Riccardo Tonelli
(NPG 1997-03-5)
Davide, come tutti noi, ogni tanto si lasciava andare. Questa volta però non aveva davvero badato a spese.
La Signora Bersabea aveva preso l’abitudine birichina di farsi il bagno in terrazza. A forza di sbirciarla, Davide se n’era invaghito cotto e cercava follemente il modo di portare a compimento il suo progetto di seduzione.
Sapeva di avere un’immagine da difendere e delle esigenze pubbliche da rispettare. Non se la sentiva però di rinunciare a Bersabea. Tenta così... la via diplomatica.
S’informa alla lontana sulla situazione matrimoniale di quella bella signora. Viene a scoprire che il marito di Bersabea, generale dell’esercito di Davide, era fuori sede, impegnato a combattere.
Un po’ alla volta a Davide le idee si schiariscono. Non può sposare una donna già maritata. Può però sposare una vedova. Ci avrebbe fatto persino della bella figura: lui, il re, preferire una vedova ai mille facili partiti... «Che bravo il nostro re»: l’avrebbero detto tutti. Così si ritrovava, nello stesso piatto, Bersabea e l’applauso.
La strada è trovata. Resta solo un ostacolo: Uria, il marito di Bersabea, è vivo e vegeto e combatte da leone in prima linea.
È vivo... anzi, era vivo. Organizzandosi un pochino, può diventare un eroe di guerra, medaglia d’oro al valore militare... da consegnare a Bersabea, come ricordo del marito, caduto in guerra, prima della festa di nozze.
Il re Davide dà qualche ordine ad amici fidati. «Mettete Uria nel centro della battaglia, là dove i nemici sono più agguerriti. Lasciatelo solo. Fate in modo che muoia da eroe».
Purtroppo gli danno retta e Bersabea si trova con una medaglia in più e un marito in meno. Finito il lutto, scatta la proposta di matrimonio. Feste solenni e tutto torna come prima. Davide è contento. Bersabea si è presto consolata. La gente di Gerusalemme parla bene della generosità del suo re. Il futuro è ricco di prospettive felici.
Natan, il profeta, è l’unico a non essere soddisfatto degli avvenimenti. Non gli va giù né l’avventura poco pulita né la conclusione felice cui è giunta.
Da buon educatore, deve denunciare l’accaduto e chiedere a Davide di cambiare vita. Che razza di profeta sarebbe se, anche lui, si rassegnasse al silenzio... Sente la responsabilità di intervenire. Non può però tuonare come un forsennato. Una brutta fine non gliela avrebbe tolta nessuno. Soprattutto però – cosa peggiore – nessuna conversione in vista, eliminato quel piantagrane del profeta scomodo.
Chiede udienza. L’ottiene. Si presenta a Davide con un sorriso accattivante.
«Davide, parlano tutti molto bene di te. Sono contento... perché è vero. Sei un ottimo re. Ami la giustizia. La difendi, la fai osservare e l’osservi tu stesso. Sei una benedizione di Dio sul nostro popolo».
Non ha detto cose false. Bersabea a parte, Davide era davvero un re quasi perfetto.
Davide l’ascolta compiaciuto. Avrà persino pensato: «Natan è un uomo prezioso e fidato. Sa denunciare e lodare. Devo valutarlo un po’ di più».
«Senti, Davide... voglio confidarti un cruccio. Sono stato testimone di un fatto che sta inquietandomi. Vedi se puoi farci qualcosa...». E racconta: «Conosco un uomo che aveva cento pecore. Un giorno, un amico è andato a trovarlo. Se la sono raccontata a lungo, perché erano mesi che non si incontravano. All’ora del pranzo, quello delle cento pecore invita l’amico a fermarsi. Gli promette un ottimo pranzo a base di pecora arrosto. Fin qui tutto bene. È vero. Mi inquieta quello che segue.
Pensa, Davide... aveva cento pecore... per far festa all’amico ha depredato la pecora di un vicino. Quel poveretto ne aveva una sola. La teneva cara come fosse suo figlio. E lui, che ne aveva cento, gliel’ha rubata per far festa all’amico...».
Davide diventa rosso come il fuoco. «Ha fatto così... quel disgraziato? Possibile? Sei sicuro? La sua colpa è gravissima. Quell’uomo deve morire.
Natan... dimmi il nome. Ci penso io. Subito».
Natan lo guarda in silenzio. Davide è sconvolto. L’ingiustizia commessa l’ha mandato su tutte le furie. «Natan, il nome... quell’uomo va punito, subito e senza pietà».
Natan guarda ancora Davide. Poi, deciso, rompe il silenzio: «Davide, quell’uomo sei tu».
Davide crolla. Nella foga aveva estratto la spada e la brandiva come se avesse davanti uno stuolo di nemici. La rimette nel fodero, triste e sconsolato. «È vero, quell’uomo sono io... perché ho fatto così... io, l’unto del Signore. Natan, grazie. Aiutami a rimettere le cose a posto».
Forse, con la stessa foga con cui sta maneggiando la spada qualche attimo prima, ha preso in mano la cetra e ha cantato, con voce struggente: «Pietà di me, Signore... contro di te ho peccato... cancella la mia colpa».
E se quello di Natan fosse il modo di fare l’educatore in un tempo di grida scomposte e di silenzio rassegnato?
Ci vuol poco a costatare, infatti, che molti educatori oggi sono in crisi. Non buttano a terra le difficoltà che incontra chi vuole realizzare bene il proprio impegno professionale. Qualche problema c’è sempre stato e, tutto sommato, è sempre stato superato in termini soddisfacenti.
La crisi si annida altrove, in un terreno più infido: non siamo più sicuri su quello che dobbiamo fare per assolvere dignitosamente la nostra responsabilità. Dobbiamo alzare la voce o è meglio imparare a tacere? È meglio lasciar correre, chiudere un occhio e limitarsi a dare un po’ di buon esempio? Oppure, al contrario, le esigenze vanno dichiarate con coraggio e fermezza, anche se ci si accorge che spesso lasciano il tempo che hanno trovato? Quella della testimonianza, poi, è una via affascinante, ma pericolosa: possiamo dire solo quello che siamo capaci di realizzare noi per primi?
Di fronte a possibilità tanto drammatiche, le soluzioni non sono per niente semplici. Ciascuno ha le sue e le sbandiera con una certa foga. Così, nel panorama degli educatori, ci sono quelli che gridano come forsennati, invocando mille ragioni per convincere tutti a ritrovare un coraggio che sembra perduto. Ma ci sono anche quelli che stanno ancora rifacendosi la coscienza, dopo i tempi dell’onnipotenza educativa. Il lungo e sofferto silenzio è giustificato da grosse esigenze: la condivisione, la presenza accogliente, il rispetto della libertà e della responsabilità personale.
Non so bene chi abbia il maggiore bagaglio di ragioni. Non mi piace il silenzio rassegnato, in una stagione in cui gridano tutti, persino quelli che avrebbero mille motivi per stare un po’ più silenziosi. Non faccio però tifo neppure per la rinascita delle sicurezze-senza-ombra-di-dubbio, perché ho paura di dover ritornare ai tempi in cui chi comandava aveva ragione per la sola ragione di comandare.
L’alternativa è di inventare: con coraggio e fantasia. Natan ci può insegnare qualcosa.