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    Carmine Di Sante

    (NPG 2006-01-42)


    Passando dal racconto fondatore a quello rifondatore, i temi di quest’ultimo sono soprattutto quattro: la passione, la risurrezione, lo spirito e la missione. Si tratta di temi legati esclusivamente alla vicenda di Gesù, per cui il loro spessore prima che simbolico è esistenziale, nel senso che non rimandano in primo luogo a ciò che Dio ha operato con un determinato popolo e in un determinato luogo geografico (l’Egitto, il deserto, la montagna e la terra di Canaan), ma a ciò che egli ha operato nell’esistenza e con l’esistenza dell’uomo Gesù di Nazaret e come, attraverso questa esistenza, si sia finalmente realizzato quel principio di alleanza svelato dal racconto fondatore ma impietosamente smentito dalla storia.
    Il Nuovo Testamento è il racconto – e per questo è rifondatore – di cosa è accaduto tra Gesù e Dio, tra la risposta di quest’ultimo e la parola del primo, e di come, in forza di questo incontro o dialogo, si è riaperta per l’umanità la possibilità edenica, la possibilità di abitare il mondo secondo la volontà creatrice. Per il Nuovo Testamento questo incontro o dialogo attraversa tutta la vita di Gesù: il periodo della sua attività pubblica, quando percorre le vie della Galilea e della Giudea sanando ogni sorta di malattia (cf Mc 1, 29ss); quello della sua predicazione, quando annuncia che «il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1, 15); quello dei suoi quasi trent’anni di vita anonima quando vive nella casa di Nazareth in compagnia dei genitori e dei vicini di cui il terzo evangelista si limita ad osservare che vi cresceva «pieno di sapienza» e che «la grazia di Dio era sopra di lui» (cf Lc 2,40); la sua stessa nascita, che i racconti dell’infanzia di Matteo e di Luca narrano avvenuta per intervento diretto di Dio; e, per il quarto evangelista, con una intuizione vertiginosa, il tempo anteriore alla sua stessa nascita quando, nel seno del Padre, i due si parlavano, come vuole il prologo.
    Per il Nuovo Testamento, però, c’è un momento dove questo dialogo o incontro raggiunge il suo culmine, ed è da questo culmine che esso legge e rilegge l’intera esistenza di Gesù di Nazareth: il suo passato, fino alla nascita e allo stesso periodo anteriore alla nascita, come si è appena visto, e il suo futuro, come vedremo fra poco con la risurrezione, l’invio dello Spirito e la missione. Questo culmine, chiamato da Giovanni ora («non è giunta ancora la mia ora», «è giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre»), in cui Gesù decide di sé, dicendo di sì a Dio e, dicendo di sì a Dio, decide di Dio, lasciandolo rientrare nella storia attraverso il suo libero acconsentimento (dove sono in gioco due libertà, la volontà dell’uno passa attraverso il libero acconsentimento dell’altro!), per i vangeli è la sua passione che si conclude con la condanna a morte sulla croce.
    Dentro questa passione e morte ignominiosa – che con un termine tra i più sublimi e ambigui del linguaggio è stato chiamato sacrificio – è accaduto un qualcosa per cui l’uomo e Dio sono tornati ad essere amici come nel giardino dell’eden prima del peccato, ed è in forza di questo qualcosa accaduto sulla croce che l’uomo di Nazareth è diventato Cristo, cioè Messia, colui in forza del quale il mondo ha ritrovato la via della giustizia e della pace.
    Al centro del racconto rifondatore c’è quindi la passione di Gesù, il suo soffrire e il suo morire. Comprendere il Nuovo Testamento è osare penetrare il senso di questo paradosso da sempre scandaloso e inquietante («come è possibile che è nel patire che Dio e Gesù ci salvano?) per scorgere, almeno per un istante, il lampo di luce abissale che in esso si cela e si svela.
    Cuore del racconto rifondatore, la passione di Gesù è innanzitutto il simbolo della passione degli uomini e delle donne di tutti i tempi. Gesù non è stato né il primo né l’ultimo a patire, né quello che ha patito più degli altri (e non è poi ogni sofferenza smisurata per cui pretendere di misurarla è disumano?), ma nella sua passione, nella sua cruda dimensione iniqua e scandalosa, è come se si convogliasse e esprimesse l’orrore del patire di tutta la storia umana che da sempre è storia di sofferenze, se solo si pensa ai flagelli della fame, delle epidemie e delle guerre (non si dimentichi che fino a poco fa si pregava «a fame, peste et bello libera nos, Domine») e, oggi, a buona parte dell’umanità del terzo e quarto mondo.
    Più che del patire umano la passione di Gesù però è soprattutto il simbolo della violenza umana perché – cosa da non dimenticare – la sofferenza che Gesù patisce non è quella naturale, come sarebbe il caso di un bambino che muore prematuramente o di un anziano che muore a casa o in ospedale, ma prodotta dalla violenza e, nuovo paradosso, una violenza non spontanea o brada ma legittimata, dal momento che la condanna a morte fu voluta e comminata dall’autorità romana e dalle autorità giudaiche. La passione di Gesù non è solo il simbolo della sofferenza umana né solo il simbolo della violenza, ma soprattutto il simbolo della sofferenza prodotta dalla violenza che si legittima e che, legittimandosi, si occulta e si vive come non violenza.
    Colpito dalla Crocifissione di Mathias Grünewald dipinta nel 1516 a Colmar in Alsazia, di fronte alla quale rimase in contemplazione per un giorno intero, Elias Canetti, Premio Nobel per la letteratura nel 1981, scrive:

    «Guardavo il corpo di Cristo senza lacrimevole smarrimento, lo stato orripilante di quel corpo mi sembrava vero, e davanti a quella verità compresi ciò che mi aveva turbato nelle altre crocifissioni; la bellezza, la trasfigurazione… Ciò da cui nella realtà avremmo certo distolto lo sguardo con raccapriccio qui, in questo dipinto, era ancora possibile coglierlo nella sua pienezza: un ricordo dell’orrore… Troppo spesso, forse, il compito più insostenibile dell’arte è stato dimenticato: non è la catarsi, né la consolazione, né il talento di disporre ogni elemento in funzione di un lieto fine. Perché il lieto fine non ci sarà. Ma peste, e piaghe, e tormento, e orrore – e se la peste ha smesso di infierire, al suo posto inventiamo orrori più atroci. Che cosa possono le illusioni consolatorie, dinanzi a questa verità? Essa è sempre uguale a se stessa e deve rimanere dinanzi ai nostri occhi. Tutti gli orrori che incombono sull’umanità sono anticipati in questo dipinto. Il dito di Giovanni [che nel quadro con il suo enorme indice addita il crocifisso], mostruosamente, lo dice: così è adesso e così sarà ancora. E qual è il significato dell’agnello in questo paesaggio? Era questo l’agnello, quest’uomo che imputridisce sulla croce? È cresciuto, è diventato uomo per essere inchiodato alla croce e farsi chiamare agnello?» (in S. Quinzio, La croce e il nulla, Adelphi, Milano 1984, pp. 103-104).

    Non si può, se credenti e lettori del Nuovo Testamento, seguire Canetti nel suo amaro disincanto che lo porta a confessare, vedendolo incarnato nel dito stesso del Battista, che l’orrore è ineliminabile dalla storia («così è adesso e così sarà ancora»). Ma, per penetrare il paradosso abissale del racconto rifondatore non si può non partire da questo orrore della croce, in cui si condensano tutti gli orrori della storia, che Gesù assume per introdurvi dentro il principio della risurrezione.


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