Pastorale giovanile e territorio /3
Ivo Lizzola
(NPG 2005-05-59)
Quale orizzonte di convivenza e di futuro disegnano le relazioni territoriali?
“Chi vuol portare uno sguardo alla persona, alle situazioni nascenti e sofferenti, a terre nuove e cieli nuovi non può che dedicarsi all’elaborazione di un ‘pensiero viandante’ (Franca Olivetti Manoukian), di un ‘pensiero concavo’. Aperto e plurale, capace di ascoltare e cogliere vissuti e questioni delicati e complessi” (Ivo Lizzola).
L’articolo che segue - in questa proposta di riflessione-azione sul territorio - è denso e di non facile lettura, ed esige calma, meditazione, riflessione.
Lo proponiamo perché non vogliamo “scivolare” immediatamente nelle questioni tecniche dell’incontro tra la pastorale giovanile e le realtà presenti in un territorio.
Nella frammentazione di oggi possiamo invece essere segno ed esperienza di grande unità, nel nome di quel mandato dove “nulla vada perduto”.
E la libertà che dimostreremo, di tenere salda la priorità del bene dei ragazzi, prima e più ancora dei nostri schemi e delle nostre strutture, ci meriterà il diritto di essere “profezia”, in un tempo dove ognuno pare soltanto badare alla propria sopravvivenza.
E alla domanda “che cercate?” potremo rispondere con una incredibile qualità di relazioni e con una totale gratuità di impegno: questo ci darà forza e credibilità per essere non solo riconosciuti, ma anche sostenuti da un territorio.
d. Pier Codazzi
(referente per l’ODL rapporti con la regione Lombarda)
Nell’articolo che segue si parlerà di pastorale giovanile, cioè di modalità della comunità ecclesiale di essere proposta di senso per i giovani in situazione di vita, là dove essi vivono il quotidiano dispiegarsi della loro esistenza.
Ma per rendere più concreto e verificabile il discorso, parleremo di “oratorio”, come una modalità – conosciuta ai lettori e altamente significativa – per dire presenza della comunità ecclesiale con i giovani e a favore dei giovani “collocata” nella vita e nell’intreccio delle relazioni sociali.
In rete con i vissuti prima che con i “presidi”
Occorre avere attenzione all’intreccio inedito che vivono le nuove generazioni tra forme di legame sociale e nuove “combinazioni” di significati, tra il senso personale attribuito alle scelte e la condivisione di attribuzioni di valore, tra esercizi di autonomia e fatiche relazionali.
Sono intrecci inediti che portano in sé anche i giovanissimi e le ragazze dei gruppi che “sostano”, o attraversano, o vivono esperienze e storie negli oratori. Anche essi vivono i processi tipici della società del rischio, processi che minano o condizionano la funzione sociale, culturale ed educativa, delle agenzie educative e degli stessi gruppi.
Anche quelli dei ragazzi d’oratorio (o in oratorio) sono gruppi che vivono la “fatica a fare e stare gruppo”, perché le risorse emotive e culturali per fronteggiare i problemi complessi di costruzione dell’identità, di collocazione sociale e lavorativa, di comunicazione dei componenti mettono alla prova i legami. E le tensioni, le contraddizioni che si aprono nelle biografie dei giovanissimi sono a volte insostenibili.[1]
Sono gruppi, anche quelli dentro, non solo quelli sui cancelli degli oratori, dai percorsi variegati: a rischio di implosione per il bisogno d’autoprotezione; o segnati da legami gregari e di dipendenza consumistica per la pressione dell’angoscia; oppure segnati da frammentazione progettuale. Gruppi nei quali possono anche svilupparsi culture del fare, o cure della vita, e i luoghi educativi e istituzionali, in modo attento e coordinato, si fanno “sponda” e luogo di riconoscimento e “nominazione”. Riconoscendosi a vicenda.[2]
È un gioco di “sponda” nel quale assume un ruolo importante, forse decisivo, l’impatto educativo del lavoro quotidiano di educatori, insegnanti, formatori, allenatori. In un processo che offre, e costruisce, abitabilità e protagonismo con ragazzi che provano, e trovano, un nome e un “posto” mentre costruiscono conoscenza, apprendimento, “lettura” del mondo.
Quella che va accolta e riconosciuta, così, è la rete dei tempi di vita, dei riferimenti simbolici, dei luoghi troppo saturi, o insaturi, nei quali si tesse la trama biografica delle ragazze e dei ragazzi, e dei loro composti-scomposti gruppi. Questa rete è il territorio affettivo e cognitivo del gruppo, spesso senza mappa, senza itinerari di attraversamento. Il territorio dei “presidi” educativi, delle sorgenti di memoria e testimonianza dell’umano e del senso, delle forme istituite della convivenza può accogliere la domanda di incontro e di esperienza di singoli, ma anche di gruppi che possano attrezzarsi ed esprimere una funzione di “metabolizzazione culturale ed etica” e di “capacitazione” delle giovani generazioni “nel maturare anticorpi e progettualità inedite nella società del rischio”.[3]
Un oratorio “in rete” è, anzitutto, un oratorio attento a tenere sguardi e collegamenti con la rete di vissuti, storie, luoghi, linguaggi, esperienze… dei giovanissimi. Con attenzione e sguardo aperto, non orientato, capace di cogliere, decodificare messaggi, domande, attese. E ad usare linguaggi e forme, ritmi e proposte che esprimano attesa, anche attesa esigente verso le ragazze e i ragazzi: ad un gioco di sé nella vita, e nelle concrete trame della convivenza e del mondo. Attesa della loro novità, della loro parola. Attesa che nasce da una Promessa, e da un Annuncio; attesa che nasce dall’invito a incontrare nella storia di Gesù l’avventura dell’umano.
Ma questa capacità di stare in rete con le trame delle biografie che si scompongono-ricompongono chiede di innescare relazioni di riconoscimento tra gli attori sociali e le presenze adulte e giovani in gioco, a partire dalle famiglie. Chiede anche di consolidare spazi e momenti di ricerca, di dialogo su esperienze e progetti con altre agenzie e con i servizi. Infine chiede di connettere e intrecciare i propri con più punti di vista e ipotesi di lettura, in una riflessività aperta nelle comunità e nei territori.
Oratori che promuovono, o si lasciano coinvolgere in queste trame di lavoro sociale, possono portare una sensibilità e una particolare attenzione alle singolarità dei cammini di crescita delle ragazze e dei ragazzi considerati nella loro complessità e nella loro storia. Orientando così il confronto e l’incontro tra educatori e operatori sociali verso l’assunzione di una prospettiva che ricerchi il senso della relazione educativa (o di aiuto) nel suo essere luogo di apertura a nuovi significati dell’esistenza.
Si tratta di accogliere e ricomporre rappresentazioni dei problemi, di costruire e decostruire formulazioni e percezioni; di assumere e interrogare le domande. Perché nella convivenza, nei servizi, nelle professioni, negli esercizi di responsabilità, tutela e governo…, nelle comunicazioni, tra loro, nei confronti, nei tavoli, resti aperta la ricerca di un senso e d’un valore di nuovo indagati. Senso e valore ridetti e riaperti nelle loro presenze, nei saperi e nei poteri, chiamati a buone consegne e buoni sostegni verso chi, crescendo, vive l’esperienza di una nuova nascita.
Un oratorio può portare storie, esperienze, riflessione e vocazione per aprire, dentro un territorio, a questo sguardo. “Che cercate?” (Gv 1,2). Forse la fragilizzazione della nostra società, il senso profondo di incertezza, quando non d’angoscia, in cui paiono crescere i problemi mentre decrescono le risorse per affrontarli (materiali, ma anche psicologiche, affettive, culturali, di fiducia), può essere fronteggiata e resa abitabile in una direzione diversa dal rivendicazionismo, dal risentimento, dal ripiegamento, dalla risoluzione a tutti i costi e dalla semplificazione un po’ ottusa.
È possibile lavorare, trovare un senso non “aggiuntivo” alla propria presenza nell’operare verso convergenze sugli orientamenti valoriali, sulla lettura dei problemi, sulla possibilità di riconoscere la parzialità degli interventi, sulla pratica di nuovi legami sociali. Lavorare per far crescere coesione sociale, senso e pratica della responsabilità condivisa, riconoscimento reciproco e attenzione alle fragilità è un orientamento eludibile per una pastorale giovanile? Per un annuncio che radica nell’essere figli dello stesso Padre, una vocazione all’affidamento reciproco, fraterno anche attraverso il quale “rendere ragione della speranza che ci abita” (1Pt 3,15).
Le conchiglie e le perle
Se è vero, come sostiene una sensibile osservatrice delle dinamiche sociali e culturali quale Franca Olivetti Manoukian, che da diversi anni “sono andate in crisi le shell institutions, le istituzioni-conchiglia (la famiglia, la parrocchia, il partito di massa, la fabbrica, la scuola), che avevano la funzione di organizzare il buon funzionamento della società”,[4] occorre ripensare e praticare funzioni non solo di regolazione sociale, ma anche di tessitura di un ethos condiviso, organizzando vita sociale, progettazione e responsabilità attorno ai luoghi fondativi il legame di convivenza: il nascere, il crescere, l’educare, il curare, il far famiglia, il morire. “Situazioni etiche”,[5] potremmo dire, in cui costruire “pensieri accomunanti” con l’apporto di più soggetti (e più culture, più competenze) perché prendano cultura e realtà nuove politiche sociali.[6]
Serve chi assuma il compito di con-vocare la società a prendere contatto con i nodi della consegna e della relazione responsabile tra le generazioni, e a prendere contatto con le proprie parti più opache, disorientate, o sofferenti e ripiegate. Tenere inscritte nella convivenza le nascite, le crescite, e le sofferenze, i disagi: chiede cura, dedizione, senso della fraternità, speranza. Chiede donne e uomini giusti.[7]
Chi può spingere alla responsabilizzazione condivisa se non chi conserva codici di presenza educativa e di azione sociale svincolati dalla settorializzazione o da proposte selettive/elettive, come forme di relazione duale con “utenti” o altri interlocutori istituzionali: e da azioni legate solo ad una, propria appartenenza, o a un proprio ruolo?
È molto importante che un oratorio rifletta sui codici culturali di cui è portatore. A volte lo è per tradizione, o per routine: quindi inconsapevolmente segnati da autosussistenza organizzativa. Si tratta di riconoscersi nel proprio fare, pensare, relazionarsi aprendo saperi pre-costituiti, visioni della realtà e della propria missione un poco segnate dall’inerzia.
La capacità di conoscere e agire è sostenuta, e insieme invischiata, dai modi di fare e di rappresentarsi istituzionalizzati. Simone Weil ci rende avvertiti circa il nostro essere sempre in qualche modo “circondati dal nostro sguardo”.
Chi vuol portare uno sguardo alla persona, alle situazioni nascenti e sofferenti, a terre nuove e cieli nuovi non può che dedicarsi all’elaborazione di un “pensiero viandante” (Franca Olivetti Manoukian), di un “pensiero concavo”. Aperto e plurale, capace di ascoltare e cogliere vissuti e questioni delicati e complessi.
Incontenibili, questi, negli specialismi, e approssimabili solo da interazioni tra persone, contesti e focalizzazioni diverse dei problemi. Approssimarsi costruendo pensiero, è anche trovare orientamenti, evidenziare il senso di scommessa e di evoluzione.
Interagire in prossimità e distanze
È ben difficile ridurre ciò che avviene in un oratorio a una relazione duale: a una domanda/offerta, a una erogazione di servizi, ad una risposta ad una committenza, alla “proposta di beni e opportunità identitarie”.[8]
Ed è difficile leggere lo stesso rapporto tra oratorio e territorio entro “relazioni duali”: di solo scambio funzionale, di accredito di servizi, di accesso e utilizzo di spazi e strutture.
I nostri oratori ospitano, o vedono transitare ragazzi, giovani e adulti portatori di storie diverse e complesse che rinviano a reti familiari, a storie di migrazioni, a separazioni, a bisogni di riorganizzazione e cura, a dissesti di economie domestiche per crisi occupazionali…
Catechesi e attività formative, pratica sportiva e organizzazione di luoghi d’aggregazione e incontro, laboratori e “doposcuola”, come spiritualità, pratica liturgica e volontariato ed esperienze “forti”: sono tutte occasioni di incontro di rilettura, di ascolto di storie di minori e di storie di famiglie.
Storie che richiamano a legami, relazioni, sostegni reciproci con Istituti scolastici, amministratori, associazioni varie, gruppi di genitori, e anche negozianti e imprenditori, servizi per la salute mentale, per le famiglie, strutture per l’handicap o per gli anziani, comunità…
Interagire con le famiglie, le reti di prossimità delle persone, perché il tempo si riveli (ancora) abitabile, e si riaprano speranze e attese di vita buona, per chi anima un oratorio e coglie gemiti e fremiti delle biografie, si rivela connesso quasi inevitabilmente con il partecipare, o il dare vita a contesti di inter-relazione nei quali portare la domanda “che cercate?”. Portarla alle presenze di Enti e di professioni, a esercizi di ruolo e responsabilità civile, a imprenditori e cooperatori, a insegnanti e operatori di servizi.
Il disagio sociale e relazionale, il disorientamento esistenziale, può trovare luoghi di sostegno ed elaborazione non perché l’oratorio (o la parrocchia, la caritas locale…) lo assume “in proprio”, o “in toto”, magari attraverso una delega istituzionale, sostenuta da finanziamento e “accredito”.
In nome del principio di sussidiarietà si possono anche richiamare gli oratori a esercitare funzioni di supplenza sociale, di assistenza al disagio, di supporto all’inserimento scolastico. Cooperando alla invisibilizzazione della domanda di relazione e senso che provoca e interpella la convivenza, le sue regole, le sue forme.
Ma negli oratori si può vivere anche la tentazione di realizzare un’esperienza “totale” di crescita e appartenenza: concentrando scuola, tempo libero, servizi per il disagio e il sostegno alle famiglie, o per il lavoro interinale, consulenza psicologica e relazionale, servizi alla cooperazione, insieme a catechesi, spiritualità, sacramenti e liturgia.
In sforzi d’estensione della presenza e di perimetrazione al limite dell’impossibile. Con un “abbandono” di spazi sociali, di condizioni di vita, di interazioni con altri soggetti (o con una presenza solo funzionale, agonistica, negoziale), carico di rischi e ambivalenze. E produttore di proiezioni negative e di forme di distanziamento.[9]
Storia, territorio, relazioni, progetto, sostegno…: sono parole che hanno senso, che esprimono una tonalità umana, uno spazio di significatività tra le generazioni se esiste una coltivata dimensione di prossimità responsabile, di storia condivisa, di abitabilità comune e vissuta in una tessitura di legami, in una pratica che istituisca le forme della convivenza sociale. Dicono tutt’altro se i rapporti interpersonali e sociali, se le prospettive dei singoli e dei soggetti sociali, se le forme di servizio e i comportamenti sono privatizzati, o privatistici.
Vincenzo Bonandrini, sociologo e formatore, ripeteva che comunità è ciò che è comune tra quelle donne e quegli uomini; ciò che è fatto in comune, preso in comune.[10] Reciproca cura; fede comune; evidenza etica che accomuna; speranza che raccoglie. Costruire uno “spazio comune” è, allora, la dimensione fondativa di una progettazione sociale che è salvaguardia di identità e di buone ricerche di senso, di vocazioni, di attese di futuro e di giustizia dentro la convivenza.
Quelle delle famiglie che incontrano gli oratori, che entrano nelle loro proposte, sono storie, sono cammini. In queste storie di vita giovani e adulti, donne e uomini, sono chiamati a nuove nascite, a nuovi inizi: da sostenere con affidabili vicinanze, e con positive attese da parte di altre famiglie, e della convivenza sociale. Si vivono anche transizioni delicate a diversi livelli: da accompagnare, nelle quali non far mancare relazioni e competenze; o momenti di disorientamento: nei quali servono mappe, indicazioni, opportunità, per nuove scelte. Tratti di questi cammini familiari sono ricchi, “accumulo” di energie, di senso, di potenzialità d’iniziativa e di responsabilità: da valorizzare, riconoscere, da invitare alla mutualità, alla ridiffusione.
Le difficoltà, i cambiamenti che attraversano l’ambiente di vita delle reti familiari, e quelli che al loro interno si generano, chiedono capacità di costruire nuovi equilibri, nuove combinazioni di risorse. Chiedono capacità di adattamento, di resistenza nella prova; chiedono esercizi di volontà, di cura, di progetto condiviso con altri. Chiedono capacità di relazione, di incontro e di condivisione.
È inter-dipendendo, recuperando senso e tratti di una avventura (a-venire), incontrando dimensioni di speranza e fiducia, aprendo esperienze condivise; è ri-componendo tempi e trame del vivere personale e del vivere con altri, della dedizione e dell’offerta, che si cresce, che faticosamente si cresce.
Ritessere legame sociale chiede una pratica diffusa nel restituire a verità – in densa umiltà – pratiche di nominazione dentro la convivenza, dentro i processi sociali. Chiamare per nome da dentro i depositi di comunità, della storia, delle memorie è questione anche di qualità della consegna. Ed è questione di capacità di connettersi con la memoria delle generazioni e dell’umanità, di senso del debito, e della vicinanza fraterna ai sogni e alle prove di donne e uomini dei tanti passati vicini e lontani.
Strategie della vita
Vi è una novità “antropologica” che sta prendendo forma nella nostra convivenza, e nella storia delle famiglie e delle relazioni tra famiglie. Novità che chiama a rivisitare la centralità della cura e della vulnerabilità nel costituire relazioni tra noi. È una novità non in assoluto, se non per la sua diffusione, e la potremo tratteggiare nei termini che seguono. Nasciamo figlie e figli, tutti, affidati; diventeremo, crescendo, affidabili, nelle famiglie e nella vita sociale, molti come padri e madri dei propri figli certamente. Misureremo la qualità e l’attenzione di questa affidabilità quando, nel percorso della vita, le nostre madri e i nostri padri ci verranno affidati come (un poco) dei figli, fragili. Diventeremo (un poco) loro padri e madri, per poi, dopo un po’, affidarci nelle mani dei nostri figli e delle nostre figlie, a nostra volta.
Oggi questo è richiesto. La realtà dell’essere affidati e dell’essere affidabili all’interno delle famiglie e delle reti delle famiglie; come la necessità, il valore, la bellezza di essere capaci di cura, capaci di esercizi di responsabilità da parte dei minori, vanno fatte maturare, richiamate e sostenute il più precocemente possibile. È una prospettiva educativa che incrocia la novità antropologica del rapporto tra le generazioni e delle storie delle nostre reti familiari e di prossimità.
Se non si cureranno nella convivenza, nel territorio, nel contesto comunitario (quello che tessono i servizi sociali e sanitari, la scuola e certo gli oratori), esperienze, pratiche che costituiscano in responsabilità i nostri ragazzi e le nostre ragazze, sarà molto difficile che questa svolta culturale, sociale e antropologica possa essere vissuta senza aprire a conflitti tra le generazioni. E a realtà di nuove esclusioni, e di abbandono indifferente.
Politiche per la famiglia e politiche sociali che individuano prevalentemente tipologie di bisogno o patologie, da un lato, o soggetti (associazioni familiari, gruppi di ragazzi e giovanissimi) già attivi verso i servizi o nel volontariato, rischiano di lasciare un po’ al loro destino le famiglie “normali”, quelle “senza tempo”, affaticate, con qualche sofferenza dentro; e i minori, o gli anziani, che vivono fatiche e qualche normale disagio nel crescere. A rischio di solitudine, e di “cumulo”.
Occorre fare attenzione alle tentazioni del definire, del diagnosticare, dell’isolare i problemi: è bene guardare all’interazione più che al problema, alla natura dialogica e relazionale dei passaggi, delle difficoltà, dei riorientamenti possibili. Aiutare famiglie e minori a muoversi per strategie, a non lasciarsi leggere nel (e ridurre al) problema che si porta, a trovare punti di appoggio (e a offrire punti di appoggio) nella trama di relazioni e presenze nel territorio. Questo chiede sviluppo di comunità, tessitura di legami, progettualità sociale.
Ma solo chi è fortemente legato e attento alle ricerche e alle normali fatiche, al diffuso disagio nel reggere e nel crescere può portare questa visione, questo richiamo nel “gioco di comunità”. Non portando interazioni e letture personali, o troppa ansia di affermazione, di ricerca di spazio e di riconoscimento per sé. Un oratorio, le diverse forme della sua presenza e progettualità, la sua presenza fecondatrice, positivamente “dissipata” nelle trame che connettono la vita e le forme delle relazioni d’una comunità può essere soggetto credibile, forte della sua logica di non-potenza, per favorire la creazione di sguardi attenti, plurali e di gesti attenti, scambiati.
Cominciano ad intravedersi oggi strategie di iniziativa sociale, di pedagogia sociale tese a “inscrivere” nel contesto territoriale le vite, i comportamenti, le difficoltà, proprio per cogliere i tratti di un contesto altrimenti poco individuabile (per il diffondersi di atomizzazione e “liquidità” come suggeriscono alcuni studiosi). Ricercando, rigenerando i “mondi della vita” nella vita sociale, come pure dentro, attorno, fuori dai servizi educativi, sociali, del tempo libero. Curando, anzitutto i legami dentro, attorno e tra le famiglie, e le persone. Così facendo si aprono contraddizioni nei meccanismi funzionali e nelle freddezze della convivenza, che proprio quei disagi spesso producono. E così facendo si trovano le alleanze, le convergenze per progettazioni sociali dialogiche per condividere valori e orizzonti di senso che, assumendo quei disagi, provano a riconoscerli, a farli evolvere, o a scioglierli.
Lavoro delicato, questo, che è di mediazione delle rappresentazioni dei problemi e di “pratica della libertà”, di coscientizzazione e responsabilizzazione. Tra più soggetti, più competenze e volontà. Lavoro che contrasta quella privatizzazione della vita sociale, come degli affetti, delle volontà, dei progetti, che produce effetti profondi sul legame sociale, sul modo di riconoscere le persone, le storie, la dignità umana.
La privatizzazione produce un effetto di insignificanza, di nascondimento dell’esperienza della marginalità o della difficoltà (del loro portato di dolore e di svelamento). Effetto pericoloso e pervasivo di immunizzazione morale.
Anche negli oratori abbiamo bisogno di osservare i processi attraverso i quali giungiamo a diventare “abitanti dei nostri contesti relazionali”[11] rendendoli così abitabili anche a chi vive con e tra noi. In questi processi noi possiamo renderci più consapevoli delle ombre che giocano in noi (i timori, le incertezze, le distruttività, le proiezioni, e i pregiudizi…) e anche delle luci, delle risorse, delle attese e delle accoglienze che ci muovono.
Possiamo fare attenzione ai nostri modi di “sentire” le relazioni con gli altri, con chi agisce accanto a noi; e con i nostri modi di fare e pensare. Apprendere a fidarsi e ad essere affidabili chiede una pratica, non agevole, si dà e si impone nella relazione. Se non la si vive “anestetizzata”, “neutralizzata” dal mito dello scambio, dell’efficienza, della diffidenza preventiva, della reticenza e della riserva.
In una convivenza che spinge all’anestetica e all’inimicizia possiamo portare ai tavoli e negli incontri il gusto per azioni non solo conformi a intenzioni e progettazioni, ma anche portatrici di un “di più”, d’una traccia simbolica. Del sentire la relazione che le porta, le azioni, come amicale, come sensibile e rispettosa per gli altri e per sé nella giusta leggerezza e distanza, e nell’attesa e nella consegna reciproca.
Relazioni capaci di inizio, di costruzione, nelle quali i soggetti si fanno parte danzante di azioni e conoscenze, di saperi ed emozioni.
“Che cercate?”: nelle organizzazioni, nei servizi, nelle iniziative? Nel fare, nel gestire, nell’erogare? Nella vostra (nostra) ansia di operatori, educatori, coordinatori, direttori…?
Nella fatica di tornare a far nascere, a cogliere origine e senso della propria presenza; nell’ascolto e nell’attesa che a volte apre, sospende o spacca i modi e i tempi operativi; nell’incertezza, nel fuggire le verifiche del consenso, nel non voler assumere conflitti, nel timore di esporsi al o iniziare il nuovo: in tutto questo “che cercate?”.
Può essere una buona domanda da serbare, da coltivare in sé, da aprire tra noi, con altri, in reti di relazioni, in “spazi comuni” che un poco vibrino dell’attesa di vita che abita tante storie di ragazzi e ragazze, di donne e uomini, affaticati e appassionati nell’avventura umana.
[1] AAVV, Ragazzi e periferie, EGA, Torino; AAVV, “Gruppi di ricombinazione dell’eterogeneità tra adolescenti” in Animazione Sociale, marzo 2003, pp. 30 ss.
[2] I. Lizzola, Educare dai margini, Celsb, Bergamo, 2003.
[3] AAVV, “Gruppi di ricombinazione dell’eterogeneità tra adolescenti”, op. cit.
[4] F. Olivetti Manoukian, “Il codice dell’azione sociale” in Discutere di lavoro sociale, a cura di R. Camerlinghi e F. D’Angella, EGA, Torino, 2004.
[5] F. Riva, Dialogo e libertà. Etica, democrazia, socialità, Città Aperta, Troina (Enna) 2003, I. Lizzola, “Ritorniamo tutti figli” in Janus, Roma, dicembre 2004.
[6] Gino Mazzoli, Fare osservazioni, Fondazioni Manodori, Reggio Emilia 1997; Ota De Leonardis, contributo di, Strutture e processi della qualità sociale, a cura di L. Bifulco, Officina edizioni, Roma, 2003.
[7] P. A. Sequeri, L’umano nella prova, Vita e Pensiero, Milano 2002; I. Lizzola, Aver cura della vita, Città Aperta, Troina (Enna) 2002.
[8] A. Melucci, Diventare persone, EGA, Torino.
[9] Pare solo avviata una riflessione in profondità attorno alla categoria di sussidiarietà, da ripensare profondamente: nella realtà multiculturale e dell’interdipendenza globale; di fronte all’estensione e al peso delle fragilità e delle vulnerabilità in società che ospitano reti familiari nelle quali convivono a lungo tre, e per tratti significativi, anche quattro generazioni; nella crisi del legame sociale e nella necessità di riarticolare il legame tra etica e democrazia. Su itinerari interessanti e diversi si muovono i contributi in: S. Zamagni - C. Vigna (a cura di), Multiculturalismo e identità, Vita e Pensiero, Milano, 2000; M. Magatti-C. Giaccardi, L’Io globale. Dinamiche della socialità contemporanea, Laterza, Bari, 2004; PP. Donati, Giovani e generazioni, Il Mulino, Bologna, 1997; F. Riva, op cit; A. Pavan (a cura di), Dire persona. Luoghi critici e saggi di un’applicazione di un’idea, Il Mulino, Bologna, 2003.
[10] V. Bonandrini, I giorni e l’evento, (a cura di W. Tarchini, I. Lizzola), Ed. Cens, Milano, 1996.
[11] S. Manghi, La conoscenza ecologica, Edizioni Cortina, Milano, 2004.