Si fece uomo

Meditazione sul Natale

Carlo Molari


Introduzione

Ogni uomo che nasce ha la sua gente, raccoglie una storia, porta una tradizione.
Ad ogni uomo che nasce è affidato un mistero: la vita in lui cerca nuove modalità di espressione, anela ad esperienze mai ancora narrate. Ma il destino che ogni uomo porta con sé non può ancora essere enunciato finché non si compie, legato come è a circostanze mutevoli, a scelte contingenti, a precarie decisioni.
Solo la morte permette di dare un nome definitivo ad un uomo. Quando egli nasce il suo nome è quello della sua gente, è l'augurio dei suoi antenati; è proclamazione di speranze; enucleazione delle promesse di intere generazioni.

Lo chiamerai 'Gesù' (Mt 1,21)

Era un nome comune allora; significava: Dio è salvezza. E la promessa che in lui fu annunciata un giorno si compì. Oggi possiamo celebrare con gioia la sua nascita perché la speranza, che egli portava fin dall'inizio, si è realizzata per noi. L'augurio che è nel suo nome, da allora è a disposizione degli uomini, può essere formulato per tutti. Ne celebriamo l'inizio non perché sia già la realizzazione, ma perché ne conosciamo lo sviluppo fino alla fine e ciò che da allora ne è seguito. Solo la morte e tutto ciò che essa ha compiuto ci consentono di celebrare la nascita di Cristo come sagra di rinnovate speranze, in profluvie di gioiosi voti augurati. Per capire il natale di Gesù, il mistero del suo nome, occorre perciò partire dalla sua morte e dalle ragioni che essa esprime.
Gesù visse per annunciare il regno di Dio: un nuovo modo di esistere, la possibilità di incontrare gli altri come fratelli, di perdonarsi vicendevolmente i peccati, di distribuirsi il pane. E tutto ciò per la fiducia in Dio e nel suo amore misericordioso. Gesù visse questa fede e manifestò questo amore fino a morirne. Si lasciò così coinvolgere dall'avventura del regno di Dio, che il rifiuto dei responsabili del popolo, il tradimento di alcuni seguaci, l'abbandono delle folle, l'angoscia del fallimento non lo distolse dalla via d'amore che aveva scelto, e "diede l'anima" senza riserve. Per questo ne celebriamo il Natale.
Fu appunto la fedeltà all'annuncio del regno di Dio, senza reticenze e compromessi, che condusse Gesù alla morte. Decisero di ucciderlo, ma di fatto egli offriva la vita (cf Gv 10,18) perché continuò ad amare anche quando l'odio, l'indifferenza o il disprezzo ne decretava la fine. Lo crocifissero credendo di eliminarlo, ma proprio così lo inserirono definitivamente nella storia, sancirono il suo nome, resero significativa la sua esistenza, ratificarono la celebrazione della sua nascita. Allora infatti il progetto annunciato nel suo nome apparve realizzato e la promessa della sua vita compiuta. Nella sua storia Egli ha percorso tutto il faticoso cammino della maturazione umana e Dio "per questo, lo ha esaltato e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro Nome" (Fil 2,9). Egli, infatti "imparò l'obbedienza da ciò che soffrì, e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono" (Eb 5,9).
La nascita è appunto l'avvio di un processo che avrà il suo compimento quando, come si esprime Pietro, "Dio farà Messia e Signore quel Gesù" che gli uomini avevano crocefisso (cf At 2,36) o quando, per usare la 11)11] I ula di Paolo, "Dio costituirà Gesù Figlio suo in pienezza risuscitandolo dai morti" (cf Rom 1,4). Il Natale è appunto la celebrazione di questo inizio.
Tra l'avvio e la conclusione sta la lunga fedeltà di Gesù alla volontà del Padre, alle leggi cioè dell'esistenza umana, scoperte nell'assidua preghiera e nell'abbandono fiducioso della contemplazione. La promessa in lui appare mantenuta. Le tensioni cioè di ogni uomo; le sue speranze appaiono in Gesù plausibili e sensate. Non sono semplici illusioni, o vaneggiamenti di sconfitti; anche se non verranno realizzate come si presentano, le speranze degli uomini portano il segno di una promessa.
La fedeltà di Gesù diventa perciò l'espressione della fedeltà di Dio. La glorificazione di Gesù ne diventa il momento più chiaro perché la speranza è realizzata senza residui: l'augurio della nascita si è compiuto al di là delle attese; un figlio ci è stato dato come realizzazione definitiva del progetto che Dio ha dell'uomo. Possiamo perciò celebrare con gioia il Natale del Figlio perché ciò che un giorno Egli diventerà oggi ha la
forma completa di un infante che porta il nome augurale della salvezza. Possiamo già cantare la gloria di Dio perché la sua fedeltà, ormai dichiarata nel compimento delle profezie, sarà definitiva nella costituzione del Figlio, quando lo farà risorgere come primo di numerosi fratelli. Allora nacque l'uomo e da quel momento la fedeltà di Dio ha orizzonti universali, riguarda le promesse di tutti i nomi che gli uomini portano, le speranze che ogni infante suscita nascendo. La fedeltà di Dio riguarda tutti noi che siamo chiamati alla vita e non sappiamo ancora che cosa essa comporti.
Celebrare il Natale di Cristo è rinnovare, perciò, la fiducia nella vita; è gridare che non è vano nascere se l'amore di Dio ci sostiene fino al compimento delle promesse.

Una festa nata tardi

Per trecento anni e più i cristiani non hanno celebrato il Natale di Cristo; non esisteva cioè una festività-liturgica che ricordasse la nascita di Gesù. Ed anche la data scelta, il 25 dicembre, è arbitraria, non corrisponde al giorno effettivo della nascita di Cristo. Collegata forse alle festività del sole, tradizionali per la ricorrenza del solstizio invernale, e resa plausibile da richiami ai testi profetici che parlavano del Messia, come Sole di giustizia e luce per i popoli vaganti nelle tenebre, la data del Natale non ha riferimenti storici a Gesù di Nazaret. Di fatto non conosciamo il giorno della nascita di Cristo né la stagione in cui avvenne. Ed anche la determinazione dell'anno è oggi possibile solo con una certa approssimazione.
Il fatto stesso che quando si cominciò a datare gli eventi della storia umana a partire dalla nascita di Cristo (il che avvenne verso la fine del secolo quinto) si sia incorsi in un errore di qualche anno, è significativo. La nascita di un povero non lascia segni e la memoria degli uomini non registra dati e circostanze se non per le persone importanti, per i figli dei potenti, per coloro che presumibilmente vivranno eventi da narrare ai posteri. Gesù non apparteneva a costoro. Lo diventò nella morte. E da allora si cominciò a narrare della sua esistenza come momento decisivo della storia umana perché realizzazione di una promessa antica, annuncio di una salvezza per l'uomo, da più parti e da tempo attesa.
Il nucleo iniziale dell'annuncio evangelico, perciò, riguardava la morte e glorificazione di Gesù; questi eventi erano presentati come ragione della salvezza, oggetto della fede che introduce alla vita. L'Apostolo Paolo così riassume l'atteggiamento richiesto a chi diventava seguace di Cristo: "Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore e crederai nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo" (Rom 10,9). Le prime espressioni della predicazione apostolica, come viene riportata dagli Atti, non contengono alcun riferimento alla infanzia di Gesù e pochissimi alla sua vita pubblica. Sono tutti centrati sugli ultimi avvenimenti della sua esistenza e sulla sua glorificazione. Solo dopo che Gesù è stato costituito "Messia e Signore" (At 2,36) e riconosciuto come "causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono" (Eb 5,9), si sono interpretate le parole ed i gesti precedenti di Gesù come manifestazione dell'amore di Dio, come espressioni della sua azione salvifica.
Si cominciarono perciò a raccontare le azioni di Gesù e a ripetere le parole sue più significative. Così dalla morte e dalle esperienze seguitene si è passati a narrare della sua predicazione, delle guarigioni operate, della preghiera al Padre, delle tentazioni subite, del Battesimo ricevuto da Giovanni, che costituisce per Marco, presumibilmente il primo redattore di un Vangelo pervenutoci, l'inizio del racconto. Attorno al nucleo dell'annuncio iniziale venne crescendo così, poco a poco, il materiale relativo all'esistenza terrena di Gesù come legittima curiosità, come ricerca del significato profondo della sua vita, come amorosa intelligenza della sua azione messianica.
Quando dati certi degli eventi storici di Cristo facevano difetto (come ad es. sull'esperienza vissuta da Gesù nel deserto, o per la prima fase della sua vita) i cristiani compilavano meditazioni in forma di racconti, stilati in filigrana, su avvenimenti del passato, anticipatori dell'azione salvifica di Dio.
In ogni caso questi racconti, come quelli storici, introducevano alla comprensione della storia di Gesù, ne esprimevano il significato, ne indicavano il valore salvifico. Anche nella liturgia, riascoltando i profeti o le narrazioni di eventi antichi, i cristiani celebravano l'opera misericordiosa di Dio e la forza della sua Parola, che, in Gesù, aveva realizzato le promesse ed attuato la definitiva liberazione dell'uomo. Il centro perciò dell'azione liturgica restò sempre la memoria delle meraviglie di Dio, che, come aveva liberato il popolo dall'Egitto conducendolo lungo le strade del deserto alla patria della libertà, così aveva risuscitato Gesù, indicando il cammino di ogni uomo, che in lui è chiamato a divenire figlio di Dio.
Per questo è insignificante celebrare il Natale al di fuori dell'esperienza salvifica, cioè di un'accoglienza effettiva dell'azione con cui Dio conduce l'uomo alla sua pienezza. Se non si è scoperto nella propria esistenza che realmente Gesù salva; che riferendosi a Lui è possibile raggiungere una pienezza di vita nuova, che è possibile amare anche immersi nell'odio, che è possibile essere oblativi anche in ambienti di egoismo, che nel suo nome si possono raggiungere traguardi di comunione insospettati; se, cioè, non si può proclamare la propria fede in Gesù come Salvatore, non si ha ragione di celebrare il Suo Natale, di gridare la gioia dell'evento nuovo.
Sarebbe un'impostura festeggiare la nascita di Cristo e pensare che non vi sia salvezza per l'uomo, o che essa consista nelle ricchezze accumulate, nei soprusi della violenza, nelle acquisizioni della tecnica o nelle conquiste della scienza. Non vi è nulla e nessuna persona che possa rispondere in modo adeguato alla tensione vitale dell'uomo. Se è dato all'uomo raggiungere una pienezza, è solo perché la vita da sempre esiste e gli si offre ora nella sua storia. Gesù questo ha creduto e nella sua esistenza, questo ha mostrato. Credere in Lui significa affidarsi a Dio che gli si è rivelato come ragione e fondamento dell'esistenza umana e che, dopo una lunga storia di promesse e prefigurazioni, ha presentato in Lui il modello concreto di uomo.

Nacque tra i poveri

Proprio perché inserita in una storia di fedeltà, di promesse e di compimenti, la nascita di Cristo è anche indicazione di uno stile di Dio, che è legge di vita e criterio di storia. Gesù è nato tra i poveri e la sua è stata un'esistenza di povero. Non è una semplice coincidenza. Colui che è diventato Messia, che è stato costituito "causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono" (Eb 5,36), è nato e cresciuto in un popolo oppresso, ha conosciuto la condizione amara dell'esilio, dell'emarginazione e del lavoro precario. La nascita avvenne lontano dal paese, in condizioni provocate da un rifiuto, facile nei confronti dei poveri, lungo il cammino intrapreso dai suoi per obbedire ad un decreto di dominatori stranieri. Già la sua nascita porta lo stigma di un'esistenza grama.
Ci sono modalità diverse di vivere la povertà. C'è la rabbia di chi impreca alla propria condizione. C'è chi la subisce senza reagire in rassegnata passività. C'è chi va oltre e trova nella condizione di povertà, scelta o subita, ma sempre liberamente vissuta, una carica inventiva di vitalità, una forza creativa che il possesso delle ricchezze non sa offrire.
Gesù è cresciuto valorizzando la carica vitale che viene ai poveri dalla loro condizione vissuta in libertà. Egli, per questo, a chi amava e riteneva capace di farlo, ha chiesto di abbandonare ogni sorta di beni. E a tutti ha ricordato la necessità di non poggiare la vita sulle cose perché anche in mezzo a molte ricchezze, l'uomo non vive in virtù di ciò che ha accumulato e quindi non vale secondo la misura dei suoi possedimenti.
Spesso si celebrano i poveri perché sono diventati ricchi e potenti. Noi celebriamo il Natale di un povero, non perché abbia cessato di esserlo, dato che morì più povero di quanto fosse nato, ma perché nella povertà ha trovato e vissuto quell'atteggiamento indispensabile per chi voglia accumulare quella "vera ricchezza o la ricchezza in Dio", come egli la chiamava, (cf Le 12,21; Mt 6,19-21), che è la vita posseduta in pienezza. Celebrare il Natale di Gesù ostentando ricchezze e mostrando la felicità illusoria che viene dal possesso dei beni, sarebbe perciò una contraddizione. Ancora peggiore sarebbe l'illusione di distribuire gioia con pacchi-dono od opere di misericordia, se non fossero espressione di amicizia vera, decisione di povertà, segno autentico di una conversione alle leggi della vita.
La difficoltà nostra a celebrare oggi il Natale di un povero deriva anche dal fatto che, a parte le decisioni personali, apparteniamo a un popolo che si trova in condizione di benessere ingiusto, in possesso di ricchezze usurpate. La nostra situazione non è quella del popolo che espresse Gesù, ma al contrario è quella del popolo che lo opprimeva e che attraverso i suoi rappresentanti decise la sua morte.
Certo, la nostra condizione di oppressori non ha le medesime caratteristiche di un tempo. Non abbiamo eserciti invasori, né imponiamo gabelle palesi ad altri popoli. I meccanismi sono molto più subdoli ma non meno efficaci. Per il nostro 'benessere' o le esigenze del nostro consumismo, importiamo materie prime ed utilizziamo il lavoro di altri popoli corrispondendo loro un prezzo che è molto minore di quanto noi esigiamo per le nostre prestazioni o per i beni che ci appartengono. La sola ragione che sappiamo portare frequentemente per giustificare questo squilibrio di compensi è il dato di fatto che abbiamo trovato, e al quale, da parte nostra, ci stiamo adeguando. In realtà è il diritto dei più forti o dei più 'privilegiati' dalla storia.
Per rassicurare la nostra coscienza o per garantirei dai possibili richiami del vangelo ci appelliamo all'anonimo ingranaggio del commercio mondiale o alle leggi dell'economia. Quando poi non ci rifugiamo in una pretesa benevolenza di Dio che ci avrebbe mostrato la sua misericordia fornendoci di mezzi superiori o di capacità straordinarie. Questi ipocriti sotterfugi non possono reggere a lungo di fronte alle reali leggi della storia. La stoltezza di "coloro che accumulano ricchezze solo per se stessi e non si preoccupano di arricchire davanti a Dio" (cf Lc 12,20-21) in breve tempo conduce a rovina. Le divisioni, gli odi, le violenze delle nostre città sono i segni chiari di una ingiustizia profonda che mina alle basi la convivenza sociale e che rende sterile ogni impegno di vita.
Celebrare il Natale di un povero con spese insulse per 'beni' inutili e a volte dannosi, per vacanze che non ristorano, con sprechi di alimenti, di energie e di materie prime, mentre milioni di uomini muoiono di fame o languiscono nell'inedia per l'insufficienza di mezzi a disposizione, solo perché nati in un parallelo diverso dal nostro e stritolati da ingranaggi industriali e commerciali imposti loro da chi può trame profitto, è blasfemo.
La nascita di un povero in un popolo oppresso può essere ricordata con gioia solo da chi sa compiere scelte di solidarietà con i più poveri spogliandosi dei propri beni. Solo in questo modo Gesù viene celebrato come il Salvatore, come colui che guida gli uomini a nuove forme di convivenza umana, di libertà dall'oppressione, di pace nella giustizia.

Non datevi pensiero: il Padre vi ama

La povertà di Gesù e del suo popolo non era costituita solo dalla mancanza di beni. Fondamentalmente essa era fiducia riposta in Dio come in un Padre. La tradizione ebraica dei 'poveri di YHWH' aveva da tempo alimentato questi atteggiamenti nei riguardi di Dio, come sostegno degli emarginati e vindice degli oppressi. Tale fede si traduceva in gesti di libertà coraggiosa nei confronti degli oppressori e dei ricchi violenti, ma insieme in scelte di gioiosa condivisione dei pochi beni a disposizione.
Gesù è cresciuto in ambienti che avevano fatto di questa spiritualità la regola delle proprie scelte, il clima dell'esistenza. Il Cantico che Luca pone sulle labbra di Maria, la madre di Gesù, qualche tempo dopo il concepimento del Figlio, traduce in modo esemplare l'atteggiamento di fiducia riconoscente che caratterizza i poveri di Dio:

"Voglio lodare il Signore per le sue grandi opere.
Dio è il mio Salvatore; io sono piena di gioia.
Egli ha guardato a me, alla sua povera serva:
d'ora in poi tutti mi diranno beata.
Dio che può tutto, ha fatto in me cose grandi:
santo è il suo nome.
Egli sarà misericordioso per sempre
con tutti quelli che lo servono.
Ha messo in opera tutta la sua potenza:
ha mandato in rovina i progetti dei superbi,
ha rovesciato i potenti dai loro troni,
gli umili invece li ha molto innalzati.
Ha colmato di beni gli affamati, i ricchi invece,
li ha mandati via a mani vuote.
Egli è fedele alle promesse fatte ai nostri padri;
è venuto in aiuto a Israele, suo servo.
Non può dimenticarsi di essere misericordioso
verso Abramo e i suoi discendenti per sempre" (Lc 1,46-55).

Anche se la composizione riflette già l'esperienza successiva della preghiera cristiana o riprende temi abituali alla preghiera ebraica, Luca ha certamente riflesso in questo inno i tratti fondamentali della interiorità di Maria e della sua preghiera. Più volte, dopo la morte di Gesù, Maria si è trovata a pregare con gli Apostoli ed i primi loro seguaci. La sua sensibilità ed il suo modo di rivolgersi a Dio nella preghiera era noto ai primi cristiani. Luca l'ha riassunto in questo cantico tipico dei 'poveri di Dio'.
Gesù nella casa di Nazaret è cresciuto a questa scuola di preghiera. Egli ha assorbito dal suo ambiente religioso i modelli che utilizzerà e perfezionerà nelle lunghe notti della sua orazione. Egli porta a compimento così la storia intera di un popolo povero, oppresso ma fiducioso nell'azione liberatrice di Dio.
Aver fiducia in Dio e pregarlo non significa attendere che egli sovverta l'ordine delle cose. L'azione di Dio diventa umana attraverso le decisioni degli uomini, la Parola si fa evento storico quando viene accolta e fatta propria dagli uomini. La preghiera è appunto il momento dell'ascolto, della sintonizzazione con le forze della vita. Pregando l'uomo diventa accoglienza di energia vitale e perciò mette in moto tutte le capacità di conoscenza e di azione che la tradizione del suo popolo gli ha affidato.
Gesù fu uomo di preghiera abituale. Luca indica nella preghiera uno dei tratti caratteristici delle sue dense giornate: "si ritirava in luoghi solitari a pregare" (Le 5,6). Fu mentre pregava, dopo essere stato battezzato (Le 3,21), che Gesù avvertì chiara la chiamata a diventare Messia o ad annunciare il Regno: "Tu sei il mio Figlio prediletto, io ti ho scelto" (Le 3,21). La medesima esperienza si rinnovò sul monte della trasfigurazione (Mc 9,7) e fu dopo aver pregato (Le 9,18) che Gesù pose agli apostoli la domanda sulla sua identità, quasi a conferma di quella che egli andava maturando nella fedeltà quotidiana alla Parola ascoltata. Le scelte che egli compiva dopo lunga preghiera (come quando decise la composizione del gruppo degli apostoli Le 6,12), non corrispondevano sempre alle valutazioni degli uomini, anche di coloro che gli erano vicini per sangue (i suoi uscirono per andarlo a prendere perché dicevano: è fuori di sé Mc 3,21) o per elezione ("disse a Pietro: lungi da me satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini" Mc 16,23). Le difficoltà che Gesù incontrava riguardavano appunto il tipo di messianismo che egli andava scegliendo, il carattere della 'filiazione divina' che costituiva il sigillo della sua quotidiana preghiera, l'espressione del rapporto che egli aveva stabilito con il suo Dio che chiamava 'papà, Abba'.
Celebriamo il Natale di Gesù di Nazaret perché fu uomo di assidua preghiera, visse ed alimentò attorno a sé una radicale fiducia in Dio così da essere costituito nella sua natura umana Figlio di Dio in pienezza per opera dello Spirito nella risurrezione (Rom 1,4). Celebrare il Natale perciò è ricordare anche la fede del suo popolo, la lunga tradizione religiosa della sua gente, da cui "secondo la promessa, Dio trasse per Israele un salvatore, Gesù" (At 13,23).

Nato da donna (cf Gal 4,5)

Gesù è stato costituito Messia e Signore nella glorificazione. Il divenire perciò Figlio di Dio nella natura umana (cfr. Rom 1,4) ha impegnato tutta l'esistenza di Gesù fino alla morte. Allora nacque definitivamente dallo Spirito, ricevette da Dio lo Spirito (At 2,33), divenne Spirito che dà vita (1 Cor 15,45) e donò lo Spirito (cf Gv 7,39; 18,30; 20,32). Se egli é diventato Messia è stato perché è cresciuto in un ambiente di speranze lungamente maturate, se è diventato Signore o Spirito che da vita è perché si è alimentato di una fede accogliente, se è diventato Figlio di Dio in pienezza per opera dello Spirito è stato perché un amore oblativo e senza riserve lo ha avvolto fin dalla nascita.
Certo, queste sono le ragioni storiche, espressioni umane dell'amore di Dio, del suo Spirito della sua Parola creatrice. Dio solo è il principio e la ragione della salvezza che ci perviene in Cristo, ma l'azione di Dio non è efficace nella storia se non quando diventa umana, quando si traduce, cioè, in gesti e parole di uomini. La crescita del Figlio fu accompagnata dall'amore materno di Maria dall'inizio alla fine. Come ogni Madre, Maria non solo ha fatto nascere Gesù, ma l'ha fatto crescere (cf Lc 2,40), gli ha comunicato vita circondandolo di premure e di affetto. Un infante che non è amato non diventa persona, non può crescere, non raggiunge forme di autonomia vitale e di libertà. Gesù è diventato uomo di assoluta libertà, capace di donazione integrale e di amore senza riserve; ciò suppone necessariamente un ambiente di offerte gratuite e di amore oblativo.
Anche quando Maria non capiva il mistero di suo figlio, o anche quando sorsero incomprensioni tra lei e Gesù, Maria dovette essere per lui presenza amorosa e stimolo di crescita. Lo fu certamente nell'episodio della prima visita al tempio di Gerusalemme (Le 2,4152), nel lungo periodo della coabitazione a Nazaret, nelle nozze di Cana (Gv 2,1-12), agli inizi della vita pubblica di Gesù (cf Mc 3,20-21, 30 ss.). Ai piedi della croce la funzione materna di Maria viene allargata proprio perché riconosciuta e solennemente sancita: "Ecco tuo figlio... ecco tua madre" (Gv 19,26-27).
A differenza di molte madri, Maria ha accompagnato il figlio dalla concezione alla morte. La sua presenza lo ha segnato nel suo divenire personale. Fino alla fine Gesù come Messia è nato da Maria e dallo Spirito di Dio che lo ha costituito Signore. Se Gesù è diventato uomo di preghiera e di contemplazione, se è diventato uomo di dedizione radicale e attenta sensibilità, se è stato capace di resistere alle subdole tentazioni del potere, di abbandonarsi interamente a Dio è stato anche perché ha avuto come Madre Maria. Celebrare perciò il natale di Cristo è ricordare la funzione della donna che l'ha fatto crescere come figlio fino alla pienezza, raggiunta nella glorificazione. Egli è rimasto sempre il figlio di Maria, nato da donna e risuscitato per opera dello Spirito.
Riconoscere perciò in Gesù il Messia significa credere che in Lui Dio ha reso visibile la sua Parola eterna, ma nello stesso tempo significa ammettere che attraverso persone umane Dio ha fatto pervenire a Gesù la forza del suo Spirito fino alla pienezza della risurrezione. Maria, di fatto, nella vita di Gesù è stata la persona che ha esercitato in modo esemplare questa funzione. Ella ha riassunto la tradizione del suo popolo e ha reso possibile che da esso Dio suscitasse un redentore (cf At 13,23). Nella fede senza riserve, con la fiduciosa attesa nell'azione di Dio e avvolgendo il figlio di un generoso amore oblativo, Maria ha generato il Messia, il Figlio di Dio, lo ha condotto cioè fino a quella pienezza di vita per cui "Dio gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome". Celebriamo con la nascita di un Messia, la dedizione di una Madre.

La Parola di Dio si fece uomo (Gv 1,14)

Già dall'inizio della vita ecclesiale sono stati utilizzati schemi diversi per esprimere la fede in Cristo, per interpretare cioè l'evento della salvezza realizzatosi per mezzo di Gesù. Si utilizzò ad es. lo schema della spiritualizzazione di Gesù: divenuto Spirito nella risurrezione ( 1Cor 15,45) egli è stato in grado di donare la vita a chi crede in lui ed accoglie la sua Parola (cf Gv 6,40); oppure egli è divenuto capace di inviare lo Spirito di vita da parte del Padre ("se non me ne vado non verrà a voi lo Spirito" (Gv 16,7) "A quel tempo lo Spirito non era ancora stato dato perché Gesù non era ancora stato innalzato alla gloria" (Gv 7,39).
Fu utilizzato lo schema sacerdotale per cui si presentò Gesù glorificato come Sommo sacerdote, mediatore di una nuova alleanza: "Dio lo ha proclamato sommo sacerdote" (Eb 5,10). Egli svolge la sua funzione nel santuario vero costruito dal Signore non nella tenda dell'alleanza costruita dagli uomini" (Eb 8,2), perciò "ha ottenuto un ministero tanto più eccellente, quanto migliore è l'alleanza di cui è mediatore, essendo questa fondata su migliori promesse (Eb 8,6).
Fu utilizzato lo schema sacrificale per cui, in riferimento all'uso dei sacrifici diversi offerti nella tradizione ebraica, si interpretò la vita e soprattutto la morte di Gesù come un sacrificio di alleanza (cf Mc 14,24) o di espiazione (cf l Gv 2,2; 4,10), o di olocausto (Ef 5,2).
Fu utilizzato lo schema redentivo per cui Gesù fu considerato colui che ha riscattato l'uomo dalla schiavitù del peccato pagando un caro prezzo (cf Mc 10,45; 1Cor 6,20; 7,23; l Pt 1,18; 1Tm 2,5-6; Tit 2,14).
Ma questi diversi schemi riguardano prevalentemente la morte o la risurrezione di Cristo e solo per anticipazione gli avvenimenti dell'esistenza storica di Gesù.
Lo schema interpretativo, invece, che consente di valorizzare maggiormente l'inizio e quindi di celebrare direttamente il Natale di Gesù come evento salvifico è quello dell'Incarnazione. Lo schema dell'incarnazione si richiama ad una tradizione dei libri profetici e sapienzali ebraici. In essi gli eventi della storia umana vengono illustrati come realizzazioni della Parola di Dio o manifestazioni della sua Sapienza che dispone le cose, suscita i profeti, sollecita i peccatori alla conversione, convoca gli esuli all'unità. La Parola di Dio crea tutto ciò che appare sulla terra e nei cieli, scende e si intrattiene con gli uomini, li orienta al Bene, guida i santi e li rende sapienti. Il libro di Isaia descrive plasticamente questa azione divina: "Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata" (Is. 55,10-11).
Negli scritti attribuiti alli Apostolo Giovanni vi sono tre formule che, in questa stessa prospettiva, presentano il mistero di Gesù come la venuta in terra della Parola di Dio. Nel prologo del suo vangelo, in un inno forse precedente alla utilizzazione fattane dall'Apostolo, Giovanni descrive le diverse discese della Parola di Dio dalla creazione ai profeti e recentemente al Battezzatore finché essa, assumendo carne, diventando cioè uomo, "pose la sua dimora in mezzo a noi e noi abbiamo veduto la sua gloria" (Gv 1,14). Anche all'inizio della sua prima lettera Giovanni ricorre a questa immagine: "La Parola che da la vita esisteva fin da principio: noi l'abbiamo udita, l'abbiamo vista con i nostri occhi, l'abbiamo contemplata, l'abbiamo toccata con le nostre mani. La vita si è manifestata e noi l'abbiamo veduta" (1 Gv 1,4).
Nell'Apocalisse, infine, altro libro della tradizione giovannea, ricorre lo stesso riferimento in un ambito di visioni immaginarie relative alla lotta tra il bene e il male: "Poi nel cielo aperto vidi un cavallo bianco. Colui che lo cavalcava è chiamato 'fedele' e 'verace' perché giudica e combatte con giustizia... Il suo nome è 'Parola di Dio'... Dalla sua bocca usciva una spada affilata" (Ap 19,11.13.15). Con queste immagini e metafore Giovanni vuole illustrare la funzione rivelatrice e giudicatrice di Cristo risorto: Egli rivela il Padre e opera nel suo nome: "Dio nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lo ha rivelato" (Gv 1,18).
Al medesimo schema ricorre alcune volte, soprattutto in contesti poetici, anche la tradizione conservata nelle comunità che si richiamano all'insegnamento dell'Apostolo Paolo. Come ad es., nella lettera ai Colossesi dove in un inno a Cristo si dice: "Egli è l'immagine di Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili..." (Col 1,15-16).
Anche l'inizio della lettera agli Ebrei si richiama a questo modello: "Dio che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo". Egli è irradiazione della sua gloria e immagine della realtà divina" (Eb 1,1-3). Glorificato Gesù manifesta la perfezione di Dio, il suo amore, la forza della sua grazia donando lo Spirito che guida alla verità e rende figli di Dio. A quanti accolgono la Parola, infatti, viene dato "il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, nè da volere d'uomo, ma da Dio sono stati generati" (Gv 1,12-13). Per questo motivo la 'discesa' o 'l'incarnazione della Parola di Dio' è un modello per descrivere un processo storico, una serie di eventi salvifici, che hanno avuto in Gesù una piena realizzazione quando egli nella natura umana. è diventato Figlio di Dio in pienezza o è stato costituito da Dio Messia e Signore. Non è solamente attraverso le parole dette, che Gesù può essere chiamato Parola di Dio, ma nella sua intera esperienza umana egli è stato per gli uomini 'immagine perfetta' della realtà divina, indicazione del progetto che Dio ha pensato per l'uomo come Figlio suo.
Alcuni cristiani dei primi secoli (come ad es. gli gnostici) immaginavano una Persona divina che si tramutava in persona umana, o si nascondeva in un uomo prendendo dimora in lui come in un tempio (metafora utilizzata dai nestoriani) o trasformava così radicalmente una natura umana unendola a sé, da conferirle caratteristiche divine (come dicevano monofisiti, seguaci di Eutiche, archimandrita in un Monastero di Costantinopoli, nel sec. V). Queste interpretazioni dell'esistenza di Gesù, ancora spesso diffuse nelle concezioni popolari, risentono di miti pagani e sono state ripetutamente rifiutate dalla Chiesa.
Gesù, per la fede cristiana, non è un semidio o un mostro umano. Nella sua realtà umana è perfettamente ed esclusivamente uomo; non ha alcuna 'maggiorazione' che lo faccia diverso da noi. Anche l'essere senza peccato non rende Gesù meno 'uomo' di noi, ma anzi più uomo se è vero che il peccato è "una diminuzione per l'uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza" (Concilio Vaticano II, GS 13).
Il fatto centrale della fede cristiana, espresso con l'immagine della incarnazione, proclama che in Gesù si è realizzata un'accoglienza così profonda della Parola di Dio da parte di un popolo (o di un piccolo resto fedele), da saper esprimere una realtà umana, perfetta traduzione, nella storia, del progetto di Dio. La Parola di Dio cioè, è riuscita ad entrare così compiutamente nella storia umana da esprimersi senza residui in un uomo, Gesù, che è divenuto il nome umano dell'amore misericordioso di Dio, la manifestazione definitiva del cammino che ogni uomo è chiamato a percorrere.
Quando opera, Dio crea, rende vivi, partecipa la sua perfezione. Dio si incarna non nascondendosi in un uomo già esistente o utilizzando una persona ai suoi fini, ma costituendo un uomo come propria espressione vivente, suscitando da una storia di uomini fedeli "un'impronta della sua sostanza" (Eb 1,3) cioè un'immagine visibile della sua realtà invisibile (cf Col 1,15).
Incarnare un'idea, una verità, una parola significa accoglierla e viverla così autenticamente da farne la propria carne, da diventare cioè sua espressione vivente. Quando la Parola è divina essa non suppone nulla prima di sé giacché essa tutto costituisce e fonda; essa dona anche la capacità di essere accolta. Gesù è l'incarnazione di Dio perché è stato condotto ad accogliere con tale fedeltà la sua parola da diventare nella storia la sua proclamazione vivente. Gesù si è lasciato così permeare dall'azione divina da essere portato a realizzare in modo esemplare il dono di essere uomo, da essere perciò costituito Figlio.
Dio in Gesù si è fatto uomo nel senso che 'dalla discendenza di Davide ha suscitato' (cf At 13,23) un uomo secondo il suo progetto, e dall'interno lo ha alimentato con il suo Spirito e lo ha reso così fedele da esprimere in lui la sua perfezione, il suo amore: da costituirlo "Messia e Signore" (At 2,36) per tutti gli uomini. Ormai il perdono di Dio, la sua misericordia, sono nella storia a disposizione di tutti.
Conseguentemente credere nell'incarnazione di Dio significa ritenere che la realtà di Gesù, maturata nell'ascolto e nella contemplazione, è traduzione umana della Parola di Dio; che la sua sapienza, frutto di intuizioni profonde e di attenti silenzi, è riflesso storico dell'eterna Sapienza, creatrice del mondo, che la sua bontà è espressione concreta della misericordia di Dio.
Il processo perciò di incarnazione non si esaurisce nella nascita, ma continua per tutta l'esistenza di Gesù, man mano che le strutture umane offrivano ambiti nuovi di accoglienza al dono supremo di Dio, che è la vita definitiva nella gloria. Ogni decisione, vagliata nella preghiera, introduceva Gesù, come uomo, nell'ambito della divinità fino alla risurrezione, realizzatasi nell'oblazione perfetta della morte.
La nascita rappresenta il primo momento di un lungo processo di incarnazione, cioè di offerta da parte di Dio e di accoglienza fedele da parte di Gesù, di chiamata e di risposta, fino a quando Dio ha potuto dire: "Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato" (Sal 2,7). Questo versetto del Salmo non viene riferito nel Nuovo Testamento alla nascita di Gesù ma alla sua risurrezione. Paolo nel discorso ad Antiochia di Pisidia, durante il suo primo viaggio apostolico, dopo aver riassunto la storia della salvezza dall'esodo a Gesù conclude: "Anche noi vi portiamo questo messaggio di salvezza: Dio ha fatto risorgere Gesù, e così la promessa che egli aveva fatto ai nostri Padri l'ha realizzata per noi che siamo loro figli. Come sta scritto anche nel Salmo secondo 'Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato'. Dio ha risuscitato Gesù dai morti liberandolo una volta per tutte dalla potenza della morte" (At 13,32-34).
Allo stesso modo la lettera agli Ebrei identifica l'unzione di Gesù come sommo sacerdote, con il momento in cui Dio gli disse "mio figlio sei tu, oggi ti ho generato" (Eb 5,5). Questo momento fu appunto la risurrezione perché, come dice la stessa lettera, "se Gesù fosse sulla terra, egli non sarebbe neppure sacerdote" (Eb 8,4), ma "nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo dalla morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio imparò tuttavia l'obbedienza da quello che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato sommo sacerdote" (Eb 5,7-9).
Solo allora egli ha portato a compimento la manifestazione dell'amore di Dio; divenuto capace di donare lo Spirito di vita (cf Gv 7, 39) ha realizzato la volontà del Padre per cui appunto era venuto: "Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti
né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco io vengo, poiché di me sta scritto nel rotolo del libro, per fare o Dio, la tua volontà... Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre" (Eb 10,5-7,10).
La formazione del suo corpo di gloria, è terminata quando egli è diventato oblazione pura, perfetta immagine del Dio invisibile (Col 1,15). Ma quel corpo, luogo della fedeltà di Dio, è lo stesso nato da Maria, cresciuto nella fatica di Nazaret, baciato dagli amici e dai traditori, martoriato dai nemici, sepolto e unto da mani pietose.
Celebrare perciò la sua nascita, quando "venendo al mondo" poté dire: "Ora mi hai dato un corpo... ecco io vengo per fare o Dio la tua volontà" (Eb 10,5.7) significa annunciare il progetto di umanità perfetta che in Gesù Dio portava a compimento a beneficio di tutti. Credere in Gesù Messia significa fidarsi così della sua esistenza storica da decidere della propria vita in base al suo insegnamento; e accogliere il suo Vangelo come riferimento per la verità da scoprire; è considerare la sua risurrezione come indicazione di una chiamata universale che nella storia si rinnova per ogni popolo e per ogni uomo.
La salvezza è appunto il compimento di questo progetto di Dio che in Gesù è stato concretamente presentato ed annunciato.
Celebrare perciò il Natale di Gesù Cristo è rievocare l'inizio di una storia umana come paradigma della fedeltà di Dio; è riconoscere nella povertà di una esistenza il luogo di rivelazione divina; è proclamare la reale possibilità di diventare uomini; è professare la fede nel destino trascendente dell'uomo chiamato da Dio a forme nuove e definitive di vita.

Chi crede in me farà opere più grandi delle mie (Gv 14,12)

L'oggetto centrale della fede cristiana è la messianicità di Gesù glorificato da Dio: "Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo" (Rom 10,9). La salvezza dell'uomo non consiste semplicemente nell'accogliere un insegnamento ma nel riconoscere un evento; non si esaurisce nel passato (un giorno Dio risuscitò Gesù) ma esige un presente (egli ora è il Signore). Non è sufficiente perciò professare una dottrina o fare memoria di eventi passati. È necessario riconoscere che egli è Signore, costituito cioè principio di vita per coloro che gli obbediscono (cf Eb 5, 36). È necessario che ancor oggi si possa dire: "Ora egli ci dona quello stesso Spirito che voi potete vedere e udire" (At 2,33); che ci si possa richiamare ad "esperienze" salvifiche, al "Dio che dà lo spirito ed opera meraviglie" (Gal 3,4-5); che il "messaggio" non sia fondato" su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza" perché la fede non poggi "sulla sapienza umana ma sulla potenza di Dio" (cf I Cor 2,4-5).
L'incarnazione della Parola di Dio, la manifestazione della sua azione devono continuare. Il processo vitale che in Gesù ha avuto compimento con la risurrezione è anche un'avventura di tutta l'umanità che deve giungere ad una pienezza di vita non ancora realizzata. La comunità ecclesiale ne dovrebbe costituire stimolo e segno per tutti gli uomini. Gesù ha raccolto la tradizione di un popolo e l'ha portata ad un suo compimento storico definendone le virtualità salvifiche. Ma proprio per questo il messaggio della sua esistenza è culturalmente segnato: parla una lingua particolare, ha orizzonti culturali circoscritti, comporta necessariamente riferimenti datati agli anni 750/780 dalla fondazione di Roma. Celebrare la nascita di Gesù è appunto indicare i confini della sua esistenza e tracciare il diagramma della sua presenza nella storia. È rievocare una madre, un padre, un imperatore romano e i suoi rappresentanti, oppressioni e tentativi di rivolta, memorie tramandate con religiosa scrupolosità, sofferenze di un popolo portate con dignità, speranze coltivate nella preghiera. Ma proclamare Gesù Messia significa irrompere nell'universalità, allargare gli orizzonti fino ai confini della terra e della storia, significa infrangere i sigilli di una tradizione particolare e di una cultura, significa esigere altre presenze, che facciano dell'episodio Gesù un evento attuale dello Spirito. Non è sufficiente la celebrazione di un fatto storico per la salvezza, è necessario un accadimento presente. Cristo è il nome che unisce Gesù e lo Spirito: "Innalzato pertanto alla destra di Dio, dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso" (At 2,33).
Festeggiare la nascita di Gesù come Cristo o Messia richiede questo duplice richiamo concreto: al passato di Gesù e al presente dello Spirito; al particolare di una storia e all'universale dell'azione salvifica di Dio, alla dimensione umana e a quella divina della salvezza. La manifestazione storica dell'amore misericordioso di Dio in Gesù deve continuare visibilmente anche oggi perché restino credibili gli eventi antichi.
Il nome di Gesù non può essere celebrato nel mondo né riconosciuta la sua missione salvifica se non 10
per la presenza operante di uomini salvati. Egli può essere proclamato "salvezza di Dio" (1 Cor 1,30) solo se in nome suo maturano persone autentiche, se si inventano espressioni nuove di umanità e forme più ricche di comunione, se si aprono nuove strade di pacificazione fra i popoli e orizzonti insospettati di universalità; se in nome suo si scoprono espressioni inedite di oblatività. Questo non è impegno di singoli; è compito di popoli interi e di nazioni. Solo comunità che fanno crescere santi, che mettono in circolo abitudini e gesti di umanità nuova consentono al mondo intero di celebrare il Natale di un salvatore.
Se anche oggi nasce un uomo nuovo, il Natale di Cristo può essere non solo ricordato ma anche celebrato. Nomi augurali possono essere ancora pronunciati su infanti e speranze formulate sul loro destino se in nome di Cristo c'è ancora chi ama fino a morirne. Se c'è gente che è capace di offrire la propria vita per la pace e per la giustizia, gente che sappia amare anche quando l'odio la sommerge, gente che, anche se perseguitata od emarginata è in grado di offrirsi generosamente per i fratelli. Allora l'incarnazione continua. Dio raccoglie ancora popoli dai quali suscitare per il mondo salvatori (cf At 13,23), attori fedeli della sua storia, realizzatori del suo progetto salvifico.
I santi non sono mai espressioni di un semplice impegno personale, sono risultati di una storia di fedeltà che giunge a compimento in una persona. Come i violenti o gli assassini sono sempre anche la concretizzazione di violenze più profonde che circolano in un ambiente, emergenza di ingiustizie che permeano una società. I salvatori permettono ancora a Dio di nascere in mezzo a noi, di venire "presso i suoi" di piantare le sue tende fra gli uomini (cf eskénosen di Gv 1,14 piantò le tende e abitò; cf parallelamente Sir 24,10-12).
Dove l'ingiustizia si rinnova e l'oppressione inventa stratagemmi per continuare, dove l'emarginazione si perpetua e lo sfruttamento prende nuove forme, Dio deve ancora venire. E viene solo attraverso comunità che suscitano figli di dio, persone che raccogliendo una tradizione di fedeltà e sofferenza, rendano presente in modo efficace l'azione misericordiosa di Dio.
Per questo celebriamo il Natale: in ogni stagione della storia un uomo deve nascere che raccolga l'energia vitale e l'amore di popoli interi e li proponga all'umanità incarnandoli nella sua esistenza, come segno visibile della fedeltà di Dio e della continuità del suo dono. Dio viene, i figli suoi nascono ancora e a tutti noi è consentito celebrare la speranza che un giorno prese nome umano in Gesù, la salvezza di Dio per l'uomo.