(NPG 1991-02-42)
In questo periodo di grandi discus- sioni, in Italia e all'estero, sul potenziale rigurgito di atteggiamenti razzistici, non credo che sia inutile compiere una piccola provocazione: affermare cioè che il razzismo, che è in fondo la paura del diverso, è in stretta correlazione con un basso livello di identità collettiva.
Meno si ha identità, in altre parole, e più si ha paura che gli altri la inquinino o la travolgano.
Mi sento già le osservazioni critiche, ruotanti sulla convinzione che chi rifiuta gli altri (ebrei o musulmani che siano) lo fa in nome della sua identità.
Per cui non spero che la mia provocazione possa avere molto successo; ma credo che comunque valga la pena di svilupparla.
Oggi, specialmente in Italia, siamo in periodo di grande crisi delle identità collettive.
E ciò per due ordini di motivi.
Il primo è la crisi delle grandi appartenenze ideologiche e sociali e delle relative identità: oggi non si può essere classe operaia, comunisti, rivoluzionari, riformisti, borghesi; siamo in una sorta di indistinto sociale e culturale per cui non si riesce ad avere identità collettiva, nel lavoro come nella dialettica sociopolitica.
Il secondo motivo è la forte carica di soggettività che ha governato atteggiamenti, comportamenti e valori in questi ultimi venti anni: quando tutto è riferito a se stessi, è soggettivo, è «mio» (il corpo è mio, il lavoro è mio, il coniuge è mio, la malattia è mia, il peccato è mio, e li regolo tutti secondo il mio punto di vista e la mia coscienza) è di conseguenza evidente che l'unica identità possibile è quella personale, individualistica.
Viviamo dunque un periodo di bassa identità collettiva. Non siamo cioè connotati dalle appartenenze, ma solo da noi stessi e dal modo in cui gestiamo la nostra vita: vale per il leader come per il tossicodipendente marginalizzato .
E la cosa naturalmente, anche se non del tutto coscientemente, induce sensazioni di fragilità e di solitudine.
Come reagisce la gente a questa fragilità? Da un lato nutre sospetto feroce verso i fenomeni esterni che sente un po' come nemici e pericolosi per il proprio piccolo campo di identità soggettiva; dall'altro lato cerca piccole ma compatte appartenenze, nella speranza di trovarvi identità.
Non devo spendere molte parole per sottolineare come nasca il razzismo dal primo di tali modi di concepire il rapporto con gli altri; mentre credo sia giusto prendere un po' di tempo sul secondo modo, quello della ricerca di piccole e compatte appartenenze.
In proposito posso richiamare due esempi che considero «classici».
Il primo è quello dei Cobas, piccole appartenenze sindacali molto strette e compatte, quasi settarie nel loro collegarsi all'egoismo di una specifica limitata categoria; ma appartenenze che offrono un'identità collettiva (di insegnante, di macchinista, di capostazione, ecc.) che nessun grande sindacato può più offrire.
Il secondo esempio è quello dei movimenti ecclesiali, piccole appartenenze religiose che, partendo da una specifica visione religiosa, offrono appartenenze militanti (e quindi identità) molto più attrattive della generica appartenenza alla Chiesa istituzionale.
Chi, attraverso strade di questo tipo, trova un'identità collettiva finisce per
difenderla in modo molto forte: la esplicita, la diffonde, ne fa questione di vita e di immagine esterna, potremmo dire che si innamora della sua appartenenza e della sua identità, ad oltrepassamento della sua fragilità e della sua solitudine.
Ma più o meno oscuramente sente che la fragilità continua ad esserci e quindi esaspera l'appartenenza e la «testimonia» con enfasi, considerando le altre appartenenze come pericolosamente nemiche.
L'identità diventa non accogliente, si mette sulla difensiva, anzi sull'attacco.
Di qui l'enfasi della testimonianza di se stessi e delle proprie piccole appartenenze, nasce il razzistico rifiuto del diverso.
Se si bada attentamente ad esempio a come l'Italia ha reagito al fenomeno degli stranieri, si scoprirà che le reazioni contrarie più violente si sono avute nelle persone, nei gruppi sociali, nelle città che avevano più fragilità di identità collettiva e che avevano più tendenza ad enfatizzare la propria vecchia inerte identità.
Siamo lontani dalla cultura dell'accoglienza tipica della grande appartenenza religiosa, cattolica in particolare.
Siamo più vicini alla differenza di altre e più piccole appartenenze, anche religiose.
Il problema del razzismo diventa, in prospettiva, un problema religioso. Solo una religione accogliente, solo una «grande chiesa», può accettare i diversi senza paura di mettere in gioco la propria identità.
E forse sarebbe il caso che la Chiesa italiana, nel suo complesso, desse un segnale di provocazione a tutti coloro (individui o gruppi) che per paura di mettersi in gioco rifiutano di confrontarsi con altre appartenenze ed identità.
(Giuseppe De Rita, Avvenire, 23 maggio 1990)