Gesù di Nazareth
tra storia e fede
Romano Penna
«Gesù di Nazaret, chi era costui?». Una eventuale parafrasi del celebre interrogativo manzoniano sul filosofo Carneade non avrebbe senso per il Nazareno: almeno per quanto riguarda la sua notorietà, poiché in ogni caso una domanda sulla sua effettiva identità è più che legittima.
Tutti sanno, del resto, che la figura di Gesù è diventata oggigiorno di grande attualità anche nell’ambito della cultura laica, come non lo era mai stato in passato. Si tratta, più specificamente, non del Gesù risorto e glorioso ma della sua figura storica, di cui si può parlare anche in termini di Gesù terreno o di Gesù reale. Certo si può anche distinguere tra il Gesù storico e il Gesù reale, ritenendo che quello «storico» sia l’esito, a valle, della ricostruzione degli storiografi e che invece il Gesù «reale» sia quello che sta a monte della documentazione e delle possibili ricostruzioni storiografiche. Si possono anche utilizzare altre formulazioni rispetto a questi due aggettivi, distinguendo, semmai, tra il Gesù storico (= il vero Gesù terreno) e il Gesù storiografico (risultante dalle imprese ricostruttive).
Tuttavia, ciò che mi preme sottolineare è che la figura di Gesù è diventata di attualità come non lo era prima.[1] Il grande studioso delle origini del cristianesimo di inizio Novecento Adolf von Harnack, esponente del cosiddetto protestantesimo liberale, nella sua Essenza del Cristianesimo citava la frase di un filosofo empirista del secolo XIX, John Stuart Mill, che diceva così «Non si ricorda mai abbastanza all’umanità che un tempo visse un uomo di nome Socrate». E di suo Adolf von Harnack aggiungeva: «È vero, ma è anche più importante ricordare agli uomini che un tempo visse tra loro un uomo di nome Gesù Cristo».[2] Gesù di Nazaret infatti presenta i tratti di una figura, che ha giocato un ruolo di primissimo piano nella storia non solo della chiesa ma anche della cultura tout court, prima di tutto di quella cosiddetta occidentale, ma non solo. Il particolare stato delle fonti che ce lo documentano, poi, è tale da contribuire anch’esse a renderlo particolarmente affascinante. Parlare di Gesù, infatti, è possibile in molti modi. Basta ricordare certa produzione bibliografica recente, i cui titoli sono stati per un po’ di tempo in cima alle classifiche dei libri più venduti. Il fatto è che, quando non si tratta di pura immaginazione, si tratta di una produzione assai limitativa, in quanto non coglie tutti gli aspetti oggettivi dell’identità storica del Nazareno.
Certo in passato, almeno a livello di divulgazione, sulla storia di Gesù si è parlato poco oppure ci si è attenuti letteralmente soltanto ai testi evangelici. Ma, limitandosi a quella che viene comunemente chiamata una lettura canonica della sua figura, si incorre nel rischio di un fondamentalismo forse inconscio o, nel migliore dei casi, in un devozionalismo che bypassa lo spessore storico dell’identità di quello speciale Nazareno. La sensibilità storica maturata dal 1700 in poi ci ha abituati invece a distinguere necessariamente tra il Cristo/Gesù dei vangeli e il Gesù/Cristo della storia; la cosiddetta «terza ricerca» contemporanea si muove proprio nell’ambito di una indagine che onori tutti i contorni della sua effettiva situazione storica. Del resto, la distinzione tra i due momenti (storia e fede) è richiesta dal fatto incontrovertibile secondo cui i vangeli sono una mediazione, cioè una documentazione letteraria interposta tra noi e lui. E di qui partiamo con la nostra riflessione.
1. Una mediazione ermeneutica
Quando si apre uno qualunque dei vangeli (non soltanto di quelli apocrifi, ma anche uno qualsiasi di quelli canonici), non si incontra direttamente il Gesù storico, ma ci si trova di fronte a una testimonianza su di lui. Ed è dunque quella testimonianza, è quel testimone, che va preso sul serio e va studiato e onorato nella sua specifica identità, poiché Gesù si trova soltanto dentro quella testimonianza. Questa poi implica necessariamente una interpretazione; infatti, Gesù ci raggiunge, rispettivamente, secondo Mt, secondo Mc, secondo Lc, secondo Gv: ed è importante notare, sia la preposizione modale (poiché si tratta di una modalità plurale, di volta in volta diversa) sia la sigla di abbreviazione (poiché l’autore letterario si nasconde dietro il suo testo, ed è questo la cosa più importante). Ebbene, l’impresa di risalire a monte degli scritti è certo difficile, ma anche intrigante e comunque doverosa: essa consiste nel tentativo di sceverare possibilmente tra il testimoniante (o meglio i testimonianti) e il Testimoniato! Ciascuno infatti, per non dire dei vari dettagli discordanti (cf. l’esempio macroscopico delle parole pronunciate sul pane e sul calice nell’ultima cena), ci offre di lui una ermeneutica diversa (per esempio, la cristologia di Mc non coincide con quella di Gv), cosicché ciascun redattore contribuisce a delineare la complessità della figura di Gesù.[3]
Dalla questione della ricostruzione del Gesù terreno non si esce, se non si tiene conto del fatto che Gesù è stato etichettato in molti modi fin dall’inizio. La preoccupazione di voler subito stabilire l’attendibilità delle fonti prima di ogni altro passo, è inquinata da una disattenzione alla qualità delle fonti stesse. Ci sono infatti due importanti osservazioni previe da fare. Una riguarda la metodologia dello storico, che è inevitabilmente contrassegnata da una personale interpretazione, sicché vale il principio secondo cui non esiste verità senza interpretazione.[4] L’altra riguarda la dimensione oggettiva delle fonti evangeliche, le quali non sono comandate da un interesse storicistico, ma da un presupposto di fede (cf. sotto), sicché occorre applicare loro una serie di criteri per poter risalire al volto effettivo del Gesù terreno.[5]
A puro titolo di esempio, potremmo chiederci se dobbiamo prendere sul serio e fare nostra l’identificazione proposta dal cosiddetto titulus crucis, che proclama “Gesù Nazareno re dei giudei” (INRI). Una certa ricerca, diciamo così, laica, si ferma lì o va poco oltre: non nel senso di ritenere per vero che Gesù fosse davvero Re dei giudei (quantunque negli scorsi anni ’70 ci fu una corrente per così dire ‘politica’, che riteneva Gesù come un ribelle antiromano), ma nel senso che la sua dimensione personale viene ridotta a un profilo “dai tetti in giù”, cioè a una statura di carattere se non proprio politico, almeno collocabile al solo livello culturale, religioso, sociale, spiegabile tutta intera all’interno della cornice di Israele. Rispetto a ciò, occorre sottolineare che le prime comunità cristiane non hanno mai ripetuto quella definizione, che in realtà, servendo all’amministrazione penale romana per motivare l’esito del processo, rubava a Gesù la sua vera identità.[6] Egli però non è mai stato professato come «re dei Giudei».[7] Certo le definizioni di fede della chiesa primitiva prescindono del tutto da questa etichetta, anche se paradossalmente essa risulta la più evidente almeno a livello iconografco (semmai Gv 18,36 precisa che il suo regno «non è di questo mondo»).
Quindi bisogna stare molto attenti quando ci si accosta a questa figura perché, come si è già accennato, Gesù lo si trova solo dentro testimonianze altrui, ciascuna delle quali è connotata da un particolare punto di vista. Va comunque onestamente precisato che la loro diversità non ci impedisce di rimontare fino allo stadio gesuano, anche se in questa sede non ce ne occupiamo.[8]
Qui si potrebbe instaurare un parallelismo con Socrate, per il fatto che anch’egli non ha scritto nulla di suo e ciò che sappiamo di lui lo conosciamo solo per le testimonianze altrui (quelle di Platone, di Aristofane e di Senofonte). Del resto, questo vale per quasi tutti i personaggi dell’antichità (a eccezione di quelli che scrivono in prima persona, come Giulio Cesare). Per esempio, Alessandro Magno aveva portato con sé inque biografi ufficiali (Callistene, Onesicrito, Nearco, Aristobulo, Tolemeo), che hanno trasmesso tutti un diverso “Alexander Bild”, come si dice alla tedesca, cioè una diversa figura o immagine di Alessandro; per quanto essi fossero stati compagni e testimoni della sua spedizione, ne hanno trasmesso ciascuno una interpretazione diversa. E questa diversità tocca persino i dettagli del racconto fino al punto che, ad esempio, uno di questi biografi dice che rispetto al famoso nodo Gordiano, Alessandro l’abbia tagliato con la spada perché era inestricabile, mentre un altro biografo sostiene che lo abbia facilmente sciolto con le sue mani![9] Dov’è la verità storica? Perché è diventata vulgata solo la prima narrazione? Come sono andate veramente le cose? Un interrogativo del genere è inevitabile per tutti i personaggi dell’antichità (compresi quelli che hanno scritto delle memorie personali, come Vespasiano, i cui scritti però sono andati perduti). Quindi, per conoscere gli avvenimenti e i personaggi antichi, è giocoforza per noi passare per il tramite di testimonianze altrui, visto che noi stessi non eravamo presenti a farne esperienza personale.
Per quanto riguarda specificamente il Nuovo Testamento si può notare una interessante differenza tra Gesù e Paolo. Infatti, di Paolo c’è una interpretazione altrui negli Atti degli Apostoli, ma ci sono pure delle lettere sue, per cui abbiamo di lui, oltre che l’interpretazione di Luca, un suo rispecchiarsi diretto in determinati scritti, che lo riflettono per quello che egli era; e quando si danno dei contrasti tra Luca e Paolo, è naturalmente a quest’ultimo che si dà la preferenza. Gesù invece non ha praticato questa possibilità: egli non ha scritto niente, e io ritengo che questo sia interessantissimo, anche se consideriamo il fatto dal punto di vista cristologico o teologico che dir si voglia. Ne risulta infatti che Gesù è accostabile, non direttamente, ma soltanto attraverso mediazioni, qualunque esse siano: si pensi, oltre che ai testi letterari dei Vangeli e del Nuovo Testamento, anche alla testimonianza della vita della chiesa. Non è senza significato che Paolo definisca la Chiesa “Corpo di Cristo”, perché Cristo lo si trova appunto nella Chiesa, di cui gli stessi testi neotestamentari sono una emanazione!
Oltre le considerazioni ermeneutiche fatte finora, è interessante ricordare due dati storicamente inconfutabili, che sono da ritenere importanti e fondamentali per quanto riguarda Gesù e il rapporto con lui da parte dei cristiani.
2. Un confronto documentaristico
Il primo dato è una constatazione di carattere documentaristico, che cioè riguarda le fonti su di lui. Questa constatazione prende corpo ad un livello comparativistico: noi ci rendiamo conto della specificità, della originalità, e della incomparabilità di Gesù di Nazaret, se confrontiamo il caso delle fonti che lo riguardano con quello delle fonti di altri personaggi contemporanei vissuti all’inteno del popolo di Israele. Infatti, è pur sempre in Israele, anzi nella sua terra, che egli è vissuto, appartenendovi dalla testa ai piedi, non solo etnicamente ma anche per quanto riguarda la sua forma mentis e il suo patrimonio concettuale. Ebbene, è molto istruttivo paragonare il caso-Gesù con alcuni importanti personaggi del suo tempo, sui quali nessuno ha esercitato una attenzione letteraria paragonabile a quella che documenta la figura di questo Yehoshua di Nazareth.[10] La conclusione che ne dedurremo è che, a livello di documentazione (quella che più conta per trasmettere la memoria di qualcuno), nessun ebreo del suo momento storico ha destato tanta attenzione, almeno per quanto riguarda la serie dei maestri.[11]
Il primo personaggio, a cui possiamo fare riferimento, è il fondatore della comunità di Qumran. Noi conosciamo direttamente quella comunità dai manoscritti che essa ha prodotto,[12] ma del suo fondatore non conosciamo nemmeno il nome.[13] Quei manoscritti trasmettono solo alcuni lineamenti di questa figura di iniziatore-fondatore, vissuto nel secondo secolo avanti Cristo (la comunità è durata perlomeno fino all’anno 70 d.C., fino a quando i romani sono intervenuti con la loro spedizione militare), e a lui vanno probabilmente attribuiti alcuni Inni (Hodayôt: 4QH) molto belli, se non anche la regola (Seder: 1QS) della comunità stessa. Ma nessuno si è peritato di scrivere una narrazione su di lui, una relazione in qualche modo “biografica” della sua figura. Sappiamo solo della sua esistenza (probabilmente era un sacerdote dissidente rispetto al sacerdozio gerosolimitano), sappiamo della sua funzione fondatrice, di qualche sua produzione letteraria, ma non ne conosciamo l’identità anagrafica, non conosciamo quando è nato, quando è morto e altre eventuali vicende della sua vita terrena. Non conosciamo niente, non perché eventuali racconti su di lui siano andati perduti, ma proprio perché non sono esistiti.
Un altro esempio è il grande Rabbi Hillèl, che morì quando Gesù poteva avere una quindicina d’anni. Rabbi Hillel è importante per il confronto con Gesù, se non altro perché prima di lui ha formulato la così detta regola d’oro: «Ciò che non vuoi che sia fatto a te, non farlo neppure al tuo prossimo»,[14] benché nella redazione matteana la formulazione sia in termini positivi (cf. Mt 7,12). Forse dunque Gesù era debitore di R. Hillel, anche se Sant’Agostino definiva questo detto evangelico un “vulgare proverbium” perché molto diffuso nella sapienza antica, e non specificamente cristiano. Ebbene, anche di Rabbi Hillel non si possiede nessuna narrazione biografica: tutto ciò che conosciamo di lui, come pure degli altri due rabbini che ora citeremo, lo si trova frammentariamente sparso nella letteratura rabbinica posteriore, la quale peraltro non è anteriore all’anno 200 (cf. la Mishnà, e poi il Talmùd che è ancora più tardivo di quattro o cinque secoli). Lì si trovano sparse alcune informazioni sui maestri di Israele: sono brevi notizie biografiche, che non vengono riportate per se stesse, come se ci fosse un interesse specifico; esse invece sono riferite all’interno di vari commenti a passi della Torà, e la sentenza del Rabbi serve per dare materia all’istruzione rabbinica (sia essa in forma di Midrash, che è un commento a un testo biblico, oppure in forma di Halakà, che è la formulazione di precetti per la vita quotidiana del pio ebreo). Ma un interesse specifico per la sua vita non è documentato.[15]
Un terzo caso è quello di Rabbi Yohanan ben Zakkai, che ha avuto una funzione molto importante nella storia di Israele, perché ha salvaguardato l’identità giudaica dopo il disastro dell’anno 70, quando in Israele, con la distruzione del Tempio di Gerusalemme, scomparvero il sacerdozio e l’intero complesso delle liturgie sacrificali. Di lui si sa che fondò a Yabne, non lontano da Gerusalemme, un’accademia per lo studio della Torà, per ricompattare le forze sparse di Israele.
Fondò così il Rabbinismo, cioè diede inizio a quel tipo di giudaismo rabbinico che tutt’ora perdura e che si differenzia dal giudaismo precedente al 70 (il quale presentava invece una sfaccettatura di forme molto diverse, e in cui il Rabbinato vero e proprio non esisteva). Di R. Yohanan ben Zakkai si racconta, per esempio, che uscendo da Gerusalemme col tempio distrutto, un suo discepolo gli disse: «Vedi maestro: il luogo dove i nostri peccati venivano perdonati non esiste più!». E R. Yohanan gli rispose: «Non affliggerti, figlio mio, noi abbiamo un’altra espiazione, che ha lo stesso valore di quella praticata nel Tempio. Sono gli atti di misericordia, poiché sta scritto “Io amo la misericodia e non i sacrifici”».[16] Con quest’ultima frase, egli cita Osea (cf. Os 6,6), ed è interessante osservare che questa stessa citazione si trova pure in bocca a Gesù (cf. Mt 9,13, dove è riportata a giustificazione del fatto che Gesù mangiava con i pubblicani e i peccatori: cioè nel contesto dell’esercizio di un effettivo atto di misericordia). Ma ancora una volta dobbiano notare che di Rabbi Yehohanan ben Zakkai nessun antico ha mai scritto la vita: si hanno di lui solo informazioni sparse e frammentarie, presenti nelle posteriori produzioni rabbiniche.[17]
Come quarto caso si può ancora citare, anche se già un po’ più avanti, la figura di Rabbi Aqibà ben Yosef durante la seconda guerra giudaica di Adriano, negli anni ’30 del secondo secolo.
Egli è stato una grande figura di Maestro, che morì martire del monoteismo. Racconta il Talmud che mentre gli strappavano le carni lui continuava a ripetere “Ehad, Ehad”, che in ebraico significa “Unico”,[18] riportando cioè il testo di Deuteronomio «Ascolta Israele, il Signore Dio nostro, è un Signore unico» (Dt 6,4 = il celebre Shemà). È morto così Rabbi Aqiba: da martire, anche se di lui nessuno ha scritto una vita.[19]
Se ora volessimo fare un confronto con Gesù di Nazaret, Yehoshua ben Josef, «Gesù figlio di Giuseppe» (come del resto lo chiama il quarto vangelo: cf. Gv 1,45; 6,48), dovremmo notare una differenza eloquentissima. Egli infatti è stato un personaggio sui generis. Questo Gesù, benché nei Vangeli venga spesso chiamato «Rabbi» (cf. Mc 9,5; 11,21; 14,45; Mt 23,7-8; 26,25.49; Gv 1,39.50; 3,2.26; 4,31; 6,25; 9,3; 11,8),[20] non è computato da Israele nella serie dei Rabbi, cioè dei grandi maestri di Israele,[21] e le due (forse tre) menzioni che abbiamo di lui nel Talmûd non lo riguardano come Maestro (forse con l’eccezione di una).[22] Solo a partire dagli anni ’20 del XX secolo da parte ebraica (e prima della cosiddetta ‘terza ricerca’ sul Gesù storico) si è iniziato a recuperare l’identità giudaica di Gesù.[23] Ma né R. Hillel né R. Yohanan ben Zakkai sono morti crocifissi, mentre R. Aqiba è morto martire per le mani dei romani e non per un processo giudaico (che invece, nel caso di Gesù di Nazaret, precede quello romano). A loro confronto, dunque, Gesù di Nazaret ha un profilo molto più basso, se non va addirittura considerato come un mesît, cioè uno che conduce all’idolatria.
Queste considerazioni sono un argomento molto forte per rendersi conto della straordinarietà di questo Gesù, che nonostante sia così defilato dai grandi d’Israele suscitò un interesse che non è documentato per nessun altro. D’altronde, tra il 1° secolo a.C. e il 1° secolo d.C., di persone chiamate «Gesù» in Israele ce ne sono state almeno una trentina, come sappiamo dalle varie fonti letterarie, epigrafiche e papiracee. Ma proprio e solo questo galileo di nome Gesù ha suscitato un’attenzione documentaristica che non ha paragoni. Perciò, come si dice in sana filosofia, se ogni effetto deve avere una causa proporzionata, l’effetto di cui abbiamo parlato, anche solo giudicato sul piano documentaristico (che è incomparabile), deve avere una causa incomparabile essa stessa!
È solo la persona del Gesù storico che ha suscitato quella sorta di interesse per lui: segno evidente della sua personale straordinarietà. Non si riflette molto, in genere, su questo dato, che invece è fondamentale, se non altro perché resta sul piano oggettivo e incontrovertibile della documentazione storico-narrativa, dove il solo fatto in quanto tale (prima ancora di giudicarne i dettagli) non ha paragoni con nessun altro nell’Israele del suo tempo.
3. L’origine della documentazione su Gesù di Nazaret
C’è poi una seconda constatazione che bisogna fare a proposito di Gesù ed è che l’interesse narrativo avuto per lui, ampiamente documentabile nei testi che sono pervenuti fino a noi, è stato coltivato soltanto da persone che erano credenti in lui. Questa è un’altra cosa straordinaria! Non Caifa, non Pilato, non Erode e tantomeno Nerone o altri esterni alla comunità cristiana si sono mai interessati a stendere per scritto la vicenda terrena di Gesù. Questo vale altrettanto per gli scrittori latini Svetonio, Tacito, e Plinio il Giovane, che pure conoscono il suo nome e la sua esistenza storica: essi infatti ne hanno parlato, non per un interesse immediato e diretto nei confronti di lui, ma solo perché a loro faceva problema il gruppo dei cristiani, cioè di quelli che credevano in lui. È perché si sono interessati dei suoi discepoli che questi autori ci danno anche una notizia sull’esistenza di Gesù. Analogamente si dica dello storico ebreo Flavio Giuseppe, l’unico ebreo del secolo I° che dà una testimonianza su Gesù (peraltro discussa a livello di formulazione).[24] Solo dei credenti in lui hanno narrato qualcosa della sua vita, facendone oggetto specifico di interesse, a differenza di quanto avviene per i Rabbi citati sopra, inseriti sporadicamente nei trattati del Talmud.
I Vangeli non fanno parte di altri complessi letterari, ma sono stati scritti specificamente su di Lui.
Questo porta a formulare una osservazione di prim’ordine. Cioè: fin dalle origini la fede cristiana, in quanto tale, non ha potuto, non se l’è sentita di prescindere dalla storia di Gesù. È vero che i racconti evangelici sono posteriori alle lettere di Paolo (le quali risalgono agli anni 50), ma le redazioni evangeliche hanno una preistoria orale, se non già parzialmente scritta, come ha messo in luce nel secolo XX la ricerca tedesca con la cosiddetta Formengeschichte. A questo proposito, si può pensare all’incipit del vangelo secondo Luca: “Dopo che molti hanno posto mano a stendere un racconto….” (Lc 1,1). Ebbbene, se soltanto la fede si è sentita in dovere di narrare organicamente qualcosa sulla figura di Gesù, ciò indica che fra storia e fede c’è un intreccio inestricabile, cosicché la seconda non può fare a meno della prima.
Ciò caratterizza la specificità della fede cristiana, così come in qualche modo caratterizza già Israele, il quale coltiva una fede che per definizione si rapporta alla storia (cf. il concetto di ‘storia della salvezza’, elaborato a partire dal secolo XIX). C’è un filosofo pagano del quarto secolo, Sallustio Saturnino, che ha scritto un trattatello “Sugli dèi e il mondo”, dove, con riferimento alle storie degli dèi della mitologia, dice apertamente: «Queste cose non furono mai ma sono sempre» (4,9). Ecco la differenza con la coscienza cristiana! Quando nel Credo Apostolico si dice che Gesù “patì sotto Ponzio Pilato”, ciò implica un riferimento storico ben preciso a delle coordinate spazio-temporali, senza le quali non si può redigere nessun racconto storico. Del resto quel povero Pilato, se non ci fosse stato Gesù, avrebbe rischiato di passare nel dimenticatoio della storia. Ma la confessione cristiana, secondo cui Gesù “patì sotto Ponzio Pilato”, richiama un personaggio che non è certo un’astrazione,[25] e questa menzione rappresenta una sorta di spioncino, quasi un piccolo buco di serratura, al di là del quale è possibile intravedere uno spazio molto più vasto, quello della presenza romana nella terra di Israele, e quindi la collocazione di Gesù in quel periodo.
Se volessimo recuperare il concetto teologico di ‘incarnazione’, dovremmo dire che il Logos di Dio si fece carne in Gesù nel primo trentennio del secolo primo (più alcuni anni del secolo precedente). Gesù è vissuto precisamente in quel periodo là, né prima né dopo, essendo il giudaismo anteriore e posteriore diverso da quello in cui è vissuto Gesù. Ed egli è vissuto nella Galilea non in Giudea, benché in Giudea sia morto, ma non nella Samaria, non nell’Idumea, non nella Perea. È lo stesso concetto teologico di incarnazione che ci costringe a una estrema precisione spaziotemporale, se vogliamo prendere sul serio il fatto che Dio si è chinato sull’uomo e che lo ha fatto in un preciso personaggio appartenente a Israele.
Dunque, a livello di documentazione, lo storico deve riconoscere che non è mai esistito un Gesù a prescindere dalla fede in Lui, mai.[26] Anche tutti gli apocrifi dei primi secoli sono scritti di fede. Si potrà discutere su quale fede essi testimonino, ma la triplice distinzione che correntemente si fa tra i vari tipi di vangeli apocrifi (giudeo-cristiani, gnostici, e leggendari; a partire dal secolo XIX con Schleiermacher) conferma il fatto che tutti partono da un punto di vista credente. Il giudeo-cristianesimo, certo, non confessa la divinità di Gesù ma confessa la sua messianicità, ed è questo il primo scandalo: confessare come Messia un crocifisso; e confessare la sua resurrezione è il secondo scandalo, dato che per Israele non è possibile una resurrezione da parte di Dio prima di quella escatologica (tanto più di un solo individuo), poiché in Israele la risurrezione è concepita in forma collettiva e alla fine della storia. Il cristianesimo delle origini ha scandalizzato Israele (per non dire del mondo pagano) e lo scandalizza tuttora per queste due affermazioni. Eppure proprio questa fede in Gesù, peraltro confessata all’inizio solo da ebrei, ha stimolato i primi credenti a recuperare le sue vicende terrene in varie composizioni narrative.
È vero, quindi, che non è mai esistito un Gesù a prescindere dalla fede in lui, e questo per 1700 anni. Solo a partire dall’Illuminismo, cioè dal secolo XVIII (cf. in particolare H.S. Reimarus, 1694-1768) si è cominciato a scindere tra storia e fede, come se fosse possibile ricostruire una storia di Gesù facendo a meno della fede in lui. Certo l’esigenza di una ricerca storica è sacrosanta, anche per il credente, e l’impresa è comunque intrigante. Ma chi volesse applicare alle fonti che lo riguardano un intervento di sceveramento tale da escludere la fede che sta loro a monte, assomiglierebbe a chi in pieno giorno volesse disgiungere un qualche oggetto dalla luce del sole che lo illumina: sarebbe come far ripiombare l’oggetto nell’oscurità della notte! Come è la luce che permette di vedere gli oggetti, così è (o almeno è stata) la fede che ne ha permesso (e ne permette) la constatazione. Altrimenti l’esito sarebbe inevitabilmente quello di restituirci un Gesù monco, visto che alla sua semplice esistenza, oltre che alla sua identità profonda, fin dagli inizi si perviene appunto aderendo a lui (cf. la frequente locuzione giovannea pisteúein eis, «credere in»).
In una conversazione avuta con il noto giornalista televisivo Corrado Augias, questi mi diceva che in realtà «Gesù appartiene all’umanità intera». È verissimo! Ma chi lo ha dato all’umanità intera, se non la fede cristiana, cioè la chiesa o, se si vuole, le chiese? Sicché, un accostamento a Gesù che volesse prescindere da questa mediazione, si taglia oggettivamente fuori dall’alveo dell’antica tradizione, dal filone vivo dei suoi discepoli e dei vari momenti storici in cui essi lo hanno testimoniato (magari a costo della propria vita).
4. Conclusione
I dati, su cui abbiamo insistito, sono fondamentali, e non si torna mai abbastanza a ribadirli.
James Dunnn, un noto studioso inglese, anglicano (professore all’Università di Durham), fra i migliori neotestamentaristi oggi esistenti, ha scritto un’opera «Jesus rememberd» (tradotta in italiano; cf. sopra: Nota 1), dove dice testualmente: «L’idea che si possa guardare attraverso la prospettiva di fede degli scritti del N.T. e vedere un Gesù che non abbia ispirato questa fede o che abbia ispirato fede in modo diverso è un’illusione. Un simile Gesù non esiste» (vol. I, pag. 142).
Ciò significa che tra il Gesù terreno e il Gesù pasquale c’è una continuità omogenea, anche se il passaggio ci sfugge in parte, ma solo in parte. Non per nulla la Risurrezione di Gesù non è raccontata da nessuno. Soltanto l’apocrifo Vangelo di Pietro, databile attorno al 130, tenterà di dire che sono scesi due uomini dal cielo, sono entrati nel sepolcro, e poi sono usciti in tre e i tre sono andati su in cielo. Una descrizione del genere tenta di colmare un vuoto che è inevitabile, perché l’evento è metastorico, nel senso che non ha avuto nessun testimone che possa narrarlo.
C’è stato però un momento, in cui coloro che erano fuggiti (come annota impietosamente Marco in 14,50: «Tutti abbandonatolo fuggirono»), hanno rinfocolato e anche corretto la loro fede in Lui, a motivo di una nuova insospettata esperienza sopraggiunta, che rappresentò per loro uno stimolo straordinario. L’insieme del Nuovo Testamento non fa altro che presentare e quindi attestare la molteplicità delle interpretazioni provenienti dalla fede in questo Yehoshua crocifisso-risorto e che sono state date a partire, come si diceva sopra, dalla confessione di Lui come Cristo, cioè come Unto/Messia. A partire di lì, anzi in concomitanza con questa dichiarazione, si passò alla confessione di lui come Kyrios/Signore. Su questa base si tratteggiarono altri ritratti di lui, cioè si fecero altri passi ermeneutici per spiegare la sua identità. Attraverso il paolinismo, che vede in Gesù il liberatore radicale dell’uomo da se stesso, si va alle definizioni di alto profilo che Giovanni dà di lui nel suo Vangelo, per arrivare fino all’agnello sgozzato ma paradossalmente ritto in piedi, di cui parla l’Apocalisse, per non dire della originale categoria di Sacerdote sviluppata dall’autore della Lettera agli Ebrei (e applicata a un ebreo che dal punto di vista socio-religioso era un laico!).
Ecco, questo è il Gesù completo della fede cristiana, che nella storia ha i piedi saldamente fissati, pur trascendendola. Ed è il Gesù che continua a stare davanti ai nostri occhi, essendo «lo stesso ieri, oggi e in futuro» (Ebr 13,8).
[1] Tralascio di menzionare recenti pubblicazioni appartenenti a una letteratura di intrattenimento o di consumo, cioè romanzesca o comunque preconcetta, e rimando invece a questi titoli molto più seri: W. Stegemann, B.J. Malina, G. Theissen, Il nuovo Gesù storico, Paideia, Brescia 2006; G. Segalla, Sulle tracce di Gesù. La “Terza ricerca”, Cittadella, Assisi 2006; A.-J. Levine, D.C. Allison Jr, J.D. Crossan, The Historical Jesus in Context, Princeton University Press, Princeton & Oxford 2006; J.D.G. Dunn, Gli albori del cristianesimo – La memoria di Gesù, 3 voll., Paideia, Brescia 2006-2007; P.R Eddy & G.A. Boyd, The Jesus Legend. A Case for the Historical Reliability of the Synoptic Tradition, Baker Academic, Grand Rapids MI 2007; R. Penna, Gesù di Nazaret: la sua storia, la nostra fede, San Paolo, Cinisello Balsamo 2008.
[2] A. von Harnack, Das Wesen des Christentums,
[3] Cf. per esempio R. Schnackenburg, La persona di Gesù Cristo nei quattro Vangeli, Paideia, Brescia 1995; R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria – II. Gli sviluppi, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, 329-456.
[4] Illuminante a questo proposito è lo studio del filosofo L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971. Vedi anche la cosiddetta «Ecole des Annales» e in particolare l’opera di H.-I.Marrou, De la connaissance historique, Paris 21975, secondo cui «la storia è inseparabile dallo storico» (p. 297).
[5] Cf. l’elenco che ne fa J.P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico – I. Le radici del problema e della persona, Queriniana, Brescia 2001, 156-184.
[6] Cf. H. Cousin, Le prophète assassiné. Histoire des textes évangéliques de
[7] La ricostruzione storica del solenne ingresso a Gerusalemme (cf. Mc 11,1-11/Mt 21,1-11/Lc 19,28-40) non è facile. Certo si deve tener conto della redazionalità del testo per più motivi: sia perché sembra presentare la venuta di Gesù a Gerusalemme come la prima, mentre ciò non è vero (cf. Mt 23,37 / Lc 13,34s), e sia perché il racconto andrebbe comparato con quello del solenne ingresso di Alessandro Magno nella stessa Gerusalemme, narrato da Fl. Giuseppe (cf. Ant. 9, 329-339). Peraltro, nel racconto sinottico non si trova l’acclamazione a re (cosa del resto impossibile, tenuto conto della cavalcatura e dell’assenza di armi). Al più si può citare l’interessante detto di Rabbi Yehoshuah ben Levi (circa 250): «Se gli Israeliti ne sono degni, egli viene con le nuvole del cielo (cf. Dan 7,13 = il Figlio dell’uomo); se essi non ne sono degni, egli viene povero a cavallo di un asino (cf. Zac 9,9 = il re di Gerusalemme)» (Talmud babilonese, Sanhedrin 98a).
[8] In breve, cf. l’utile libretto di G. Giavini, I vangeli e il loro Gesù, ovvero cinque sotto inchiesta, Centro Ambrosiano, Milano 2007, specie 25-37.
[9] Cf. Plutarco, Vita di Alessandro, 18: «Molti storici dicono che Alessandro non riuscì a sciogliere i legami, poiché i loro bandoli erano nascosti e avvolti uno dentro l’altro con molti giri aggrovigliati; perciò egli tagliò il nodo con la spada … Invece Aristobulo racconta che Alessandro sciolse con estrema facilità il legame togliendo il cavicchio, come viene chiamato, da cui il giogo era tenuto sul timone, ed estraendo quindi il giogo stesso». Vedi anche lo studio complessivo di R. Penna, «Kerygma e storia alle origini del cristianesimo: le narrazioni evangeliche e le più antiche biografie di Alessandro Magno», in Id., Vangelo e inculturazione, SBA 6, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 231-251.
[10] Tralasciamo solo alcuni personaggi che, pur importanti, sono però attestati con ancora minore ampiezza, come R. Gamaliele il Vecchio (nipote di R. Hillel e maestro di san Paolo [cf. At 22,3]), R. Gamaliele II (nipote del precedente e successore di R. Yohanan ben Zakkai a Yabne), R. Hanina ben Dosa (su cui cf. G. Vermès, Gesù l’ebreo, Borla, Roma 1983, 84-91), e R. Elisha ben Abuya che fu scomunicato per apostasia (e perciò soprannominato ’Aher,«l’altro»).
[11] Lasciamo da parte, sia la figura di Erode il grande e della sua famiglia, che non era neppure di provenienza ebraica (cf. Fl. Giuseppe, Antichità giudaiche 15,1-17,205; Guerra giudaica 1,347-673), sia dello storico Flavio Giuseppe, di ascendenza sacerdotale, che scrisse un autobiografia (cf. Vita) ma che a sua volta non ha ottenuto attestazioni degne di rilievo.
[12] Cf. l’edizione completa in italiano a cura di F. Garcia Martinez e C. Martone, Testi di Qumran, Paideia, Brescia 1996.
[13] Cf. P. Sacchi, Storia del Secondo Tempio. Israele tra VI secolo a.C.e I secolo d.C., SEI, Torino 1994, 207-209.
[14] Talmub babilonese, Shabbàt 31a.
[15] Però cf. ora Mireille Hadas-Lebel, Hillel, maestro della Legge al tempo di Gesù, Portalupi Editore, Casale Monferrato 2002. Vedi anchde l’interessante saggio del ricercatore ebreo D.Flusser, «La consapevolezza di sé in Hillel ein Gesù», in Id., Il Gudaismo e le origini del Cristianesimo, Marietti, Genova 1995, 157-162.
[16] Avot deRabbi Natan A,4.
[17] Cf. però recentemente Jacob Neusner, A Life of Yohanan ben Zakkai, ca. 1-
[18] Talmud babilonese, Berakôt 61a.
[19] Cf. tuttavia Pierre Benoit, «Rabbi Aqiba Ben Ioseph, saggio ed eroe del giudaismo», in Id., Esegesi e teologia, Edizioni Paoline, Roma 1964, 627-684.
[20] Cf. anche l’aramaico «Rabbunî» in Mc 10,51; Gv 20,16; e i corrispettivi greci epistàtes (Lc 5,5; 8,24.45; 9,33.49; 17,13) e didàskalos (Mc 4,38; Mt 8,19; Gv 1,38; ecc.).
[21] E questo, benché ci siano stati dei Rabbi di nome Yehoshua; cf. sopra: Nota 7; e il Dizionario curato da Dan Cohn-Sherbok, Ebraismo, ed. it. a cura di Elena Loewenthal, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, 588-589.
[22] Cf. i testi in R.Penna, L’ambiente storico-culturalke delle origini cristiane. Una documentazione ragionata, EDB, Bologna 42000, 261-265.
[23] Il primo libro di un ebreo su Gesù fu di J. Klausner, Jesus of Nazareth, New York 1925 (uscito prima in ebraico a Gersusalemme nel 1922). Più in generale, vedi P. Lapide, Israelis, Jews and Jesus, Doubleday, Garden City 1979 (pp. 3-34: «Jesus in Hebrew Literature»); e J.H. Charlesworth, L’ebraicità di Gesù, Claudiana, Torino 2002.
[24] Su tutti questi autori, cf. R.E. Van Voorst, Gesù nelle fonti extrabibliche. Le antiche testimonianze sul Maestro di Galilea, “Studi sullaBbbia e il suo Ambiente” 9, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004; vedi anche R. Penna, L’ambiente, cit., 270-
[25] Cf. il giudizio che di lui ci offre il filosofo ebreo contemporaneo di Gesù stesso, Filone Alessandrino, Legatio ad Caium §§ 301-302.
[26] La sola eccezione sono le tardive Toledôt Yéshu, un’opera che contiene la storia di Gesù scritta in ambito giudaico alto-medioevale per denigrarlo. Vedine l’eccellente edizione italiana curada R. Di Segni (quando non era ancora Rabbino Capo di Roma), Il Vangelo del Ghetto, Newton Compton, Roma 1985 (cf. anche la sua ammissione a p. 12: «È certo errato pretendere di trovare la verità su Gesù nelle pagine delle Toledòt»!).