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    Goffredo Fofi

     

    Al mio paese, Gubbio, per tutti gli anni Quaranta e quasi tutti i Cinquanta nel giorno del Venerdì Santo il «cinema dei preti» – le sale erano due, una di proprietà del Pci e l'altra di proprietà del vescovo, ma anche la sala del vescovo proiettava pellicole che il Centro Cattolico Cinematografico decretava proibite ai minori, perché «purgate» dalle attente forbici di un canonico cinefilo – proiettava un noiosissimo film di Julien Duvivier intitolato Golgota, nel quale un improbabile Jean Gabin, non ancora approdato al Porto delle nebbie, interpretava Ponzio Pilato e Gesù era Robert Le Vigan, un attore sapiente ed esuberante che, amico di Céline, lo fu più tardi anche dei nazisti durante l'occupazione tedesca della Francia e finì per morire in esilio per evitare, dopo la guerra, la prigione o peggio. Del suo Gesù, il Mereghetti dice che fu «spiritato e rigido allo stesso tempo, simile alla statua di cera di un anarchico bakuniniano».
    Il film è del 1934 e Duvivier aveva trovato i paesaggi adeguati nell'Algeria occupata dai francesi, senza affatto rendersi conto, né lui né i critici né il pubblico, che la condizione di quel paese non era poi così diversa da quella della Palestina sotto i romani. La sceneggiatura, scritta da un ecclesiastico dimenticabile, era certamente corretta dal punto di vista dell'ortodossia cattolica degli anni di Pio XI e di Pio XII, ma oscillando tra le pretese di far storia e sacra rappresentazione il film falliva su tutti i due fronti; né Duvivier poteva rimediarvi, a suo agio invece nelle esotiche avventure di La bandera girate in Marocco un anno dopo Golgota, con Gabin che era adesso un eroe romantico che cerca la morte nella Legione Straniera e Le Vigan il suo perfido e infame persecutore (il film era dedicato a Francisco Franco, capo delle truppe spagnole di occupazione in Marocco, un anno prima del suo sollevamento contro la Repubblica, un anno prima che scoppiasse in Spagna la guerra civile).
    A Golgota e ai film muti che lo avevano preceduto in Italia o altrove, posso contrapporre, nei miei ricordi d'infanzia, una più memorabile rappresentazione teatrale, Christus, data in una qualche Pasqua dalla compagnia di giro D'Origlia-Palmi; guitti di sapore ancora ottocentesco che battevano la provincia con testi classici debitamente adattati (Romeo e Giulietta, Amleto...) e con testi ottocenteschi edificanti (La morte civile, I due sergenti...), che finirono la loro stagione ospitati in un teatrino romano entro le mura del Vaticano, alla cui scuola desueta e «verdiana» si nutrì Carmelo Bene. Un'enfasi già esotica: «imperocché imperocché io vi dico...» diceva il vecchio cavalier Palmi malamente legato o appoggiato a una grande croce, e il pubblico popolare poteva forse trovarvi l'eco delle sacre rappresentazioni del medioevo e del Rinascimento, mentre il pubblico colto ne rideva.
    Il cinema è il cinema, un mezzo di comunicazione di massa che è riuscito ad avere una funzione storica enorme nel XX secolo, alfabetizzando tramite la conoscenza di ambienti situazioni sentimenti diversi da quelli comunemente sperimentati, di popoli luoghi comportamenti altri, e la costruzione di un immaginario adeguato alla modernità, e in essa sopperendo ai bisogni di evasione e di sogno della «gente comune». In questo ha saputo spesso elaborare una forma espressiva nuova e inventiva, nella quale si sono illustrati quegli autori che avevano ben presente tanto i suoi condizionamenti che le sue enormi potenzialità, primo fra tutti Charles Chaplin. Ha però goduto di una minore libertà quando ha preteso di essere un'arte autonoma, quando ha voluto rispondere all'altra sua vocazione, di elaborazione di una forma d'espressione nuova, libera sintesi di molte altre.
    Le opere che hanno osato narrare «la più grande storia mai raccontata» (titolo di uno dei filmoni hollywoodiani con protagonista o «guest star» Gesù di Nazaret) sono state tutte, con rare eccezioni, dalla parte della agiografia spettacolare, che soprattutto in paesi protestanti (dunque anzitutto negli Usa, dominatori del mercato cinematografico occidentale e non solo di quello) ha dovuto accontentare non tanto il pubblico quanto le chiese di cui esso era fedele e che lo indirizzavano. Il codice di autocensura dei produttori cinematografici hollywoodiani che prende il nome dal promotore William Hays rispondeva anzitutto ai diktat morali delle chiese più influenti, compresa la cattolica, e fu promulgato non a caso a ridosso della «de-pressione» del 1929, la «grande crisi», in risposta al bisogno da parte della classe dirigente di controllare anche ideologicamente un popolo di disoccupati e di affamati. Il trionfo, sempre, della legge e dell'ordine, l'onestà personale e la fedeltà coniugale premiate, il conformismo sociale esaltato, l'adulterio la rapina l'omicidio e lo «scarto» da una retta via definita senza titubanze condannati senza pietà, il «male» punito, il «bene» premiato.
    Il codice non trovava nulla da eccepire nel ricorso alle più astute o ottuse forme spettacolari per propagandare l'American way of life, quella visione della vita che, dirà più tardi Susan Sontag, è stata la peste che la cultura americana è riuscita sapientemente a imporre al mondo. Di essa fa indissolubilmente parte la fiducia in Dio, invocato in tutte le occasioni pubbliche anche le più politiche e le più aberranti: il richiamo a Gesù è servito a propagandare il cristianesimo nella sua forma più corrotta e terrestre, e non hanno avuto e non hanno freni altri regimi e altre religioni nel dichiarare che Dio era ed è dalla loro parte, fino al Gott mit uns degli eserciti in guerra. Ma ne fa anche parte la convinzione tutta protestante che Dio e Denaro possono andare felicemente d'accordo, e dunque anche Dio e Spettacolo, tanto più se il secondo ha il nobile scopo di far pubblicità al primo, al rispetto formale e ipocrita dei suoi comandamenti.
    L'esempio più efficace e più astuto – anche se non è da escludervi una parte di buona fede – di questo modo di concepire la propaganda del bene è rappresentato dall'opera di Cecil B. De Mille, regista e produttore che, dopo aver dato nel muto un buon numero di arguti film sui comportamenti sessuali della borghesia americana (Perché cambiare moglie?, Maschio e femmina, Fragilità sei femmina, eccetera), si specializzò in grandi spettacoli, alternando quelli ispirati a episodi della Bibbia ai grandi western e film d'avventura: I dieci comandamenti (versione muta, la parte «storica» confrontata a una parte moderna, e versione sonora), Sansone e Dalila, ma anche Il segno della croce, e Cleopatra, e I crociati... E, nel muto, Il Re dei Re! Ebbene, a un collega o a un giornalista che gli chiedeva se esistesse una formula spettacolare che assicurasse il successo, egli rispose che sì, esisteva e lui l'aveva sperimentata: Sesso, Violenza e Religione accortamente dosati. I film americani dove compare la figura di Gesù marginalmente (ma in modo essenziale per l'evoluzione del racconto) ne hanno tenuto tutti più o meno conto, benché senza la spregiudicatezza di De Mille.
    Avessero pretese storiche o meno, in film come Quo vadis?, La tunica, Barabba (un superspettacolo tratto dall'austero e degnissimo capolavoro letterario del tormentato Pàr Lagerkvist) o Ben Hur compare marginalmente Gesù, come predicatore o nel momento del Calvario, ma, come si può facilmente intuire, in modo decisivo per dare un senso al racconto. Il modello letterario, ottocentesco, fu per tutti L'ebreo errante di Eugène Sue, con il protagonista condannato a mai morire e a sempre soffrire attraverso la storia perché ha rifiutato di assistere Gesù nella via crucis. L'esempio forse più ambiguo ideologicamente di questa leggenda fu un adattamento moderno di L'ebreo errante proposto da Goffredo Alessandrini e girato a Roma appena dopo la Liberazione, forse il primo film a soggetto in cui si mostrassero i lager nazisti e il genocidio degli ebrei, ma in una chiave assolutamente e scandalosamente cattolica: dopo le sue infinite peregrinazioni di epoca in epoca, Asvero (un giovane Vittorio Gassman) poteva infine morire perdonato ed entrare nel regno dei cieli perché sacrificava eroicamente la sua vita per gli altri. Di tutta questa bassa propaganda religiosa attuata attraverso il cinema – quella di tutti i film sulla vita di Cristo o dei suoi seguaci proposti sino agli anni Sessanta – fece giustizia nel 1963 il breve film di Pasolini La ricotta, che mostrava la cinica lavorazione di un film sulla vita di Cristo, anzi sulla sua crocefissione, alla periferia di Roma in un contesto «cattolico e romano» certamente non più baracconesco di quelli delle «vite di Gesù» girate a Hollywood o altrove (ce n'era stata anni prima una direttamente prodotta dal Vaticano, diretta dal documentarista Virgilio Sabel, Il figlio dell'uomo, 1954, agiografia onestamente povera destinata al pubblico degli oratori), e nei nostri oratori circolò negli stessi anni il risibile Bacio di Giuda di Rafael Gil, 1953, esempio di cinema pacelliano e franchista.
    Si intitola Il bacio di Giuda anche il film povero e chiaro di Paolo Benvenuti di molti anni dopo (1988), interpretazione della figura di Giuda come consustanziale al piano della redenzione: egli deve tradire, è invitato da Gesù a tradire, perché il piano si compia. Benvenuti era stato allievo di Rossellini, un maestro i cui Atti degli Apostoli (1969) e il cui Messia per la tv (1975) hanno oscillato tra la volontà della ricostruzione storica e la lettura religiosa, migliore il primo film del secondo, con un umanissimo Gesù che parla con le parole del Vangelo di Giovanni. La compostezza e la misura di questi due lavorinon permette loro di sollevarsi sopra la buona funzione didattica, anche se il film trova una qualche grandezza proprio nella sua misura, in qualche modo nella sua modestia.
    Che distanza tra queste opere e La ricotta, che rimane uno dei migliori lavori di un regista che si è dichiarato spesso allievo di Rossellini. Qui la religione si fa scandalo e protesta, in modi provocatori e sinceri, quando contrappone all'orgia volgare della produzione di spettacolo la «banale» morte sulla croce del «ladrone» Stracci, comparsa sottoproletaria vittima di un'indigestione di ricotta. Controcanto colorato e attuale (la Roma del «miracolo economico», gli anni di La dolce vita) all'ispirata ricostruzione storica successiva, debitamente in bianco e nero, del Vangelo secondo Matteo. Ma anche richiamo forte a una religione di rottura, di scelta.
    Ha voluto, in anni recenti e nel pieno della nostra crisi (la «post-modernità»), tornare direttamente al messaggio cristiano un regista, Ermanno Olmi, che è stato a volte (Il posto, I fidanzati, L'albero degli zoccoli, Il mestiere delle armi...) eccezionalmente acuto nel raccontare le nostre piccole e grandi trasformazioni, le nostre piccole e grandi storie. In un film-fiaba di immediata semplicità e grazia, Cammina-cammina (1982), ha affrontato il viaggio dei Magi alla ricerca del piccolo Salvatore e denunciato la cecità degli intellettuali, di chi ha occhi per vedere ma non vuole vedere; ma se una tematica religiosa affiora in quasi tutte le sue opere, è con gli ultimi film che ha cercato di dire di più, esaltando dei modelli di esistenza ed esecrandone altri. Centochiodi (2007) difende la semplicità delle scelte di vita in accordo con la natura e aperte al prossimo, e ridimensiona il valore di una scienza che non è vera sapienza né saggezza, dei libri che pretendono sostituirsi alla vita e alle sue ragioni. Il villaggio di cartone (2011) ritorna al modello della sacra rappresentazione criticando chiesa e stato e gli italici farisei per il modo in cui si comportano nei confronti degli immigrati, tra i quali forse il nuovo nato è il nuovo salvatore. Si tratta però di dichiarazioni in qualche modo fredde, più pensate che vissute, che difettano di quella persuasione che sa coinvolgere, che spinge a mutare. Operazioni di alta retorica piuttosto «recuperabili» per una cultura come la nostra, così predisposta all'ipocrisia dei buoni sentimenti e dei buoni propositi senza conseguenze.
    Se i francesi avevano scelto l'Algeria per evocare la Palestina di un tempo, se gli americani avevano girato i loro film biblici alle soglie del deserto californiano, furono i Sassi di Matera Io sfondo ideale per i due film più ambiziosi nel voler confrontarsi direttamente con i Vangeli, quello del poeta e regista Pier Paolo Pasolini (Il vangelo secondo Matteo, 1964) e quello dell'attore e regista australiano Md Gibson (La Passione di Cristo, 2.004). Pasolini dedicò non a caso il suo film alla memoria di Giovanni XXIII, il papa del Concilio Vaticano II, e il suo Gesù fu giovane e ardente, rivoluzionario. Quando si vide il film al festival di Venezia, ne scrissi una recensione che provocò una sua risposta e una conseguente polemica con i «Quaderni piacentini» (Piergiorgio Bellocchio chiese di replicare a Fortini e non a me, giustamente, ma firmò lui una risposta che fu in qualche modo collettiva). Cosa avevo rimproverato a Pasolini, con intransigenza militante? Di aver fatto un grande film terzomondista, che escludeva però la possibilità di una rivoluzione proletaria in Occidente, in Italia. Fu anche la lettura che ne dettero due grandi registi terzomondisti, il brasiliano Glauber Rocha che mi disse senza mezzi termini che quel film era loro e non nostro, e Luis Bufluel, che da anni viveva nel Messico e che affermò in un'intervista che solo nel Terzo Mondo quel film poteva venir compreso fino in fondo.
    La lettura religiosa del film passava in secondo piano per tutti, mentre nelle visioni successive è risultata sempre più pregnante e originale, accentuandone l'aspetto escatologico sempre latente, l'annuncio del Regno oltre i limiti della storia e di ogni storia. Nella rivolta contro l'ingiustizia terrena vi è ben forte l'anelito all'avvento di un'altra realtà, liberata infine dal Male. Il rifiuto della spettacolarità, il sincretismo del commento musicale (curato da Elsa Morante: da Bach alla Missa Luba), l'asprezza sgranata della fotografia di Delli Colli, i primi piani austeri e antichi del giovane non attore Enrique Irazoqui che sembra un Gesù bizantino, i Sassi da poco liberati da una popolazione contadina che viveva nelle sue grotte in sintonia con asini e capre ed era tornata a popolarli in occasione del film, il ricordo molto vicino del Cristo di Levi e delle poesie di Scotellaro e le tensioni stesse di un'epoca di movimento e di speranza, hanno fatto del Vangelo pasoliniano un film unico nella storia del nostro cinema, ma anche in quella del cinema religioso e sociale.
    Mel Gibson, nello scenario dei Sassi, ha invece privilegiato una sacra rappresentazione ai limiti dello splatter nel mostrare la violenza esercitata su Gesù, una violenza che a molti è sembrato sollecitassenello spettatore una estrema, compiaciuta morbosità. Il film ha entusiasmato le sette americane fondamentaliste assai più dei cattolici italiani più avvertiti. È passato invece senza lasciar traccia il film di Abel Ferrara Mary (2005) sulla lavorazione di un film sulla vita di Gesù, girato anch'esso a Matera anche se ambientato nell'Israele e nella Palestina di oggi. Ma su Ferrara bisognerà tornare.
    Un altro film, stavolta su un versante tra liberty e «saint-sulpicien», che ha avuto molto successo grazie alla televisione in area cattolica come in area protestante è stato nel 1977 il Gesù di Nazaret di Franco Zeffirelli, una co-produzione italo-inglese e forse il più costoso e raffinato degli sceneggiati tv di storia religiosa, vicino, nonostante la diversità dei tempi, al modello De Mille, smussato della sua plasticità ottocentesca. L'iper-realismo di Gibson o l'iconografia da immaginetta di Zeffirelli hanno di diverso tra loro anche l'evidente, fanatica convinzione del primo e l'evidente, elegante esteriorità del secondo, che è tutto fuorché un fondamentalista. Il Gesù di Zeffirelli era anche una risposta al presunto sguardo giovanile e movimentista del Jesus Christ superstar, un musical inglese del 1970 che divenne un costoso e stupido film americano di Norman Jewison nel 1973, sull'ultima settimana di vita di Cristo. Delle tante interpretazioni della figura di Giuda è forse quella di questo film la più risibile, un Giuda nero e atletico che è il vero protagonista di una storia chiassosa e caotica. Delle frustate a Gesù al rallentatore si è probabilmente ricordato il non meno rozzo Gibson, certamente più convinto del manager Jewison di ciò che faceva o osava.
    Nel 1979, due anni dopo il film di Zeffirelli, il grande gruppo inglese dei Monty Python, attivo prima in tv e poi anche in cinema, dalla surreale comicità antiborghese nemica di ogni fanatismo, aggressiva nei confronti delle ipocrisie sociali d'ogni tipo e dunque anche di quelle religiose, realizzò il film Brian di Nazareth, quasi una risposta allo sceneggiato di Zeffirelli. Era una «storia parallela» a quella di Gesù a venirvi narrata, e Gesù non vi era mai preso di petto, anche se molte chiese insorsero contro il film. In realtà, i Monty Python vi esprimevano una loro laica morale attenta ai valori sociali e meno a quelli religiosi, un grande rispetto per la figura di Gesù ma uno scarso rispetto per quella dei credenti. D'altronde, se Gesù fu lasciato rispettosamente sullo sfondo in Brian di Nazareth, il gruppo amò invece confrontarsi con Dio, o con le idee e le immagini correnti su Dio, in altri film che si vollero comicamente blasfemi come Monty Python e il Santo Graal (1974) o sfrenatamente blasfemi Monty Python e il senso della vita (1983). Nessun comico, almeno in cinema, ha mai osato altrettanto, seguendo accortamente la saggezza o l'astuzia del proverbio che dice «scherza coi fanti e lascia stare i santi».
    Un'asprezza esteticamente troppo programmata aveva impedito, molti anni prima che Pasolini si accingesse al suo Vangelo, a un altro scrittore notevole, spavaldo e narciso ma di reale talento (Kaputt, La pelle...) come Curzio Malaparte, di dare un capolavoro con la moderna parafrasi del Vangelo in chiave di sacra rappresentazione contemporanea, sullo sfondo di una provincia toscana ancora divisa nel profondo dalla recentissima guerra civile. Nonostante la bella ieraticità delle immagini, la lineare semplicità del soggetto, l'esortazione alla pacificazione degli animi di un personaggio d'artigiano che fungeva da capro espiatorio, da agnello sacrificale, un linguaggio insomma molto diverso da quello abituale nel cinema di allora, Cristo proibito (195o), che cercava il suo stile nelle sacre rappresentazioni popolari e in quelle colte medievali e rinascimentali, non fu compreso e non fu amato né dalla critica né dal pubblico, avvezzi alle più essenziali denunce e alle più lacrimose divisioni in buoni e cattivi del neorealismo zavattiniano, cattolico-togliattiano. Alla sua unica prova di regista cinematografico, Malaparte, così spesso effettistico e così spesso insincero nella sua prosa, affrontò la dura vicenda del film con insolita serietà ed essenzialità, ma non ne fu compensato. Troveremo spesso film di questo tipo, più o meno riusciti, che hanno nascosto Gesù, o qualcosa di Gesù, nei panni di personaggi contemporanei e quotidianamente «banali», e ne parleremo più avanti.
    Di scarso rilievo, e assai superficiale, molti anni dopo Malaparte, fu La passione di Carlo Mazzacurati, zoio, dove un regista in crisi e scarsamente convinto si trovava a mettere in scena una sacra rappresentazione in un paese toscano di oggi. Sacre rappresentazioni «classiche» e famose almeno turisticamente, il cinema ne ha riprese «dal vero» molte, per esempio quella di Westminster filmata da Walter Rilla al tempo del muto, 193o, e nuovamente al tempo del sonoro, 1951, con il titolo Ecce Homo ovvero Behold the Man. E di film ambientati nel corso di una sacra rappresentazione pasquale della Passione ce ne sono alcuni molto interessanti, ben più delle registrazioni documentarie (le migliori tra queste sono state in Italiaquelle di un regista poeta antropologo come Vittorio De Seta: Pasqua in Sicilia, 1955).
    I più significativi, credo, sono i seguenti:
    Maddalena (Italia, 1953) di Augusto Genina. Il boss di un paesino del nostro Sud fa arrivare dalla città una prostituta per farle recitare la Maddalena nella processione rituale del venerdì santo. Quando i paesani lo scoprono, la povera Maddalena viene lapidata.
    Colui che deve morire (Francia-Grecia 1957) di Jules Dassin, dal romanzo Cristo di nuovo in croce del grande scrittore greco Nikos Kazantzakis. In un paese greco occupato dai turchi, il pastore che deve rappresentare Gesù nella sacra rappresentazione pasquale si identifica nel suo ruolo ma scontenta occupanti e occupati predicando una rivolta nonviolenta. Seguirà dunque il destino del suo modello.
    Gesù di Montreal (Canada 1989). Una rappresentazione teatrale di volontari e dilettanti voluta dal prete di una parrocchia non è quale egli la sognava perché i suoi attori investono in essa le loro angosce e insoddisfazioni. La rappresentazione sa troppo di verità e cambia la vita delle persone coinvolte ma scandalizza per questo clero e polizia. Il giovane regista che fa anche Gesù resta ferito ai piedi della croce e finisce per morire.
    Film imperfetti, tutti e tre, ma film di sfida, e dal fondo indubbiamente, convintamente cristiano.
    Un caso ai margini è quello di Cercasi Gesù (Italia 1982) diretto con convinzione da Luigi Comencini, che racconta di un giovane scelto per dei manifesti in cui deve impersonare Gesù, che diventa famoso e fa persino, senza rendersene conto, dei miracoli, un «idiota», un puro nel cinico mondo contemporaneo. Fa impressione oggi ricordare che fu sceneggiato con Comencini dall'Antonio Ricci del programma televisivo satirico «Striscia la notizia» e interpretato dal più demagogico dei nostri politici, ex o ancora comici, Beppe Grillo...
    Insomma, si tratta pur sempre di varianti della Leggenda del Santo Inquisitore di Dostoevskij, più dolci e ovviamente più accattivanti – un Gesù che prende i tratti di un uomo d'oggi, molto più radicale della media nelle sue persuasioni. Una variante della leggenda dostoevskiana o della secolare invocazione popolare, «se Gesù tornasse sulla terra»... Se ne salva appunto (ma non nel film di Comencini) la radicalità del messaggio e la sua eterna capacità di dar scandalo: il paradosso di una «inattualità» necessaria, indispensabile, che deve farsi ancora e ancora attuale.
    A un altro romanzo di Kazantzakis edito nel 196o, si rifece uno dei film più controversi e più ambiziosi di Martin Scorsese, regista di grande talento e «autore» assai personale nelle sue scelte e nel loro iter, anche se troppo affascinato dal cinema e dalla sua forza di suggestione, e dalla violenza delle storie che ha scelto di narrare, incapace ormai di nascondere il fascino che tale violenza esercita sul suo immaginario. L'ultima tentazione di Cristo (1988) riscrive il Vangelo a modo suo, interpreta la sua esistenza terrena a partire da suggestioni storiche autonome e bensì plausibili. Gesù vive nel dubbio sulla propria natura divina e terrena, convince Giuda al tradimento perché il suo destino si compia, ma nel martirio ascolta la voce di un angelo che gli dice di scegliere la vita comune, la vita di tutti, il piacere e il dolore di ciascun essere umano. Rinuncia alla croce, si sposa, ha una vita simile a quella di tutti, ma quando è vecchio e morente, ecco che Giuda e gli apostoli gli dicono che l'angelo cui ha dato ascolto altri non era che Satana, e finisce così di nuovo in croce, è di nuovo il Gesù che conosciamo dai Vangeli. La complessità e intensità del romanzo si fa in Scorsese più dichiarata, esibita, e il film convince a metà. Ha avuto molti detrattori e molti ammiratori, ma si direbbe che il segno lasciato sia debole; e se è vero che dei film ci si dimentica presto, anche dei capolavori, è pur vero che del Vangelo di Pasolini il ricordo è tuttora vivissimo, come dei film che non hanno trattato direttamente della vita di Gesù ma ne hanno recepito e confrontato il messaggio nelle difficoltà, ambiguità, dolori, tensioni e aspirazioni di personaggi comuni, che hanno cercato di mettere in pratica il suo insegnamento, o semplicemente di narrare le via crucis di creature vere e sofferenti.
    Il confronto dell'italo-americano con la figura di Gesù (di origine insomma cattolica, mentre non credo lo sia il suo amico e sceneggiatore Paul Schrader – vedi il celebre Taxi Driver, 1976, e vedi soprattutto, ai nostri fini, Al di là della vita, 1999, scritto da Schrader e diretto da Scorsese, «dostoevskiani» a oltranza) appare intellettualistico quanto e più di quello con l'opera di Dostoevskij, non odora di sincerità anche se offre ottimi pretesti alla fantasia di creatori di storie contemporanee che intendono scavare nel problema del male, nel mysterium iniquitatis... Abel Ferrara, altro italo-americano segnato dal cattolicesimo edal tema della fascinazione o repulsione del male, va ricordato per i suoi personaggi di cattivi in cerca di redenzione in un mondo estremamente cupo e disperato, un mondo dove Dio non si mostra ed è Satana a dominare, ma dove il rovello è pur sempre la sfida di Gesù: Il cattivo tenente (1992) e Fratelli (1996) sono film più sinceri e più sconvolgenti, più laceranti di quelli di Scorsese e di Schrader.
    Ci sono film, dicevo, in cui il modello Gesù è incarnato in personaggi apparentemente comuni e dentro storie comuni, e film in cui esso si presenta o nasconde attraverso personaggi esemplari di suoi «imitatori». Se c'è qualcuno che è difficile (o impossibile) imitare, lo sappiamo, è Gesù, e tuttavia quanti ci hanno provato! Ci è riuscito Francesco d'Assisi, e Roberto Rossellini ha saputo mostrarlo in uno dei film più candidamente religiosi che si conoscano, Francesco giullare di Dio (1950), venuto dopo la «trilogia della guerra» conclusa nella pura disperazione di Germania anno zero. Il miracolo con la Magnani (1948), la trilogia con la Bergman composta da Stromboli, Europa 51 e Viaggio in Italia (1950-53) sono intrisi di una religiosità creaturale che non nasconde la tragedia e che sa elevarsi sopra la tragedia, riscoprendo in Europa 51 la sfida più alta, il bisogno di confrontare le pene dell'umano con la richiesta di senso rivolta al divino, al trascendente. È soprattutto Europa 51, mediatrice la Weil, che cerca la pratica del «modello Gesù» nella quotidianità dell'amore del prossimo. Ed è commovente che si tratti infine, con Rossellini, di personaggi femminili e non solo maschili.
    Avrebbe potuto essere un capolavoro il film La croce di fuoco (1947) che John Ford volle trarre da Il potere e la gloria di Graham Greene (194o), un film che racconta di un prete peccatore e ubriacone con tanto di amante e di figlio che, nel corso della «guerra cristera» messicana, l'appendice più fanatica della rivoluzione, perseguitato e in fuga è costretto dalla situazione, dai fedeli, a fare il prete, a non dismettere la sua sacra funzione, a imitare Gesù malgré soi fino al martirio. L'ipocrisia hollywoodiana castrò il film della sua durezza e ne fece una comune «vita di santo» di scarsa efficacia. Più semplice, più nascosto ma più simpatico, allora, il messaggio di un banale film d'avventura ben fatto di Frank Borzage, L'isola del diavolo (194o) dove, tra i forzati in fuga da una colonia penale francese, è presente un peccatore che si rivela buono fino all'atto che lo perderà e che li salverà. Ma, ripeto, non sono pochi i film su personaggi che, come questi, scopriamo nei momenti della difficoltà e della pena trasformarsi in consapevoli o inconsapevoli «imitatori» che, semplicemente, fanno quello che è giusto (e bello) fare per gli altri, costi quel che costi. Il cinema e la letteratura erano pieni di storie di questo genere – oggi molto meno –, di messaggi indiretti e bensì incisivi, di esempi edificanti nel miglior senso del termine, che ricordavano al lettore e allo spettatore i suoi doveri di essere umano, i suoi doveri «cristiani».
    Se consideriamo come un caso a parte quello di Ingmar Bergman con la sua trilogia sul silenzio di Dio (Come in uno specchio, Luci d'inverno, Il silenzio, 1961-1963), tanto moderna e attuale quanto angosciosamente senza sbocco, priva.di fiducia nella grazia e in Gesù come suo portatore, sono quattro in definitiva i grandi registi in cui la storia del cinema ha verificato la possibilità di esprimere con un linguaggio autonomo il trascendente, di affrontare il presente e il concreto della sofferenza ma anche la possibilità di una diversità attiva e generosa, non superba. Di parlare del massimo a un pubblico vastissimo, di guardare infine in alto e non soltanto in basso o «ad altezza d'uomo». Di affrontare il mistero. Parlo di autori variamente e autonomamente saggi, credenti o non credenti, di formazione cattolica o protestante, ma ciò nonostante legati al modello evangelico.
    Il più limpido è Carl Theodor Dreyer, che già in uno dei primi film, Pagine del libro di Satana (1921), in quattro episodi in cui Satana assumeva le fattezze dei tentatori di Giuda e poi di inquisitori, giacobini e bolscevichi, affrontò la contrapposizione tra amore e intolleranza, tra fede e ipocrisia, tra mitezza e violenza. L'autore del Processo di Giovanna d'Arco e di Dies Irae, ha dato con Ordet (La parola, 1955) un film formalmente conchiuso, teatrale e sbalorditivamente aperto, oltre ogni paesaggio terrestre: non il solito romanzo o film sul miracolo che forse c'è e forse non c'è (un «sotto-genere» letterario e cinematografico anche questo), ma il miracolo – e addirittura la resurrezione di una morta – che può operare chi ha fede. Ma chi ha fede, il solo, è il pazzo della famiglia, è il puro folle. L'unico che davvero ama e davvero crede è l'unico che ha la facoltà di operare il miracolo, l'unico che sa sfidare la pesantezza della condizione umana in nome di un oltre e di un più, di un Vero non costretto nei vincoli della ragione.
    Luis Buiíuel, di cui è rimasta famosa la boutade «sempre ateo grazie a Dio», più seria di quel che non sembri, ha mostrato, piuttosto che i beni portati dall'imitazione di Gesù, i mali che essa può provocare, in particolare in Nazarin (1958) e in Viridiana (1961), ma anche altrove. È l'accettazione dei limiti che egli propone, ma cogliendone in Nazarin l'elemento fondamentalmente cristiano che li oltrepassa: la carità, la semplice, immediata carità degli umili e non quella filosofata e conclamata dei colti... l'accettazione dei limiti, infine, ma in una pratica di silenziosa e immediata carità, o agape, o amore. Quel che conta soprattutto è, alla fine, ha scritto don Milani con i suoi scolari, l'amore del prossimo. In La via lattea, infine (1969), egli ha ragionato sulla storia del cristianesimo e sulle sue storture (l'irrigidimento in chiese, l'intolleranza che contraddice l'essenza stessa della predicazione di Gesù), sull'originaria condanna e soggezione ai limiti della condizione umana, sulla difficoltà di vedere e di capire, se non «come in uno specchio, oscuramente», il mistero in tutta la sua insostenibilità, e tuttavia il continuare ad andare, a cercare, ad azzardare, a sfidare...
    Il russo Andrej Tarkovskij ci disse con Andrej Rublëv (1966) quale dovrebbe essere la funzione dell'arte, in ogni epoca storica – dire l'indicibile, cercare un senso al dolore dell'uomo, alla sua stessa esistenza. Ed è in questo film-rivelazione che la presenza del Cristo, la riflessione su Gesù e sul Cristo, sull'uomo e su Dio, è più evidente e più forte grazie alla pittura di Rublèv e al racconto della sua vita e della sua ricerca. Con Solaris (1972), Lo specchio (1974) e Stalker (1979) egli ha affrontato con il giusto tremore l'esplorazione del mistero – della vita, dell'umano e del divino, memore di Tolstoj e di Dostoevskij e alla loro altezza. Sacrificio (1985) è il suo cosciente film-testamento, ed è forse il più cristiano dei suoi film, il più disperato e insieme il più ansioso di speranza, e grande è il rimpianto che, per le solite contingenze storiche, e cioè politiche ed economiche, non gli sia riuscito di dar corpo a due immensi progetti, L'idiota (era riuscito a farlo, ed è un capolavoro, il più «cristiano» dei registi di religione non cristiana, Akira Kurosawa) e... il Vangelo di Luca.
    Robert Bresson, infine, che della possibilità della Grazia («il vento soffia dove vuole» ha scritto nei titoli del Condannato a morte è fuggito) e della lucidità della Disperazione (il mondo è del male, e II diavolo, probabilmente è il titolo della più cupa delle sue constatazioni sulla vittoria del male nel mondo) ha fatto la sua bandiera in film così duri nel mostrare la vittoria del male da renderne la visione quasi insostenibile. Egli ha osato, nel più bello di tutti, parlare del calvario mostrando il calvario di un asino, un animale. In Au hasard, Balthazar troviamo la più coraggiosa e dolorosa delle constatazioni, ma anche, forse, la più religiosa delle possibili parafrasi dell'esempio Gesù, il più radicale Gesù dello schermo.
    Sono pochi i film (i registi) nei quali, cercando di narrare Gesù o cercando di avvicinarsi al suo messaggio, si avverta un coinvolgimento, una interrogazione così assidua da poter essere paragonata a quella dei grandi teologi e dei grandi credenti. Uomo e Dio insieme? non è facile convincersene. Dopo secoli di storia che ci dicono il contrario, sa ancora di sfida pensare che Gesù sia l'ancora di salvezza, la chiave del mistero, l'apertura al nuovo, al concreto possibile di un'utopia indispensabile, la possibilità di armonizzare la vita del singolo a quella della natura, del cosmo... Nei grandi artisti del passato, questo sembrava più facile, sembrava anzi indiscutibile. Nella modernità, si oscilla tra l'accettazione di una rivelazione data una volta per tutte, una fede assoluta, un abbandono totale che sfocia facilmente nel fanatismo, nell'affidarsi a una chiesa e ai suoi diktat, e l'ansia portata dal dubbio, in una oscillazione o un rovello che non hanno mai fine. Il rifiuto istintivo della salvezza, la cui ricerca è soffocata da distrazioni concertate dai poteri, in una quotidianità chiassosa che rifiuta di interrogare, che non sa più interrogare. Eppure, anche i robot, nella letteratura di fantascienza, finiscono per inquietarsi, per chiedersi di dove vengono e dove vanno, cosa c'è sopra e oltre.
    In cinema sono stati Butiuel e Bresson, estranei al misticismo tarkovskiano e alle certezze dreyeriane, i portatori più strenui di una sorta di teologia negativa, che più che di Gesù o di Dio ha parlato dell'uomo, di noi. Nel primo la sfida cristiana si placa nell'accettazione di un primato dell'umano che interroga e si interroga, un perenne ritorno su terra che ragiona sull'umana limitatezza: il desiderio, le passioni con cui è necessario fare i conti. Il mistero ci ricopre in un cammino terrestre che il divino, silente, non illumina, mentre le nostre mediocri e ossessive pulsioni premono e distruggono, in una opacità senza fine. Non c'è soluzione, non c'è illuminazione. Se il messaggio evangelico resta vivo, talvolta, di rado, è solo negli ultimi e negli umili.
    In Bresson la conclusione è amarissima: nel suo ultimo film L'argent, il regista ha espunto dal racconto tolstojano che il film segue passo passo tutta la seconda parte, l'esatta metà del racconto, sicché vediamo tutte le nefaste conseguenze che l'attrazione del denaro ha sugli individui, di persona in persona, di ambiente in ambiente, di caso in caso, ma non vediamo come, dal sacrificio (la vecchia che si lascia uccidere, che perdona il ladro che la uccide) nasce un catena contraria, nascono i risarcimenti del bene. La catena del male può essere interrotta da una singola azione giusta, dice Tolstoj, ma Bresson lo nega drasticamente, lo rifiuta. Non c'è speranza né riscatto per l'uomo, non c'è salvezza. Il regista del Diario di un parroco di campagna, il cui protagonista bernanosiano concludeva in punto di morte, nonostante la constatazione della prevalenza del male, che «tutto è grazia», non vede più grazia in nessuna storia, in nessuna società, in nessun uomo.
    Gesù ha fallito. Il diavolo, probabilmente...
    È allora nel protestante Dreyer che cercheremo l'appiglio giusto per andare avanti, e nel più laico dei suoi film, quello in cui Gertrud, la protagonista che gli dà il titolo, dopo aver esperito tutte le possibili delusioni dagli uomini e dalla vita, dice a un amico di aver scritto una poesia e gliela recita (la cito a memoria): «Sei forse giovane? No, ma ho amato. Sei forse bella? No, ma ho amato. Sei forse felice? No, ma ho amato», e chiede che sulla sua tomba, quando la morte verrà, egli faccia incidere le parole «Amor Omnia». Non è secondario che Dreyer abbia a lungo preparato un film su Gesù, che non ha potuto realizzare (la sceneggiatura venne pubblicata in Italia da Einaudi): Gesù uomo e artefice di miracoli, Gesù figlio dell'uomo e figlio di Dio. Il cinema non è riuscito a darci il Gesù di cui, forse, avevamo più bisogno.

    (da: Isabella Adinolfie Giuseppe Goisis, I volti moderni di Gesù, Quodlibet 2013, pp.475-489)


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