Carmine Di Sante
(NPG 2005-03-3)
Presentazione
Sono due le ragioni fondamentali per questo dossier, o meglio per il tema che inizia con questo primo dossier e proseguirà con un secondo e con una rubrica per tutto l’anno.
Anzitutto la richiesta che regolarmente facciamo all’autore dello sviluppo articolato di una tematica in riferimento alla Bibbia e alla Parola di Dio. Ogni anno, da un decennio ormai, approfittiamo della sua gentilezza e competenza per chiedergli non solo lo sviluppo continuativo di una rubrica (nel passato: il padre nostro; feste e vita in festa; le beatitudini; figure della fede; figure della speranza; i comandamenti...), ma anche una trattazione sufficientemente ampia di temi di teologia biblica (la preghiera, i salmi, spiritualità, gli stessi comandamenti) o di teologia-spiritualità (la Messa, la vita teologale, la storia di Dio...). Questi articoli non solo sono di nutrimento spirituale e di costante apprendimento-aggiornamento per il lettore, educatori adulti e anche giovani animatori che cercano “cibo sostanzioso”, ma fondano anche qualunque cammino educativo che faccia non solo educatori ma educatori cristiani e uomini spirituali.
Il secondo motivo è più specifico e risponde a un’esigenza che sentiamo forte e a cui in tanti modi e da diverse strade cerchiamo di rispondere.
Si tratta, per dirla subito e in parole povere, della domanda: quali fatti, quali “storie” raccontiamo, della nostra fede, per il cammino di fede che proponiamo ai giovani, perché in esse trovino le radici, la sorgente, l’ispirazione, la testimonianza per il loro stesso cammino?
Ci poniamo dunque nella prospettiva non dell’insegnamento o dell’indottrinamento, vecchio stile di scuole di catechismo o di religione (anche se certamente l’ignoranza religiosa è un grosso problema, e le verità elementari della fede non sono più così scontate come da vecchia socializzazione primaria), ma dell’itinerario di riappropriazione della fede o di vera e propria iniziazione cristiana, per cui i contenuti della fede sono anzitutto ed essenzialmente le ragioni di vivere, il senso della gioia e della speranza, della fiducia fondamentale, della paternità e della vicinanza di Dio, da riattingere, da sperimentare nel quotidiano, da riscoprire nella storia delle vicende umane, da sentir narrare come esperienza di dono già offerta attraverso una storia che è storia di salvezza, dell’offerta di Dio all’uomo.
In questo itinerario in cui la fede viene riproposta al giovane (al ragazzo, all’adolescente, all’adulto) non come contenuto da conoscere ma come ragione per vivere, una delle modalità certamente più coinvolgenti e produttive, oltre l’offerta di esperienze sia quotidiane che straordinarie da far vivere o con cui mettere in contatto, c’è la narrazione (una narrazione che non è solo un racconto, ma un coinvolgimento a più livelli), dove i fatti e le esperienze di fede trovano spessore nella concretezza della storia e di persone, nella fatica del vivere quotidiano, nella chiamata e nella resistenza, nel dono e nel rifiuto, nel bene e nel male, nell’eroismo e nella fragilità: in una parola, nel crescere delle persone e delle genti, delle società e delle culture.
Una “teoria” della narrazione l’abbiamo già proposta (e sperimentata) nella rivista, non ultima nella rubrica a cura di Tonelli sugli Atti degli apostoli e, prima ancora, delle storie del vangelo (diventate poi un prezioso libretto, “30 storie”.
Sulla scia del prezioso documento dei vescovi del Quebec, poi, abbiamo individuato lo scorso anno cinque grandi nuclei “fondanti” da raccontare, e li abbiamo affidati a tre esperti biblici e narratori (nella rubrica “I racconti della fede”: La coppia al centro della creazione; Conoscere il bene e il male; L’alleanza, esperienza di amicizia con Dio e di fraternità tra gli uomini; La terra amata e abitata da Dio; Il racconto del “già e non ancora”).
Con questo e il prossimo dossier (e la rubrica collegata) intendiamo riprendere questo tema che ci sta a cuore, e “raccontare la grande storia”, la storia di Dio e dell’uomo, e cogliere nella Scrittura i nuclei principali non solo per una lettura significativa complessiva, ma anche dei singoli grandi temi che ne percorrono il tragitto e ne intessono la trama.
Sono come delle “costellazioni” attorno a cui è possibile sia collegare molte pagine della Scrittura che diversamente sembrerebbero staccate, troppo diverse; sia soprattutto (e questo è il segreto, che ogni educatore dovrà particolarmente curare) le esperienze dei giovani che scoprono nella Bibbia non solo una storia di uomini, ma che trovano che la loro stessa storia personale ha qualcosa di una storia “santa”.
Detto in un orizzonte più ampio, anche la storia che abbiamo iniziato a raccontare di grande testimoni (in un’altra rubrica) permette di intravedere come altre storie si intrecciano alle storie e alle domande dei giovani, in un collegamento e in uno scambio vitale di ragioni di vita ricercate, offerte, ritrovate, restituite.
C’è dunque un filo che collega il tutto, in questo itinerario di fede che intendiamo (umilmente) offrire ai nostri destinatari, gli educatori dei giovani e indirettamente-direttamente anche ai giovani stessi.
Due dossier (questo è quello che seguirà il mese prossimo) ne illustrano la logica.
La rubrica successiva “La grande storia” ne articolerà i nuclei.
LA GRANDE STORIA
Trama narrativa e tematica della bibbia
FILI DI ARIANNA
Parola di Dio e parola dell’uomo
Priorità dell’altro sull’io
La storia dal punto di vista dei perdenti
L’istituzione della fraternità
LA GRANDE STORIA
Narrazione ed evento
L’evento biblico
Il racconto dell’esodo
La trama della narrazione
La rilettura della storia
L’organizzazione dei libri biblici o canone
L’evento rifondatore o Nuovo Testamento
LA TRAMA TEMATICA
Esodo
Deserto
Salita sul monte
Terra promessa
Passione
Risurrezione
Dono dello Spirito
Missione
Nel recente romanzo Testimone inconsapevole, per convincere la Corte d’Assise della non colpevolezza dell’ambulante senegalese Abdou Thiam accusato di aver ucciso un bambino di nove anni sulla base della testimonianza di un barista per il quale tutti gli extracomunitari sono negri che disturbano e andrebbero allontanati, l’avvocato ricorre ad una frase di Albert Einstein che, “se non ricordo male, suona più o meno così: è la teoria che determina ciò che osserviamo” (Gianrico Carofiglio, Testimone inconsapevole, Sellerio Editore, Palermo 2002, p. 283).
E subito dopo si chiede: “Cosa significa? Significa che se abbiamo una teoria – una teoria che ci piace, che ci soddisfa, che ci sembra buona – tendiamo ad esaminare i fatti attraverso quella teoria. Piuttosto che osservare obbiettivamente tutti i dati disponibili, cerchiamo solo conferme a quella teoria. La nostra stessa percezione è fortemente influenzata, determinata dalla teoria che abbiamo scelto. Appunto, come diceva Einstein – che parlava di scienza – la teoria determina ciò che riusciamo ad osservare. In altri termini: vediamo, sentiamo, percepiamo quello che conferma la nostra teoria e, semplicemente, tralasciamo tutto il resto. C’è un detto cinese che esprime in forma diversa lo stesso concetto. Dicono i cinesi: due terzi di quello che vediamo è dietro i nostri occhi” (ivi).
Ricorrendo alla teoria di Einstein, Guerrieri – questo il nome dell’avvocato – riformula brillantemente (ed efficacemente, riuscendo a far assolvere il suo assistito) il principio fondamentale dell’ermeneutica che è la scienza che si interroga sulla comprensione dei testi e, in senso più ampio, di tutto ciò che esiste. Per comprendere è necessario porre delle domande a ciò che vogliamo comprendere e noi troviamo – cioè “vediamo, sentiamo, percepiamo” – ciò che risponde o ci sembra rispondere alle nostre domande. Ciò che resta fuori dalla domanda non è veduto, sentito o percepito per cui non ci parla e non ci dice niente.
Ad esempio uno può accostarsi alla bibbia perché vuole sapere cosa narra, o perché vuole conoscere la psicologia di alcuni dei suoi personaggi, o perché è interessato a raccogliere testimonianze storiche sulla figura di Davide e Salomone, o perché va alla ricerca di tracce archeologiche delle civiltà mediorientali, o perché vuole confrontare il Dio di cui parla con gli dèi o le divinità di altre religioni, o perché vuole comparare la sua bellezza letteraria con altri testi della letteratura universale, o perché vuole conoscere quale sia la sua visione del mondo, o perché vuole attingere da essa parole di speranza per orientarsi nella vita e trovare un senso all’esistenza. Questi approcci – e tanti altri – sono tutti legittimi, ma necessitano della consapevolezza che si tratta sempre di un punto di vista – ciò che vedo lo vedo sempre da un punto particolare che mai può essere preteso totale e universale – e dell’onestà e disponibilità a cambiarlo ogni qualvolta il testo lo sconferma. Di qui il secondo principio ermeneutico secondo il quale, come il soggetto illumina il testo con le sue domande, così, in uno scambio di reciproco arricchimento, il testo illumina il soggetto aprendogli nuove possibilità ed orizzonti. Leggere un testo – soprattutto i grandi testi quali sono i classici e la bibbia – è transitare continuamente dal proprio io al testo e dal testo al proprio io, in un dialogo tanto più affascinante quanto più, come in tutti i dialoghi, i dialoganti sono tra loro differenti; è istituire, per ricorrere ad una formula divenuta corrente nell’ambito dell’interpretazione dei testi, un “circolo ermeneutico” che consiste appunto in un movimento sempre nuovo – ed è qui la differenza con il circolo vizioso! – che dal lettore porta al testo e dal testo torna, arricchendolo, al lettore.
Ma la bibbia è un testo particolare di cui bisogna cogliere subito i due tratti più paradossali.
Il primo è che non è un libro ma una pluralità di libri. Bibbia infatti rimanda al termine greco biblia, plurale di biblion, che vuol dire letteralmente libri. Per la tradizione cattolica si tratta di 72 libri, 45 per il Primo Testamento o Antico Testamento, e 27 per il Secondo Testamento o Nuovo Testamento (il discorso è leggermente diverso per i protestanti, i quali non ritengono ispirati alcuni libri detti “deuterocanonici”) diversi fra loro per epoca, autore, genere letterario e contenuti. Libri che abbracciano un periodo storico di quasi duemila anni, che si estende dall’epoca dei patriarchi al primo secolo dell’era cristiana.
Il secondo – che all’apparenza sembra contraddire il precedente – è che, pur essendo una pluralità di libri (e da questo punto di vista va considerata una piccola biblioteca o bibliotechina), la bibbia è realmente però un solo libro, come attesta la trasformazione semantica del termine biblia, da cui bibbia, che, nonostante la sua forma grammaticale al plurale, è da sempre intesa come singolare. La ragione di questa trasformazione è nel fatto che la tradizione da sempre ha colto l’esistenza di un filo rosso (al tempo della guerra fredda il filo “rosso” era la linea telefonica che collegava direttamente la Casa Bianca e il Cremino; di qui l’uso come metafora di ciò che collega elementi all’apparenza lontani e disparati) che li tiene insieme e riconduce la loro pluralità in unità e la loro discordia in discordia concorde, come i suoni di un’unica sinfonia o le voci di un solo coro.
Individuare questo filo rosso è come disporre del filo d’Arianna per non perdersi nel labirinto dell’universo biblico. Si tratta di un filo profondo e invisibile che può essere formulato con vari linguaggi – e di fatto ogni grande interprete della bibbia lo è in quanto pretende portarlo allo scoperto – a seconda delle epoche storiche, dei contesti culturali e della genialità personale. Ne ricordo alcuni prima di focalizzare l’attenzione su quello della bibbia come Grande storia alla quale sarà dedicata la parte più importante di queste pagine.
Parola di Dio e parola dell’uomo
Quello più noto, soprattutto ai credenti, e consacrato dall’uso liturgico, si riassume nella formula per la quale la bibbia è “Parola di Dio in parole umane”. Stando a questa formula, il filo conduttore che unisce i vari libri della bibbia è che, nelle sue pagine – di narrazioni, di prescrizioni, di invocazioni, di riflessioni e di invettive – risuona sempre la voce di Dio il quale, attraverso esse, parla ancora oggi. Scrive la Dei Verbum, la costituzione del Vaticano II sulla Parola di Dio: “Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (cf Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (cf Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa rivelazione infatti Dio invisibile (cf Col 1,15; 1 Tim 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come amici (cf Es 33,11; Gv 15, 14-15) e si intrattiene con essi (cf Bar 3,38), per invitarli e ammettere alla comunione con Sé” (n. 2).
In questo testo, uno dei più densi e belli del Concilio, viene detto in che senso la parola di Dio è il filo d’Arianna della bibbia: nel senso che nelle sue parole si rivela il mistero della sua Parola, e che il mistero della sua Parola, che nell’uomo Gesù di Nazareth ha trovato la sua espressione escatologica, cioè ultima, consiste nel considerare gli uomini come amici e condividere con loro la sua comunione di amore infinito. Ciò che la bibbia dice in tutte le sue pagine e attraverso l’annodarsi delle sue storie e dei suoi molteplici linguaggi, è che Dio ha deciso di essere amico dell’uomo. E di considerarlo sempre suo amico anche quando lui agisce da nemico.
Di fronte alle recenti atrocità di Beslan, dove uomini e donne terroristi hanno ucciso centinaia di bambini (settembre 2004), contro la retorica del linguaggio che parla di “male indicibile”, e contro il buonismo dei sentimenti che si lascia commuovere dalla vista degli orrori che appaiono sullo schermo televisivo, M. Cacciari ha ricordato la necessità di tornare a guardare in faccia il male radicale, come possibilità di uccidere inerente alla soggettività umana perché “il nostro essere sembra discendere da quello di Caino. Qui va compreso il ‘vero peccato originale’… La rottura avviene con l’assassinio di Abele. Quel sangue innocente inaugura la nostra storia. E mai ha cessato di scorrere” (M. Cacciari, Il male senza limiti, in “L’Espresso” 16 setttembre 2004, p. 55).
È dentro questa storia cainitica, dove gli uomini sono gli uni lupi agli altri, come voleva Hobbes, che va colto il significato sconvolgente della bibbia come parola di Dio in parole umane. Lungi dall’essere una formula ingenua, essa annuncia l’impensabile di un umano che alla mano omicida di Caino sostituisca quella tenera dell’amico. Proclamare che la bibbia è parola di Dio, è credere che è possibile spezzare la catena cainitica della violenza e che, se Dio è amico dell’uomo, è possibile (ri)aprire nella storia lo spazio della philia, dell’amicalità o amicizia. In Gesù che muore sulla croce vittima della violenza e che continua ad amare coloro che non lo amano e lo uccidono, il Nuovo Testamento vede giungere a compimento questa parola di Dio come parola amicale nella quale giunge a compimento la rivelazione di Dio del Primo Testamento. Questa parola amicale rivolta al nemico porta nel Nuovo Testamento il nome di perdono, che vuol dire doppio dono o dono all’ennesima potenza.
La bibbia, parola divina dentro le parole umane, annuncia che le parole umane, per quanto intrise di stupidità e cattiveria, possono rifiorire come parole di amicizia. Sfogliando la bibbia, soprattutto il Primo Testamento, si può restare scandalizzati nel trovare quante contraddizioni, malvagità e violenze attraversino la storia biblica, non solo sul piano collettivo (si pensi ai massacri riferiti dal libro di Giosuè che narra dell’ingresso nella Terra promessa) ma anche sul piano dei singoli personaggi, come Sara, che per gelosia espone al rischio della morte la sua schiava Agar con il bambino, o il re Davide, omicida. Ma lo scandalo cessa se si smette di pensare alla bibbia come libro di storie edificanti o di personaggi senza macchia, e la si considera per quella che veramente è: uno spaccato della storia umana come storia di alienazione e di peccato che Dio non si rassegna ad abbandonare, per cui interviene con la sua fantasia di onnipotente per capovolgerla e sovvertirla, riaprendo in essa lo spazio amicale originario di quando lui passeggiava insieme con l’uomo nel giardino dell’Eden. Scrive Lévinas: “L’insegnamento della bibbia non è l’elogio di un popolo modello. Infatti è pieno di invettive. L’unico merito di Israele consiste, forse, nell’aver scelto, per il proprio messaggio, questo libro di collera e di accuse. Nell’averne fatto il suo libro. Israele non è un popolo modello ma un popolo libero. Un popolo pieno di avidità e rivolto verso beni carnali? Sicuramente. Come ogni altro popolo. La Bibbia lo racconta per denunciare tale avidità. Ma sa anche che non basta negare, per questo cerca di innalzarla introducendovi la giustizia. È nella giustizia economica che l’uomo scopre il volto dell’uomo” (E. Lévinas, Difficile libertà, Jaca Book 2004, p. 172).
La bibbia non è il racconto di un popolo dedito all’ideale della perfezione ma dalla “dura cervice”, impossibilitato però a restare tale perché Dio si intro-mette nelle pieghe della sua storia e della sua coscienza, che da buona coscienza o coscienza innocente all’improvviso si scopre come cattiva coscienza. La grandezza di Israele, al quale si deve il dono all’umanità del testo biblico, è in questa altezza della coscienza come coscienza etica di fronte al Bene che ama comandando, giudicando e condannando, e come coscienza penitenziale che, di fronte al Bene tradito, non si nasconde e deresponsabilizza, come Adamo nel giardino o come Caino dopo l’uccisione del fratello, ma, assumendo Davide, il grande re, come modello, con lui prorompe nel grido: “miserere mei Domine, pietà di me, Signore, contro di te, contro di te ho peccato” (Sal 51).
La quasi totalità delle pagine bibliche sono attraversate dalla coscienza del peccato e dall’invocazione a Dio per esserne perdonati. La colpa imperdonabile dell’antigiudaismo cristiano, sulla quale le chiese si stanno interrogando dal Vaticano II in poi, dopo l’indicibile orrore della shoah, è nell’avere frainteso queste pagine trasformandole da paradigma delle proprie colpe (“anche noi come Israele siamo peccatrici e bisognose di perdono”) a paradigma della propria innocenza (“a differenza d’Israele noi siamo ‘redente’ dal peccato) contro Israele (“popolo della ‘dura cervice’, mentre noi non lo siamo”).
Priorità dell’altro sull’io
Per Emmanuel Lévinas il filo conduttore della bibbia è la priorità dell’altro sull’io. Essa è parola divina, che proviene dall’alto e non dal mondo, per l’istituzione di una alterità che, nella storia delle culture, rappresenta una vera rivoluzione: “La Torah è trascendente e dal cielo in ragione delle sue esigenze che, in fin dei conti, contrastano con la pura ontologia del mondo. Essa esige, contro la naturale perseveranza di ogni essere nel proprio essere – la logica ontologica fondamentale – la cura dello straniero, della vedova e dell’orfano, la preoccupazione per l’altro uomo. Capovolgimento dell’ordine delle cose! Non ci si stupisce mai abbastanza di questo capovolgimento dell’ontologia nell’etica e, in un certo senso, del condizionamento, in quest’ultima, dell’essere sul dis-inter-esse della giustizia. Parola di capovolgimento il cui modo è imperativo, e proprio per questo scrittura della Torah, libro che domina la coscienza che segue gli affari e le leggi della terra e decifra l’eternità del proprio presente, libro profetico dell’alterità e del futuro” (E. Lévinas, Nell’ora delle nazioni. Letture talmudiche e scritti filosofico-politici, Jaca Book, Milano 2000, p. 70).
La bibbia è il “libro profetico dell’alterità e del futuro” perché, dalla prima all’ultima delle sue pagine, annuncia che l’altro è più importante dell’io e che l’io è sempre debitore nei suoi confronti. È il libro che per questo sconvolge e capovolge l’ordine dell’essere e dell’ontologia, e istituisce l’ordine etico o della giustizia che, secondo la terminologia coniata dal pensatore francese, è l’ordine dell’altrimenti che essere e del dis-inter-essamento, l’ordine in cui l’io più che interessato al suo io è preoccupato dell’altro del quale rispondere.
Annuncio della priorità dell’altro sull’io, la bibbia istituisce l’altezza di una responsabilità come nuova e vera responsabilità, intesa non come risposta dell’io al proprio io, alle sue scelte e decisioni, dove la responsabilità viene a fare tutt’uno con la coerenza, ma come risposta dell’io all’altro dall’io, una responsabilità incedibile e assoluta che non può essere sostituita neppure da Dio: “La responsabilità dell’uomo verso l’uomo è tale che Dio non può annullarla. Ecco, secondo il commento rabbinico, il dialogo tra Dio e Caino: ‘Sono il guardiano di mio fratello?’ non è una domanda semplicemente insolente. Essa proviene da colui che non ha ancora sentito la solidarietà umana e che pensa (come molti filosofi moderni) che ciascuno esista per sé e che tutto è permesso. Ma Dio rivela all’omicida che il suo crimine ha sovvertito l’ordine naturale. La Bibbia mette allora in bocca a Caino una parola di sottomissione: ‘Il mio crimine è troppo grande per essere sopportato’. I rabbini fingono di leggere in questa risposta una nuova domanda: ‘Il mio crimine è troppo grande per essere sopportato? È troppo pesante per il Creatore che porta la terra e i cieli?’. La saggezza giudaica insegna che Colui che ha creato e che porta l’intero universo non può sopportare, non può perdonare il crimine che l’uomo commette contro l’uomo” (Difficile libertà, cit. 37). Non può perdonarlo: cioè non può giustificarlo, per cui si erge come giudice e signore della sua coscienza, in-quietandola – togliendole la quiete della buona coscienza – e chiamandola alla “conversione”, inversione di marcia o cambiamento. Rivelandolo a se stesso come colpevole, Dio sottrae Caino alla sua buona coscienza che all’improvviso si svela come falsa coscienza, lo eleva alla coscienza etica che è vera coscienza, e, proteggendolo (“Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque lo incontrasse”: Gn 4, 15), gli ridischiude la possibilità di “convertirsi”, abbandonando il male e tornando al bene.
Libro dell’alterità, le figure che nella bibbia la rappresentano esemplarmente, sono i gruppi degli emarginati, come gli stranieri o gli immigrati (non senza significato, come vedremo, al centro della bibbia campeggia la figura di Israele oppresso in Egitto), o individui in situazioni di bisogno come l’orfano o la vedova (anche questi al centro soprattutto del messaggio profetico), figure che, sprovviste di potere, sono in balia di chi ha potere. La bibbia è il racconto dell’attenzione di Dio su chi non può nulla da sé, con le proprie forze, e può vivere solo in forza della radicale gratuità: dalle donne sterili prive del dono della maternità ai figli di Giacobbe immigrati in Egitto e oppressi dal Faraone, ai poveri e gli emarginati sfruttati dai sovrani e dalle classi benestanti, fino ai malati, agli zoppi, ai ciechi, agli indemoniati e ai peccatori che riempiono molte pagine dei racconti dei vangeli. Oltre che nei vangeli, è soprattutto nei testi profetici che ci si imbatte con queste figure di umanità lacerata e incompiuta di cui Dio si prende cura contro lo sfruttamento dei ricchi e dei potenti:
“Ascoltate questo,
voi che calpestate il povero
e sterminate gli umili del paese,
voi che dite:
‘Quando sarà passato
il novilunio
e si potrà vendere il grano?
E il sabato, perché si possa
smerciare il frumento
diminuendo le misure
e aumentando il siclo
e usando bilance false,
per comprare con denaro
gli indigenti
e il povero con un paio di sandali?
Venderemo anche lo scarto di grano’.
Il Signore lo giura
per il vanto di Giacobbe:
certo non dimenticherò mai
le loro opere”
(Am 8,4-7).
La bibbia è il racconto dello sguardo di Dio che, dentro la storia come vanto dei vincitori e dei forti, “giura: certo non dimenticherò mai le loro opere”. Il filo conduttore che lega tutti i libri della bibbia – uno dei fili – è l’istituzione nella storia di una giustizia che abbraccia tutti e si ridefinisce continuamente a partire dagli ultimi: “Il rapporto con il divino attraversa il rapporto con gli uomini e coincide con la giustizia sociale: ecco tutto lo spirito della Bibbia ebraica. Mosè e i profeti non si curano dell’immortalità dell’anima, ma del povero, della vedova, dell’orfano e dello straniero. Il rapporto con l’uomo in cui si compie il contatto con il divino non è una specie di amicizia spirituale, ma quanto si manifesta, si prova, si compie in un’economia giusta in cui ogni uomo è pienamente responsabile (Difficile libertà, cit. 37).
Figure dell’alterità, il povero, l’orfano, la vedova, l’escluso, il perseguitato e l’emarginato trascendono la loro dimensione sociologica e assurgono a metafora dell’umano – di ogni uomo o prossimo che passa accanto all’io – come essere di bisogno affidato alla responsabilità dell’io. E sono, per Lévinas, l’icona del volto stesso, non nella sua bellezza, come forma estetica, ma nella sua nudità, come vulnerabilità e miseria, che si erge di fronte all’io come comandamento che comanda: “non uccidere”.
La storia dal punto di vista dei perdenti
Contemplando la basilica di san Francesco ad Assisi o piazza san Marco a Venezia o il Colosseo a Roma, quale reazione se non lo stupore incontenibile che fa dire: “che bello!”? Ma è la sola possibile reazione? Se, dopo lo stupore e l’esclamazione, riuscissimo a dimenticare per un istante la bellezza che incanta l’occhio e con la fantasia tornare indietro al momento della loro realizzazione, vedremmo scorrere una sterminata e anonima moltitudine di lavoranti, operai, garzoni, capomastri, schiavi, aiutanti, giovani, vecchi, bambini e controllori che si muovono, faticano, parlano, sudano, gioiscono, cantano, si lamentano, maledicono, gridano, bestemmiano, si disperano, rivendicano, soffrono, resistono, cadono e muoiono. Una moltitudine di volti di cui non sapremo mai nulla, ma che pure sono incisi in quelle pietre e in quelle volte che, a distanza di secoli, ci parlano, ma non riusciamo più a decifrarli perché per la nostra coscienza estetica l’importante è l’opera e non il povero diavolo in carne e ossa che con la sua fatica e il suo sudore l’ha posta in essere.
La bibbia è la lettura della storia umana dal punto di vista dei “poveri diavoli” – stranieri, oppressi, sfruttati, perseguitati, malati – che, sprovvisti di potere e di parola – della parola come espressione di potere – non appaiono sul palcoscenico della storia, dove ad avere la parola sono sempre i vincitori dell’ultima ora, e in esso non c’è posto per i non attori, ricacciati fuori scena come fanno le società dell’estetica e del benessere con i barboni e i mendicanti perché deturpano la bellezza dei centri storici, delle chiese e delle piazze. La bibbia è il libro delle vittime che non si rassegnano a stare fuori dalla storia, perché Dio veglia su di loro, e che la giudicano, sottraendosi al verdetto dei vincitori e dei forti, dei quali smascherano la pretesa di esserne i soli e veri protagonisti: “Essere ebreo significa non sottomettere la Legge di giustizia all’implacabile corso degli eventi, denunciandoli come controsensi o follia” (Difficile libertà, cit. p. 282).
La bibbia è il racconto di uomini e donne che, vittime della storia, lasciano intravedere un al di là della storia – “la legge della giustizia o coscienza etica” – che giudica la storia e permane in essa come elemento eterno: “Sembra che la grande cosa portata dall’esistenza ebraica sia non soltanto l’idea di storia, ma una certa libertà di fronte alla storia: la coscienza dell’eternità d’Israele: essa proviene dal fatto che Israele è sempre stato vittima della storia, e che così non partecipava alla storia politica. Qui è la sua libertà e la sua disgrazia. Ciò gli conferisce una vecchia nobiltà, una superiorità: non impegnarsi in opere passeggere. In più, l’ebreo ha l’impressione che gli obblighi relativi agli altri passano davanti a quelli relativi a Dio o, più esattamente, altri è la via medesima del sacro. La liturgia non è mai taumaturgica, ma educativa; l’etica è un’ottica verso Dio. Tutto il resto è sospetto e, in questo senso, la tentazione mistica è una decadenza” (testo in A. Chiappini, Amare la Torah più di Dio. Emmanuel Lévinas lettore del Talmud, Giuntina, Firenze 1999, p. 45)
Guardata dal punto di vista delle vittime, la storia appare per quella che veramente è – disordine e ingiustizia – e, smascherata nella sua falsa coscienza, è apertura a quel futuro o nuovo ordine dove non ci siano più né vittime né carnefici e dove sia bandita l’idea stessa della violenza:
“Il lupo dimorerà insieme
con l’agnello,
la pantera si sdraierà insieme;
il vitello e il leoncello
pascoleranno insieme
e un fanciullo li guiderà.
La vacca e l’orsa
pascoleranno insieme;
si sdraieranno insieme
i loro piccoli.
Il leone si ciberà di paglia
come il bue.
Il lattante si trastullerà
sulla buca dell’aspide,
il bambino metterà la mano
nel covo di serpenti velenosi.
Non agiranno più iniquamente
né saccheggeranno
in tutto il mio santo monte
perché la saggezza del Signore
riempirà il paese
come le acque ricoprono il mare”
(Is 11, 6-9).
Non si coglie nulla del futuro biblico e della sua carica sovversiva se non ci si colloca dalla prospettiva delle vittime. È da questa – dal guardare la storia dal rovescio della storia – che nascono sia l’idea rivoluzionaria del futuro, estranea a tutte le culture per il loro identificarsi con l’ordine divino costituito, sia lo straordinario repertorio metaforico che fa della bibbia una foresta simbolica inesauribile, sia infine le molteplici figure del futuro quali il messianismo, l’escatologia, l’apocalittica e la parusia i cui linguaggi intessuti di catastrofi, di bestie, di draghi e di potenze demoniache, lungi dall’essere un esercizio di fantasia, sono parole di speranza e di critica ad ogni ordine o sistema che ignora le vittime e ne produce sempre nuove: “Per fare un esempio, l’‘economia’, il ‘dio’ moderno, si può paragonare al drago e alle sue bestie (Ap 12-13). Come il drago, essa ha le sue bestie, e i suoi falsi profeti, ai quali ha delegato i suoi poteri, questa volta, del mercato e del liberismo. I suoi agenti promotori potrebbero essere i G7, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, il Club di Parigi e le Società multinazionali. Essi sanno come impedire che la genti comperi o venda senza adorare questo drago moderno. Il suo impero potrebbe essere la ‘globalizzazione’, un’entità a due facce. Ingannevolmente promette ai suoi clienti (siano essi ricchi o poveri) una felicità che non ha il potere di dare, anzi che spesso porta via” (T. Okure, Da Genesi ad Apocalisse. L’apocalittica nella prospettiva biblica, in “Concilium” 4/1998, pp. 39-40).
Ponendola al centro dell’attenzione la bibbia avvia un’impensabile rivoluzione che consiste nella decolpevolizzazione della vittima e nella sua riconsegna all’innocenza, capovolgendo il meccanismo del capro espiatorio sul quale, per R. Girard, si fonda la pace apparente e transitoria delle civiltà umane. Per l’antropologo francese, alla radice delle culture si occulta ed opera il meccanismo del capro espiatorio, che consiste nell’individuare la fonte della propria minaccia non al proprio interno ma al proprio esterno, oppure in chi, pur essendo interno al gruppo, occupa nel gruppo il posto più marginale, come il deforme, il povero, il malato o l’handicappato. Da questo meccanismo conseguono due effetti, l’uno paradossale, l’altro perverso. L’effetto paradossale è di creare, nel gruppo, concordia e unità, anche se si tratta di una concordia e di una unità solo apparenti, perché istituite non sull’essere l’uno per l’altro ma sull’essere tutti contro uno. L’effetto perverso è che tale concordia, oltre ad esser falsa – come sono falsi i legami che traggono la loro forza dall’essere contro qualcuno o qualcosa – avviene al prezzo di un inconsapevole ed originario falso, che consiste nel fare del marginale, del debole e del meno garantito, il colpevole responsabile del male collettivo, cioè nel trasformare – suprema parodia, scandalo, ingiustizia e violenza – la vittima innocente in carnefice e il carnefice in vittima innocente. Per R. Girard, nelle profondità di tutte le culture, di tutte le società e di tutte le aggregazioni umane, opera questo oscuro meccanismo – parodia, scandalo ingiustizia e violenza! – che solo la tradizione ebraico-cristiana ha osato smascherare e denunciare. Ordinando di amare lo straniero, il debole, il marginale, il malato e il nemico, la bibbia ha liberato la vittima dalla presunta colpa e l’ha riconsegnata alla sua verità, che è quella di essere non soggetto di violenza ma oggetto di violenza, non colui che la procura ma colui – come Gesù sulla croce – che la subisce innocentemente: “La rivelazione evangelica è l’avvento definitivo di una verità che era già in parte accessibile nell’Antico Testamento, ma che per giungere a compimento esigeva la buona notizia di Dio stesso che accetta di assumere il ruolo della vittima collettiva, pur di salvare l’umanità intera. Questo Dio che, in modo inedito, si fa vittima, non è un Dio mitico in più, è il Dio unico e infinitamente buono dell’Antico Testamento” (R. Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, Adelphi, Milano 1999, p. 174; cf pure p. 155 dove si critica come acritica la posizione di quanti fraintendono la violenza delle pagine bibliche, soprattutto quelle di alcuni salmi).
L’istituzione della fraternità
A. J. Heschel ha scritto: “Le religioni possono essere classificate in tre gruppi: religioni dell’autosoddisfazione, dell’autoannullamento e della ratellanza. Nel primo caso, il culto mira al soddisfacimento di bisogni personali come quello della propria salvezza o il desiderio di immortalità. Nel secondo, accantonati tutti i bisogni personali, l’uomo cerca di dedicare la propria vita a Dio, a costo di annientare ogni suo desiderio, nella convinzione che il sacrificio umano (o almeno il completo diniego di se stessi) costituisca la vera forma di culto. La terza categoria di religione, scartando l’idea che considera Dio un mezzo per conseguire fini propri, sostiene che vi è comunanza tra Dio e l’uomo, che i bisogni dell’uomo sono oggetto della sollecitudine di Dio e che i fini di Dio devono diventare un bisogno per l’uomo” (A. J. Heschel, L’uomo non è solo. Una filosofia della religione, Mondadori, pp. 215-16).
A parte la tenuta epistemologica di questa triplice classificazione, non si può non essere d’accordo con Heschel nel pensare che la bibbia è il testo della fraternità per eccellenza, e che i tre fili di Arianna proposti finora costituiscono come un unico filo che più propriamente si riassume nella fraternità. Affermare che la bibbia è parola amicale di Dio, che in essa si annuncia la priorità dell’altro sull’io e che, per essa, lo straniero e il marginale non sono più la vittima sacrificale ma l’innocente da riscattare, vuol dire semplicemente annunciare la vocazione universale dell’umanità alla fraternità. Questa, più che un momento o un aspetto del monoteismo, ne costituisce la sostanza stessa: “Il monoteismo non è un’aritmetica del divino. È piuttosto il dono, forse soprannaturale, di vedere l’uomo simile all’uomo sotto la diversità delle tradizioni storiche che ognuno porta avanti: è una scuola di xenofilia e di antirazzismo” (Difficile libertà, cit. 223; cf pure p. 343).
Il monoteismo è “una scuola di xenofilia e di antirazzismo” perché il Dio che esso annuncia, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù, è il Dio Uno e Unico che non fa corpo con nessuna realtà umana esistente e con nessuna etnia particolare, gruppo umano o popolo. È un Dio dis-identitario, che impedisce a qualsiasi tribù, civiltà o cultura di chiudersi in sé, di totalizzarsi e di assolutizzarsi per aprirle alla comunicazione e alla comunione con le altre. Ed è il Dio che, relativizzando l’etnia, offre una nuova identità ai suoi membri, che non valgono più in quanto ne sono parte ma in quanto fine in sé e per sé, indipendentemente dall’appartenenza. Il Dio biblico non è il Dio identificante ma dis-identificante, non il Dio della totalità ma della separazione, non il Dio che crea il genere umano, ma il Dio che crea l’uomo – ogni singolo uomo – a sua immagine e somiglianza. La bibbia è il racconto della fraternità umana perché il suo monoteismo è istituzione di una paternità universale che è rottura e superamento delle etnie come mondi chiusi, paralleli o contrapposti, e elevazione di ogni uomo e di ogni donna da parte a partners capaci di darsi del tu e di dire noi. La fraternità è questa possibilità che, per Rosenzweig, coincide con la stessa redenzione o eternità: “[Per lui] l’avvenire non è una nozione formale e astratta. Si potrebbe dire che per lui l’avvenire indica una relazione con la Redenzione o con l’Eternità. L’Eternità, a sua volta, non è la scomparsa del ‘singolo’ nella sua idea generale, ma la possibilità, per ogni creatura, di dire ‘noi’ o, più esattamente, è il fatto che l’Io impara a dire Tu a un Egli” (E. Lévinas, Difficile libertà, cit. 238).
La fraternità è lo spazio dove ogni io impara a dire Tu a un Egli, dove non esistono Io chiusi in sé o Egli anonimi, dove l’Io e il Tu si parlano e, parlandosi, si con-generano come dialoganti.
Relativizzando la logica dell’appartenenza e affermando il valore dell’io come relazione e come responsabilità, il monoteismo sovverte l’ordine naturale, nel quale vige la legge del determinismo e della gerarchia del forte sul più debole, e istituisce un nuovo ordine – l’ordine della fraternità appunto – che è nuovo ordine o ordine etico altro dall’ordine naturale e suo sovvertimento.
La fraternità infatti non si dà dentro l’ordine biologico, che conosce solo la fraternità dei simili e degli affini, di chi appartiene allo stesso “grembo” (non è senza significato che adelphys, il termine greco per fratello, vuol dire etimologicamente “co-uterino”) e riproduce al suo interno la logica del “fuori” e del “dentro”, per cui basta un nonnulla perché degeneri in fratricidio. Ma essa non si dà neppure nell’ordine razionale, impotente a decidersi se l’uomo è per l’altro lupo o fratello. E se è vero che la rivoluzione francese ha osato pensare l’ideale della fraternità, affiancandola ai principi di libertà e uguaglianza, è innegabile che la sua universalizzazione non ha coinciso di fatto con un di più di fraternità, perché, come vuole Lévinas, è difficilmente contestabile che “la fraternità proclamata da tutte le rivoluzioni borghesi o proletarie sono finite quasi sempre in fratricidio” (S. Malka, Leggere Lévinas, Queriniana, Brescia 1986, p. 98).
Al di fuori dell’ordine biologico e dell’ordine razionale, la fraternità biblica si dà nell’ordine etico: l’ordine in cui non si tratta di affermare e argomentare che tutti gli uomini sono fratelli, con il rischio che chi è del parere opposto viene sospettato di non avere sufficiente intelligenza per cui è da rieducare in appositi campi di concentramento, come ha fatto il totalitarismo staliniano, ma di sentirsi chiamato personalmente a considerare ogni uomo come fratello, anche se l’altro non mi considera tale, mi rifuta o mi uccide. La fraternità più che un’idea universale da affermare, tematizzare e argomentare è, per la bibbia, parola imperativa e incondizionata rivolta all’io perché l’io, al di là di ogni sua appartenenza o idea sul genere umano, si rapporti all’altro – ogni altro – come fratello. È in questo dire all’altro “tu mi sei fratello” che l’io raggiunge la sua identità disidentitaria e perviene alla sua verità: “L’io umano si pone nella fraternità: il fatto che tutti gli uomini siano fratelli non si aggiunge all’uomo come una conquista morale, ma costituisce la sua ipseità” (Lévinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1990, p. 289).
La bibbia è il racconto di questa fraternità da offrire incondizionatamente, indipendentemente dal fatto che l’altro mi sia o no fratello.
Ma come? Non è vero piuttosto il contrario? Non è la bibbia, con i suoi racconti di guerre e di violenze, la smentita stessa della fraternità umana? Non sono gli imperi al cui interno si svolge la storia di Israele – l’egiziano, l’assiro, il babilonese, il persiano, l’ellenistico e il romano – e dei quali la bibbia, nelle sue pagine, conserva tracce e ritrascrive l’eco, la prova incontestabile che la fraternità umana è inesistente e che la legge che governa la storia è – e può essere solo – quella della forza? Non è di fatto da sempre la storia, più che di fraternità, testimonianza di omicidi e di fratricidi la cui efferatezza è per di più inspiegabile? E non è la bibbia stessa a porre a fondamento della storia umana il gesto omicida e fratricida di Caino contro Abele, come per dire che è quel gesto che muove l’uomo sulla terra?
La bibbia non nega questo fondo oscuro della storia umana, che è storia di violenza antifraterna, ma il suo paradosso – e la sua altezza nel consesso delle letterature mondiali – è di non rassegnarsi ad esso, ma di contestarlo e delegittimarlo osando svelare che è falsità e inganno pensare il reale guidato dalla forza e dalla guerra, da kratos e da polemos, come vuole la filosofia greca, e che l’originario non è l’uomo lupo all’altro uomo, ma l’uomo fratello all’altro e che se l’uomo è diventato lupo all’altro non è per volontà divina o legge di natura, ma per un sovvertimento dell’una e dell’altra. La bibbia è il racconto di come sia stato possibile questo capovolgimento – dall’uomo fratello all’uomo lupo – e di come sia possibile capovolgere questo capovolgimento tornando dall’uomo lupo all’uomo fratello.
Ma la bibbia è soprattutto il racconto del “segreto” o principio che, capovolgendo questo capovolgimento, ricostituisce lo spazio originario della fraternità umana, Questo segreto è custodito in uno dei termini più scarni dei dizionari: il termine passione: passione del popolo d’Israele che Dio si sceglie per riaprire all’umanità l’originario perduto della fraternità umana, e passione di Gesù, figlio di Israele e figlio di Dio, in cui Dio e l’uomo tornano a parlarsi e a riconciliarsi definitivamente. Passione che è amore più forte della morte e pazienza che non è debolezza ma un di più di forza – e altro dalla forza – che sa fare a meno della forza. La bibbia è il racconto di questa pazienza o passione del popolo ebraico nel Primo Testamento e di Gesù nel Nuovo Testamento. Sulla croce, dicendo, Gesù, a chi lo uccide: “per me tu sei sempre amico”, esplode il principio di ricostituzione della fraternità umana, e nella storia antifraterna si (ri)accende la possibilità della fraternità umana come compito affidato alla responsabilità di ognuno.