempimento” (L’idea d’Israele, Giuntina, Firenze 1999, p. 119). E a conferma Lattes cita Solomon Schecter (1847-1915), rabbino e teologo inglese, lo scopritore, tra l’altro, della Ghenizah del Cairo (“ripostiglio” dietro la Sinagoga dove sono stati trovati migliaia di manoscritti in ebraico e in arabo di grande interesse storico) e fondatore della rivista americana Conservative Judaism, il quale precisa: “Da un lato udiamo dotti professori proclamare ex cathedra che la legge era un terribile peso e la vita sotto di lei una schiavitù insopportabile che opprimeva corpo e anima; dall’altro lato abbiamo la testimonianza di una letteratura che si estende per oltre venticinque secoli e comprende ogni sorta e condizione di uomini, scienziati, poeti, mistici, giuristi, casuisti, maestri, commercianti, operai, donne, gente semplice che, dall’autore del Salmo 119 fino all’ultimo scrittore pre-Mendelsshoniano – con una piccola eccezione che non merita neppure il nome di minoranza trascurabile – rendono testimonianza unanime e favorevole di questa Legge e della gioia e della felicità di vivere e di morire sotto di essa e non solo in teoria, dopo averla sperimentata in tutte le sue difficoltà e in tutti i suoi inconvenienti” (ivi, p. 120).
    Le ragioni che sottostanno a questa contrapposizione sono molteplici e storicamente non sempre facilmente districabili, tra le quali alcune pagine neotestamentarie non correttamente contestualizzate e lette in chiave antigiudaica, soprattutto il discorso di Gesù sulla Montagna (Mt 5-7) e la polemica paolina sulla legge (Rm 3, 24; Gl 3, 13).
    Per quanto riguarda il discorso sulla montagna c’è oggi un consenso da parte della maggioranza degli esegeti nell’affermare che le celebri antitesi con le quali Gesù scandisce il suo proclama non va inteso come contrapposizione e negazione della morale mosaica dei dieci comandamenti, ma come sua riaffermazione e riscoperta radicale al di là delle sue interpretazioni riduttive o formalistiche. Sul piano linguistico l’espressione: “Ma io vi dico” (in greco Ego de lego hymin), più che una contrapposizione, nei vangeli indica un collegamento e, secondo alcuni studiosi, corrisponde alla formula ebraica Wa’ani omer lahem (“E io vi dico”) con la quale i rabbi, nel commentare la Torah scritta, dischiudevano nuove possibilità interpretative: “Finora questo brano è stato così interpretato, ma ora vi dico che è possibile anche un’altra lettura”. Scrive Lapide: “Chi legge la discussione – meglio l’insegnamento di Gesù – con occhi esercitati alla lettura del Talmud, sa che essa appartiene assolutamente alla metodologia dell’appassionata discussione magisteriale dialogica dei rabbi, che scaturisce non da ostilità né da prepotente saccenteria, bensì sempre e solo dal comune amore per la sacra Scrittura, dalla battaglia per interpretarla nel modo più gradito a Dio e dalla convinzione che il monologo è il metodo peggiore, e il dialogo il migliore, per potersi avvicinare alla verità spesso nascosta. Né nelle discussioni né nell’insegnamento della montagna Gesù ha mai abbandonato il terreno del suo ebraismo pluralistico. Come tutti i grandi saggi di Israele fino ai nostri giorni, egli possedeva certamente un suo patrimonio ideale specifico, che sapeva difendere con grande determinazione nelle discussioni, ma nulla di ciò che il rabbi di Nazareth ha fatto o tralasciato, deciso o spiegato, può essere interpretato come una ‘demolizione’ o una ‘distruzione’ dell’ebraismo” (P. Lapide, Bibbia tradotta, bibbia tradita, Dehoniane, Bologna 2000, pp. 133-34).
    Per quanto riguarda la polemica di Paolo contro la legge, che nella lettera ai Galati osa perfino definire come “maledizione” (Gl 3, 13) è sufficiente ricordare che il linguaggio dell’apostolo non va preso alla lettera ma decodificato, e che ciò che la sua polemica ha di mira non è il senso della Legge in quanto tale, che in quanto legge dell’Amore che ama e chiama ad amare è incontestabile, ma l’uso formale che di essa strumentalmente veniva fatto, così rinnegandola nella sua sostanza più profonda. Per quanto la polemica di Paolo contro la Legge sia radicale e difficile da interpretare, essa non deve essere intesa in opposizione alla grazia: “La problematizzazione della legge ha condotto Paolo a questa operazione inconcepibile per il pensiero giudaico: dissociare la legge dalla grazia; solo la grazia salva, non il comandamento. Questa disgiunzione ha avuto delle ripercussioni incalcolabili. Essa ha falsato la lettura cristiana dei testi giudaici, intesi il più delle volte come depositari di una religione strettamente legalista, sprovvista di ogni concezione della grazia. Al contrario, l’ambivalenza della legge, precetto e dono salvifico, è un dato costitutivo della tradizione veterotestamentaria e giudaica” (D. Marguerat, “L’avenir de la loi: Mathiéu à l’épreuve de Paul”, in ETR 57/1982, p. 361).
    Il Nuovo Testamento – con il suo annuncio del perdono di Dio che, in Gesù sulla croce, si è rivelato come “escatologico”, cioè come amore ultimo e definitivo, oltre il quale non è possibile andare – non si oppone ai dieci comandamenti, né annuncia una morale più alta rispetto ad essi, ma ne ricostituisce la possibilità di osservanza. Annunciare il perdono al peccatore, a chi, con la sua disobbedienza, ha violato i comandamenti, non vuol dire legittimarlo in ciò che ha fatto, ma dischiudergli la coscienza della colpa (“è male ciò che ho fatto”) e insieme fargli dono del miracolo di non restarvi “fissato” e uscirne (“posso tornare a fare il bene osservando i comandamenti”). Denuncia della colpa e annuncio o kerigma della possibilità di uscirne, il perdono cristiano, lungi dall’essere alternativa o superamento dei comandamenti mosaici, ne è la condizione di possibilità della loro perenne attualità e osservanza. Annunciare a chi ha ucciso, rubato o testimoniato il falso che è perdonato, lungi dal legittimare la sua colpa, è portarla allo scoperto smascherandola (“non è bene ma male uccidere, rubare o testimoniare il falso”) e – miracolo che è vero miracolo! – annunciargli la possibilità, per lui, di tornare a non uccidere, a non rubare o a non testimoniare il falso. Il perdono, lungi dall’instaurare una morale più nobile e più alta di quella dei comandamenti, è la condizione di possibilità per la loro perenne e quotidiana osservanza, anche dopo che siano stati ripetutamente violati.

    Il testo

    Si è notato che il testo dei dieci comandamenti presenta delle variazioni di classificazione e di linguaggio a seconda della tradizione ebraica o cristiana. Il commento che sarà fatto negli articoli che seguiranno nei prossimi mesi è quello della tradizione ebraica che, come è naturale, riproduce più fedelmente il testo biblico. Si è anche notato che, dei dieci comandamenti, il testo biblico offre due edizioni, la prima presente nel libro dell’esodo (Es 20,1-17) e la seconda nel libro del Deuteronomio (Dt 5, 6-21). Per comodità del lettore offriamo qui di seguito il testo del libro dell’Esodo, sul quale sarà condotto prevalentemente la nostra analisi di approfondimento.

    1. Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù.
    2. Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è laggiù sulla terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.
    3. Non pronuncerai invano il nome di Dio, perché Dio non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano.
    4. Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio; tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro.
    5. Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore tuo Dio.
    6. Non uccidere.
    7. Non commettere adulterio.
    8. Non rubare.
    9. Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
    10. Non desiderare la moglie del tuo vicino, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo.

    NB. Per tutto l’anno seguirà la ripresa tematica delle 10 Parole in una rubrica specifica di NPG.


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