Il dono della santità
Andrea Bozzolo
La santità, orizzonte della vita
Siamo alla vigilia della canonizzazione di due figure straordinarie che hanno segnato la storia del Novecento: Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Entrambi provenivano da famiglie umili e semplici ed entrambi hanno lasciato una traccia profonda nella loro epoca e nel cuore di milioni di uomini. Giovanni XXIII è il Papa che ha indetto e aperto il Concilio Vaticano II, con un gesto di grande coraggio, che si è rivelato una vera profezia. Giovanni Paolo II è il Papa che ha saputo opporsi alle grandi ideologie del secolo scorso, ha guidato la Chiesa al Grande Giubileo, ha presentato la Divina Misericordia come vera risorsa per il rinnovamento dei cuori, ha raccolto milioni di giovani nelle Giornate Mondiali della Gioventù. La loro canonizzazione ci dà un messaggio di straordinaria attualità: Dio continua a fare meraviglie attraverso i suoi santi! Dio continua ad agire nella storia, sotto i nostri occhi, attraverso persone la cui grandezza sta tutta nella fede. Esse ci indicano che l’apertura del cuore al Mistero di Dio e la dedizione ai fratelli è la questione decisiva della vita.
Dopo la celebrazione del Grande Giubileo del 2000, Giovanni Paolo II, additando il cammino della Chiesa nel Terzo millennio, affermava: “in primo luogo non esito a dire che la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quella della santità. […] Finito il Giubileo, ricomincia il cammino ordinario, ma additare la santità resta più che mai un’urgenza della pastorale”. La santità viene qui presentata non semplicemente come un ideale o un traguardo lontano, ma come il contesto entro cui deve svilupparsi l’ordinarietà della vita, l’orizzonte entro cui devono nascere i nostri progetti e le nostre iniziative, la logica che deve ispirare i nostri cammini.
Questa era anche la mentalità di don Bosco, lo stile con cui educava i suoi ragazzi, l’eredità più preziosa che ci ha lasciato. A Valdocco, infatti, il discorso sulla santità era di casa. Non perché tutti fossero santi o perché l’Oratorio fosse un ambiente elitario, riservato solo ai migliori. Ma perché don Bosco viveva e trasmetteva ai suoi collaboratori e ai suoi ragazzi la convinzione che l’amicizia con Dio è la vera ricchezza, offerta a tutti e necessaria a ognuno. Don Bosco era convinto che il cuore di ogni giovane è “spazio” di Dio, santuario della sua presenza, abisso aperto all’infinito, segnato dalla colpa, bisognoso di redenzione e di salvezza. Per questo non aveva paura a parlare di santità, ossia del dono della sua presenza che Dio fa ad ogni vita. Per lui questo era l’orizzonte entro cui aiutare i giovani più disponibili a crescere nella dedizione, fino all’eroismo, e far scoprire a quelli che erano più segnati dal male gli abissi della misericordia divina, la tenerezza del Buon Pastore, la forza di guarigione della grazia.
Don Bosco era convinto che il più grande inganno del Maligno fosse far pensare ai giovani che la santità è qualcosa di serioso, triste e austero. Egli capiva che i suoi ragazzi rischiavano di vedere la vita cristiana come un ideale astratto, fatto di regole fredde e di principi scoraggianti. E voleva comunicare loro che invece la fede autentica, ossia la santità, è un incontro vitale con Dio, che accende nel cuore una gioia immensa e rende la propria vita una primavera di bene. Questo è ciò che va detto a tutti, perché a tutti Dio dona la capacità di riconoscere la verità di questa speranza e la qualità di questo dono.
Quando la santità è riconosciuta per ciò che è, essa fa accendere nei cuori un’energia di bene, che avrà anche il coraggio di affrontare gli inverni del sacrificio e della rinuncia, le potature dell’incomprensione e della fatica. Nei giovani santi di casa nostra – Domenico Savio, Laura Vicuňa, Zefirino Namuncurà, Alberto Marvelli, Franciszek Kesy e i suoi quattro compagni oratoriani di Poznam – non vediamo forse questo? Domenico Savio, dopo la famosa predica di don Bosco sulla facilità di farsi santi, va da lui e gli dice: “mi sento un desiderio ed un bisogno di farmi santo: io non pensavo di potermi far santo con tanta facilità; ma ora che ho capito potersi ciò effettuare anche stando allegro, io voglio assoluta¬mente, ed ho assolutamente bisogno di farmi santo. Mi dica dunque come debbo regolarmi per incominciare tale impresa”. E poi sintetizzerà la sua esperienza di straordinaria fioritura nella grazia dicendo: “qui all’oratorio facciamo consistere la santità nello stare molto allegri”.
Quando invece la santità si riduce a una proposta formale, fatta di luoghi comuni e di massime generali, essa diviene un ideale lontano, in cui non pulsa la vita. Diviene come un albero ridotto allo scheletro, da cui non è possibile trarre frutti. Prevale così nell’ambiente l’attenzione a singoli progetti e attività, ma si percepisce che manca il soffio dello Spirito. Si fanno molte cose, ma le nostre iniziative diventano l’orizzonte angusto in cui lo sguardo rimane rinchiuso, smarrendo la percezione del dono di Dio. Si cade così nell’attivismo che non santifica né noi né gli altri, anzi poco per volta svuota il cuore e lo inaridisce, perché mette noi e le nostre opere al centro, ci fa sentire protagonisti fino a relegare la presenza di Dio in uno spazio marginale del cuore e della mente.
I santi invece ci dicono che la vera urgenza per noi, come singoli, come gruppi e comunità, è lasciarci raggiungere dalla grazia, lasciarci condurre in quell’habitat spirituale nel quale fioriscono pensieri e propositi che portano la firma di Dio. La santità è ciò per cui esistiamo, è il grande dono messo a nostra disposizione, è lo spazio in cui capiamo veramente chi siamo.
“Oggi devo fermarmi a casa tua”
Per entrare più profondamente nel tema della santità come dono e come compito, ci lasciamo illuminare da una delle pagine più commoventi del Vangelo, quella che descrive l’incontro tra Gesù e Zaccheo (Lc 19,1-10). In questa pagina l’evangelista Luca ha racchiuso i temi principali della sua opera, tanto che gli studiosi hanno definito questo testo “un vangelo nel Vangelo”. Non ci ripromettiamo di farne un commento dettagliato, né una lectio, ma solo qualche sottolineatura che illumini la nostra riflessione sulla santità. Leggiamo anzitutto il testo:
1 Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, 2quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. 4Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. 5Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. 6Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. 7Vedendo ciò, tutti mormoravano: “È entrato in casa di un peccatore!”. 8Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”. 9Gesù gli rispose: “Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. 10Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”.
Situata nelle vicinanze del fiume Giordano, Gerico è una città antichissima, i cui resti più antichi sono quelli di un insediamento che data fino a 8000 anni prima di Cristo. Essa è situata a 240 metri sotto il livello del mare, nella depressione del Mar Morto. Già sul piano geografico, dunque, essa si presenta come una città “sprofondata”, in opposizione a Gerusalemme, la città sul monte. Nell’Antico Testamento le mura della sua città, che sembravano renderla inespugnabile, erano cadute al suono delle trombe del popolo di Israele. La potenza della fede e della preghiera di Giosuè e del popolo aveva sconfitto la resistenza di Gerico, la conquista della città non era stata il risultato della forza umana, ma della potenza di Dio. Questi dati geografici e storici fanno comprendere che l’ambientazione dell’incontro con Zaccheo nella città di Gerico è indubbiamente carico di simbolismo. La città sprofondata sotto terra è raggiunta dalla grazia. Il dono della santità arriva a Gerico, e se arriva lì, davvero nessuno ne è escluso.
Zaccheo non era un santo, anzi era un pubblicano, che aveva frodato nella riscossione delle tasse. La gente lo considerava un pubblico peccatore. Era però anche abitato da un desiderio di vedere Gesù: forse era solo curiosità, ma forse era anche una segreta speranza di novità per la sua vita. In ogni caso Zaccheo appare un misto di ricerca e di difesa. Da un lato vuole vedere Gesù, ma dall’altro sceglie una postazione che gli permetterà di non essere troppo coinvolto. In tutto questo c’è anche qualche cosa di un po’ grottesco. Zaccheo difatti è un uomo importante per il suo ruolo, ma è piccolo di statura; è temuto dalla folla per il suo potere, ma costretto a stare ai margini; la ricchezza gli darebbe molti mezzi, ma per vedere Gesù deve arrampicarsi su una pianta. Insomma in quest’uomo appollaiato su una pianta ci sono un po’ le contraddizioni di tutti noi: attrazione per Gesù e impaccio nel seguirlo, ricerca di Dio e prudenza troppo umana, speranza di poter vedere e timore di essere coinvolti. E soprattutto la massima attenzione a tenere la situazione in pugno, a non perdere il controllo di quel che avviene, a non lasciarsi coinvolgere più del previsto.
Gesù però si rivolge a Zaccheo con una mossa che lo spiazza: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Il segreto della vita non è arrampicarsi in alto: né per essere al di sopra degli altri nelle cose del mondo, né per arrivare con le proprie forze più vicino a Dio. Arrampicarsi rende solo goffi e ridicoli. Eppure è quello che facciamo, quando pensiamo a “sfondare” con le nostre capacità, quando vogliamo sembrare più di quello che siamo; anche quando nella vita spirituale pensiamo che la crescita possa essere il frutto semplicemente della nostra bravura nel mettere in pratica qualche ricetta. Il segreto della vita è invece lasciarsi guardare da Gesù, lasciare che il suo sguardo ci entri dentro, si posi nel più profondo del nostro cuore. Gesù ci chiama per nome, bussa alla porta della nostra dimora e ci chiede di entrare. Il segreto è dunque accogliere, e ciò significa scendere dalle nostre false altezze, riconoscere quello che siamo: dei “piccoli” visitati da Dio, resi grandi dalla grazia.
Questa esperienza, da cui parte il cammino della santità, si sviluppa nella storia di Zaccheo come una cura del suo desiderio malato. Zaccheo aveva fatto consistere la vita nell’avere, nel procurarsi beni, cose, prestigio. L’avidità del suo possedere era pari al vuoto interiore che cercava invano di colmare. E il mondo ti offre continuamente cose da procurati per sembrare ciò che in realtà non sei: grande e felice. Grazie all’incontro con Gesù, però, Zaccheo riconosce la sua malattia. Colmato di grazia, sente un bisogno incontenibile di libertà: libertà dalle cose che lo appesantivano, libertà dai peccati che lo avevano abbruttito. Una libertà che si realizza nell’onorare la giustizia: non però semplicemente secondo la logica del calcolo, ma secondo la sovrabbondanza della logica del dono.
Non copiare Raffaello
Zaccheo ci ha insegnato qualche cosa: la santità è accogliere Gesù che passa, è lasciarsi guardare da Lui facendo verità, è accoglierlo nella propria casa, è avviare un cammino di conversione del desiderio entrando nella logica del dono. In questo senso, la sfida è passare dalla pretesa di gestire l’incontro con Dio alla disponibilità a essere raggiunti da Lui e portati da Lui più in là di quello che immaginavamo. La santità non è un ideale per eroi, una meta per campioni, un progetto per spericolati della vita spirituale. L’abbiamo detto: la santità è per i piccoli.
Questo ci aiuta a capire che la prima e fondamentale questione rispetto alla santità non è: “ci riesco?” , ma piuttosto “mi interessa?”. Il cammino verso la santità non è mosso dal calcolo delle proprie forze, ma dallo stupore per la bellezza dell’incontro con Dio, dall’affidamento reale a Lui, a cui nulla è impossibile. Puntare sulle proprie forze di solito conduce a fare il minimo indispensabile per non essere “fuori”, conduce a vivacchiare, alternando momenti di entusiasmo passeggero a periodi di scoraggiamento e inconcludenza. Si vuole incontrare il Signore sull’albero delle nostre imprese … ma Lui passa più in basso. L’umile affidamento al Signore, invece, conduce a ripartire ogni giorno con semplicità e pazienza, lasciandosi guidare dallo Spirito.
Chiarito questo, è però anche giusto chiedersi se c’è qualche indicazione concreta che può aiutarci nel cammino. A questo proposito, mi sembra che possiamo raccogliere tre suggerimenti preziosi.
Il primo riguarda l’attenzione a riconoscere i doni che Dio ci fa nel quotidiano. Molte volte noi pensiamo che se fossimo in un monastero, o in un paese di missione, o in qualche altra situazione particolare… lì ci faremmo santi. Questi però non sono pensieri che vengono dallo Spirito Santo, perché conducono ad una fuga dalla realtà verso un idealismo disincarnato. Ricordiamoci che il Maligno è l’esperto di una “spiritualità dell’altrove”: altrove, con altri amici, altri don, altre circostanze …. io sarei migliore; ma qui con questa situazione, come faccio? Lo Spirito Santo, invece, è l’esperto di una spiritualità reale, vissuta nella concretezza del proprio ambiente. Dio ci dà appuntamento proprio nel nostro quotidiano. Dobbiamo imparare a riconoscerLo lì, nella nostra vita concreta, tra le mura di casa nostra, nel nostro oratorio, scuola, università, ambiente di lavoro: insomma nella nostra Gerico.
Proprio lì ci sono tanti doni che noi molte volte sprechiamo. In una bella catechesi sulla santità, 3 anni fa (13 aprile 2011) Benedetto XVI diceva: “In realtà devo dire che anche per la mia fede personale molti santi, non tutti, sono vere stelle nel firmamento della storia. E vorrei aggiungere che per me non solo alcuni grandi santi che amo e che conosco bene sono ‘indicatori di strada’, ma proprio anche i santi semplici, cioè le persone buone che vedo nella mia vita, che non saranno mai canonizzate. Sono persone normali, per così dire, senza eroismo visibile, ma nella loro bontà di ogni giorno vedo la verità della fede. Questa bontà, che hanno maturato nella fede della Chiesa, è per me la più sicura apologia del cristianesimo e il segno di dove sia la verità”. Anche noi certamente abbiamo nella nostra vita delle persone che sono di stimolo e di esempio; persone umili e generose attraverso cui Dio ci dice molte cose. Esse sono come una luce viva che ci fa intravedere nel quotidiano la possibilità di essere più aperti allo Spirito Santo. Apriamo dunque gli occhi su come Dio sta passando nella nostra vita. Non pensiamo sempre di essere sul binario sbagliato; il treno sta passando; anzi è lì: devi solo salire.
Il secondo suggerimento riguarda l’esigenza di conoscere e accettare noi stessi. Papa Giovanni XXIII nel suo diario spirituale “Giornale dell’anima” ci dona una pagina molto bella a questo riguardo. Egli scrive: “A forza di toccarlo con mano mi sono convinto di una cosa: come cioè sia falso il concetto che della santità applicata a me stesso io mi sono formato. Nelle mie singole azioni, nelle piccole mancanze subito avvertite, richiamavo alla mente l’immagine di qualche santo cui mi proponevo d’imitare in tutte le cose più minute, come un pittore copia esattamente un quadro di Raffaello. Dicevo sempre, se san Luigi in questo caso sarebbe così e così, non farebbe questo o quell’altro, ecc. Avveniva però che io non arrivavo mai a raggiungere quanto mi ero immaginato di poter fare, e m’inquietavo. É un sistema sbagliato. Delle virtù dei santi io devo prendere la sostanza e non gli accidenti. Io non sono san Luigi, né devo santificarmi proprio come ha fatto lui, ma come comporta il mio essere diverso, il mio carattere, le mie differenti condizioni. Non devo essere la riproduzione magra e stecchita di un tipo magari perfettissimo. Dio vuole che, seguendo gli esempi dei santi, ne assorbiamo il succo vitale della virtù, convertendolo nel nostro sangue ed adattandolo alle nostre singole attitudini e speciali circostanze. San Luigi, se fosse quello che io sono, si santificherebbe in un modo diverso da quello che ha seguito”.
Come dice Papa Giovanni XXIII, non dobbiamo dunque “scopiazzare Raffaello”, finendo per fare qualche sgorbio che ci scoraggia. Non dobbiamo partire da un’immagine idealizzata di noi stessi, ma imparare a conoscerci nella luce di Dio. Questo riguarda le circostanze della vita. Se, ad esempio, sono studente e dedico molte ore del giorno allo studio, il mio studio deve divenire spazio di santità. Solleverò ogni tanto la testa dai libri per rivolgere una preghiera al Signore; metterò retta intenzione in quello che faccio, in modo da non cercare solo il successo personale; prenderò sul serio la mia preparazione, per poter servire meglio il prossimo; renderò grazie a Dio delle cose che scopro giorno per giorno; terrò desta la mia coscienza per avere un senso critico nelle cose che imparo e così via.
Questo riguarda ancora di più il mio carattere, le risorse positive che ho e il modo in cui le uso, le mie debolezze e fragilità e così via.
La terza e ultima indicazione si riferisce all’umiltà di imparare dalla sapienza della Chiesa, così come è testimoniata dai grandi santi e dai maestri di spirito. Non siamo i primi a percorrere le vie dello Spirito. Una tradizione di duemila anni ci ricorda quali sono gli ingredienti di un’autentica vita cristiana: la preghiera quotidiana, la coltivazione del silenzio e dell’ascolto; la frequenza dei sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucaristia; la lettura di buoni testi di spiritualità; l’accompagnamento spirituale con una guida che illumini e sostenga; la costruzione di legami autentici di fraternità e di servizio, il dono di sé alle persone che ci stanno vicine, l’impegno per i più bisognosi e gli esclusi, la testimonianza umile e coraggiosa della fede.
Tutto questo deve concretizzarsi in impegni semplici, ma molto concreti. La conversione interiore di Zaccheo è diventata un fatto visibile, si è tradotta in scelte precise. Molte volte noi rischiamo di restare su principi molto generali, senza arrivare a toccare lo stile delle nostre giornate. Pensiamo ad esempio all’importanza del modo in cui la giornata inizia e finisce; l’ordine nella gestione del tempo; il modo di aver cura di sé e dell’ambiente in cui si vive; lo stile delle amicizie, delle letture, del divertimento… In tutto questo, l’accompagnamento paziente e prudente di una buona guida spirituale costituisce certamente una risorsa preziosa perché il dono dell’amicizia con il Signore non vada sprecato.
Per la riflessione personale
1. Quanto so rendermi conto del dono straordinario che è l’amicizia con Gesù? Capisco che la santità non è un ideale lontano, ma l’orizzonte dentro cui deve svolgersi la mia vita? Che effetto mi fa sentirmi dire questo?
2. In quali circostanze della mia vita posso dire di aver fatto come Zaccheo l’esperienza di un incontro personale con Gesù? Che segno ha lasciato questo fatto nella mia storia? Mi so accorgere di come il Signore passa quotidianamente nelle mie giornate? In che cosa trovo maggiore difficoltà?
3. Sono affascinato dalla santità? Nell’ambiente in cui vivo ci aiutiamo a vicenda a percepire la bellezza della vita cristiana come dono di grazia o ci lasciamo assorbire solo dalle attività? Capisco l’importanza di concretizzare i miei impegni e di farmi seguire da una guida spirituale?
Antologia di brani
Dalla lettera apostolica Novo millennio ineunte del Beato Giovanni Paolo II (6 gennaio 2001)
30. E in primo luogo non esito a dire che la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quella della santità. […] Finito il Giubileo, ricomincia il cammino ordinario, ma additare la santità resta più che mai un’urgenza della pastorale. Occorre allora riscoprire, in tutto il suo valore programmatico, il capitolo V della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, dedicato alla «vocazione universale alla santità». Se i Padri conciliari diedero a questa tematica tanto risalto, non fu per conferire una sorta di tocco spirituale all’ecclesiologia, ma piuttosto per farne emergere una dinamica intrinseca e qualificante. La riscoperta della Chiesa come «mistero», ossia come popolo «adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito», non poteva non comportare anche la riscoperta della sua «santità», intesa nel senso fondamentale dell’appartenenza a Colui che è per antonomasia il Santo, il «tre volte Santo » (cfr Is 6,3). Professare la Chiesa come santa significa additare il suo volto di Sposa di Cristo, per la quale egli si è donato, proprio al fine di santificarla (cfr Ef 5,25-26). Questo dono di santità, per così dire, oggettiva, è offerto a ciascun battezzato. Ma il dono si traduce a sua volta in un compito, che deve governare l’intera esistenza cristiana: «Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione» (1 Ts 4,3). È un impegno che non riguarda solo alcuni cristiani: «Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità».
31. Ricordare questa elementare verità, ponendola a fondamento della programmazione pastorale che ci vede impegnati all’inizio del nuovo millennio, potrebbe sembrare, di primo acchito, qualcosa di scarsamente operativo. Si può forse «programmare» la santità? Che cosa può significare questa parola, nella logica di un piano pastorale? In realtà, porre la programmazione pastorale nel segno della santità è una scelta gravida di conseguenze. Significa esprimere la convinzione che, se il Battesimo è un vero ingresso nella santità di Dio attraverso l’inserimento in Cristo e l’inabitazione del suo Spirito, sarebbe un controsenso accontentarsi di una vita mediocre, vissuta all’insegna di un’etica minimalistica e di una religiosità superficiale. Chiedere a un catecumeno: «Vuoi ricevere il Battesimo?» significa al tempo stesso chiedergli: «Vuoi diventare santo?». Significa porre sulla sua strada il radicalismo del discorso della Montagna: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48).
Come il Concilio stesso ha spiegato, questo ideale di perfezione non va equivocato come se implicasse una sorta di vita straordinaria, praticabile solo da alcuni «geni» della santità. Le vie della santità sono molteplici, e adatte alla vocazione di ciascuno. Ringrazio il Signore che mi ha concesso di beatificare e canonizzare, in questi anni, tanti cristiani, e tra loro molti laici che si sono santificati nelle condizioni più ordinarie della vita. È ora di riproporre a tutti con convinzione questa « misura alta » della vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale e delle famiglie cristiane deve portare in questa direzione. È però anche evidente che i percorsi della santità sono personali, ed esigono una vera e propria pedagogia della santità, che sia capace di adattarsi ai ritmi delle singole persone. Essa dovrà integrare le ricchezze della proposta rivolta a tutti con le forme tradizionali di aiuto personale e di gruppo e con forme più recenti offerte nelle associazioni e nei movimenti riconosciuti dalla Chiesa.
Dal Giornale dell’anima del Beato Giovanni XXIII
“A forza di toccarlo con mano mi sono convinto di una cosa: come cioé sia falso il concetto che della santità applicata a me stesso io mi sono formato. Nelle mie singole azioni, nelle piccole mancanze subito avvertite, richiamavo alla mente l’immagine di qualche santo cui mi proponevo d’imitare in tutte le cose più minute, come un pittore copia esattamente un quadro di Raffaello. Dicevo sempre, se san Luigi in questo caso sarebbe così e così, non farebbe questo o quell’altro, ecc. Avveniva però che io non arrivavo mai a raggiungere quanto mi ero immaginato di poter fare, e m’inquietavo. É un sistema sbagliato. Delle virtù dei santi io devo prendere la sostanza e non gli accidenti. Io non sono san Luigi, nè devo santificarmi proprio come ha fatto lui, ma come comporta il mio essere diverso, il mio carattere, le mie differenti condizioni. Non devo essere la riproduzione magra e stecchita di un tipo magari perfettissimo. Dio vuole che, seguendo gli esempi dei santi, ne assorbiamo il succo vitale della virtù, convertendolo nel nostro sangue ed adattandolo alle nostre singole attitudini e speciali circostanze. San Luigi, se fosse quello che io sono, si santificherebbe in un modo diverso da quello che ha seguito” (179s.).
“Il pensiero che io sono obbligato ed ho per mio compito principale ed unico il farmi santo ad ogni costo, deve essere la mia preoccupazione continua: preoccupazione serena, però, e tranquilla, non pesante e tiranna. Di ciò mi debbo ricordare ogni momento, dal primo aprire degli occhi alla luce del mattino, all’ultimo chiuderli al sonno, nella sera. Non torniamo, dunque, ai modi, agli usi di una volta. Serenità e pace, ma costanza e intransigenza. Diffidenza assoluta e basso concetto di me stesso, accompagnati da una comunicazione d’affetto ininterrotta con Dio” (185).
“Vigilanza, adunque, scrupolosa, alle più piccole occasioni; delicatezza estrema in tutte le opere mie. La santità dei santi non é fondata sopra fatti strepitosi, ma sopra coserelle che all’occhio del mondo sembrano inezie. Gesù Cristo nei primi trent’anni di sua vita mi offre, a questo riguardo, una scuola di esempi luminosi” (210).
Dalla Vita del giovinetto Savio Domenico di S. Giovanni Bosco
Erano sei mesi da che il Savio dimorava all’Oratorio, quando fu ivi fatta una predica sul modo facile di farsi santo. Il predicatore si fermò specialmente a sviluppare tre pensieri che fecero profonda impressione sull’animo di Domenico, vale a dire: è volontà di Dio che ci facciamo tutti santi: è assai facile di riuscirvi: è un gran premio preparato in cielo a chi si fa santo. Quella predica per Domenico fu come una scintilla che gl’infiammò il cuore d’amore di Dio. Per qualche giorno disse nulla, ma era meno allegro del solito, sicché se ne accorsero i compagni e me ne accorsi anch’io. Giudicando che ciò provenisse da novello incomodo di sanità, gli chiesi se pativa qualche male. Anzi, mi rispose, patisco qualche bene. — Che vorresti dire? Voglio dire che mi sento un desiderio ed un bisogno di farmi santo: io non pensava di potermi far santo con tanta facilità; ma ora che ho capito potersi ciò effettuare anche stando allegro, io voglio assoluta¬mente, ed ho assolutamente bisogno di farmi santo. Mi dica adunque come debbo regolarmi per incominciare tale impresa.
Io lodai il proposito, ma lo esortai a non inquietarsi, perché nelle commozioni dell’animo non si conosce la voce del Signore; che anzi io voleva per prima cosa una costante e moderata allegria: e consi¬gliandolo ad essere perseverante nell’adempimento dei suoi doveri di pietà e di studio, gli raccomandai che non mancasse di prendere sempre parte alla ricreazione coi suoi compagni.
Un giorno gli dissi di volergli fare un regalo di suo gusto; ma esser mio volere che la scelta fosse fatta da lui. Il regalo che domando, prontamente egli soggiunse, è che mi faccia santo. Io mi voglio dare tutto al Signore, per sempre al Signore, e sento un bisogno di farmi santo, e se non mi fo santo io fo niente. Iddio mi vuole santo, ed io debbo farmi tale.
In una congiuntura il direttore voleva dare un segno di speciale affetto ai giovani della casa e fece loro facoltà di chiedere con un bi¬glietto qualunque cosa fosse a lui possibile, promettendo che l’avrebbe concessa. Quindi può ognuno facilmente immaginarsi le ridicole e le stravaganti domande fatte dagli uni e dagli altri. Il Savio, preso un pezzetto di carta, scrisse queste sole parole: Dimando che mi salvi l’anima e mi faccia santo.
Un giorno si andavano spiegando alcune parole secondo la etimo¬logia. E Domenico, egli dissé, che cosa vuoi dire? Fu risposto: Do¬menico vuoi dire del Signore. Veda, tosto soggiunse, se non ho ragione di chiederle che mi faccia santo: fino il nome dice che io sono dei Signore. Dunque io debbo e voglio essere tutto del Signore e voglio farmi santo e sarò infelice finché non sarò santo.
La smania che egli dimostrava di volersi fare santo non derivava dal non tenere una vita veramente da santo, ma ciò diceva, perché egli voleva far rigide penitenze, passar lunghe ore nella preghiera, le quali cose erangli dal direttore proibite, perché non compatibili colla sua età e sanità e colle sue occupazioni.
La prima cosa che gli venne consigliata per farsi santo fu di ado¬perarsi per guadagnar anime a Dio; perciocché non havvi cosa più santa al mondo che cooperare al bene delle anime, per la cui salvezza Gesù Cristo sparse fin l’ultima goccia del prezioso suo sangue. Co¬nobbe Domenico l’importanza di tale pratica, e fu più volte udito a dire: Se io potessi guadagnare a Dio tutti i miei compagni, quanto sarei felice! Intanto non lasciava sfuggire alcuna occasione per dare buoni consigli, avvisar chi avesse detto o fatto cosa contraria alla santa legge di Dio (cap. X e XI).
Roma, Forum MGS, 25-27 aprile 2014