Aprile


Virginia Di Cicco

(NPG 2005-04-2)


Aprile 1974. Lisbona.
Qualcuno corse in cucina, quella mattina, a cercare sua moglie. Così mezzo svestito, ancora sporco di schiuma da barba… ma aveva bisogno di una conferma perché quella canzone erano anni che non si sentiva, che nessuno osava canticchiarla. Via, rimossa dalla memoria per non incorrere in un fallo involontario, la Polizia Segreta non era poi tanto comprensiva con le sviste. Eppure quella mattina la radio accesa, sintonizzata su una stazione al di sopra di ogni sospetto, la cattolica Radio Renascença, la stava proprio trasmettendo o forse la memoria gli stava tirando un brutto scherzo… Ecco, aveva bisogno di sua moglie. Finirono di vestirsi, veloci, così davanti alla radio come per paura che svanisse nel nulla, e nonostante i messaggi di rimanere in casa e non rispondere ad alcuna provocazione fossero chiari, si precipitarono in strada a guardare i colori della libertà. La gente, la loro gente, sventolava garofani rossi e li offriva ai militari che ne ornavano le canne dei fucili. Nessuno sparò un colpo nel Portogallo finalmente libero.

Aprile 1989. Pechino.
Non si era davvero mai visto. E meno che mai a Pechino. Un funerale allegro, il funerale di Hu Yaobang, ex segretario generale del Partito Comunista Cinese, allontanato due anni prima, accusato di essere un liberal borghese. Allontanato dallo scenario politico ma non dal cuore di migliaia di studenti che vedevano in lui l’alternativa possibile. Così si avviarono, come farfalle con i loro capelli neri di seta e le camicie bianche leggere, ad occupare Piazza Tianammen, con lacrime e con canti, discutendo e facendo l’amore, svegli e vigili per una notte intera, nell’aria tiepida di primavera. La gente di Pechino non riuscì a resistere, fu affascinata da tanta serena audacia e cominciò a scendere in strada, guardinga, qualche carrettino nell’angolo vendeva frittelle. Una festa di paese più che l’inizio della rivoluzione. Non si era davvero mai visto e invece era accaduto, quindi era possibile. E questo messaggio, il messaggio che fosse possibile, ormai si era diffuso e probabilmente, da qualche parte, un giorno, dove nessuno se lo sarebbe aspettato, questo messaggio sarebbe tornato alla memoria di altri giovani, che di nuovo avrebbero tentato e questa volta magari anche vinto. Lo pensava Wang Dan mentre restava fermo, piccola figura bianca, davanti la colonna di tank che intendevano entrare nella piazza, ora che tutto finiva nel sangue.

Aprile 1968. Praga.
Nei pochi secondi che lo divisero dal fuoco, Jan Palach sognò di essere un uomo libero. Ripensò al volto sorridente del nuovo segretario del Partito Comunista Cecoslovacco, Alexander Dubcek, e tremò pensando a quale futuro lo stesse attendendo. Eppure le parole magiche, quelle della formula che libera dalle catene, erano state pronunciate: pluralismo politico ed economico, socialismo dal volto umano. Il volto di tutti quegli operai, intellettuali e studenti, di tutta la povera gente semplice, che per le strade aveva esposto se stessa all’orrore delle ritorsioni, invocando libertà. Ed ora che il pugno di ferro dei carriarmati schiacciava quelle grida, Jan aveva preferito questo per sé: che il fuoco che sentiva dentro divenisse realtà e lo bruciasse, riducendolo in polvere, finalmente libero di andare nel vento. E quando la fiamma divampò, i suoi occhi videro la primavera di Praga sfiorire ma anche nascere lontana la Rivoluzione di Velluto. Per questo, probabilmente, sorrise.

Aprile 2005. Mondo.
C’è ancora bisogno di troppe primavere.