Le virtù cardinali /3

La giustizia

Walter Magnoni

 

Non è giusto

«Non è giusto!». A tutti sarà capitato di utilizzare questa espressione.
Nell’esperienza di un bambino che inizia a frequentare la scuola questo può capitare magari di fronte alle valutazioni della maestra. «Non è giusto il voto che mi ha dato, non è giusto il voto che ha dato a quello e a quell’altro». Gli esempi potrebbero moltiplicarsi semplicemente estendendo gli ambiti: in famiglia si sente ingiusto il comportamento dei genitori verso i fratelli; nel calcio è l’allenatore a essere non giusto nella scelta dei giocatori da mandare in campo o in panchina, oppure - più comunemente - è l’arbitro ad essere ingiusto e fischiare rigori inesistenti o annullare reti sacrosante.
Come punto di avvio proponiamo una tesi sulla quale torneremo in un secondo momento: tutti fanno esperienza dell’ingiustizia e soprattutto ferisce quella che si subisce in prima persona.
Se si chiede ad un ragazzo di dare una definizione della giustizia, forse non sarà in grado di farlo, ma se gli si domanda di descrivere un esempio d’ingiustizia lo farà prontamente.
Abbiamo dentro di noi un senso della giustizia che ci è trasmesso dall’ambiente culturale in cui viviamo e che già dai primi anni della vita ci consente di valutare i comportamenti delle persone.

Il giudice dentro di noi

Nel racconto «Carne salata e cetrioli» lo svedese Stig Dagerman narra di un bimbo di nove anni che a pranzo siede sempre vicino a un suo coetaneo, compagno di scuola.
«All’intervallo del pranzo io e il mio compagno ci sedevamo sempre vicini.
Suo padre era orticoltore, e forse era per questo che lui aveva sempre cetrioli nei suoi panini; detestava i cetrioli ma non osava dirlo a casa. Certe volte nei miei panini mi mettevano carne salata, a casa erano convinti che fosse il mio cibo preferito per il solo fatto che me lo davano quand’ero a Stoccolma, mai avrebbero immaginato che avevo preso l’abitudine di sbarazzarmi dei miei pezzi di carne salata infilandoli in una delle panche vuote della classe. Naturalmente avremmo potuto fare cambio, ma i cetrioli non piacevano neanche a me, né la carne salata al mio amico. Perciò eravamo arrivati alla soluzione di lasciar scivolare cautamente le fettine di cetrioli e di carne salata dietro la panca che era appoggiata al muro e aveva lo schienale che scendeva fino a terra. Per tutto l’autunno e l’inverno facemmo cadere cetrioli e carne salata dietro la panca, e tornando a casa fantasticavamo sempre sull’ondata di carne salata e cetrioli che si sarebbe abbattuta sul pavimento sommergendo tutta la scuola se solo l’avessimo spostata. Ma spostarla non osavamo mai, e passavamo il tempo a cercare sempre nuovi posti dietro la panca dove lasciar cadere il nostro companatico perché si distribuisse nel modo più uniforme possibile» [1].
Tutto questo finché arriva la settimana in cui il protagonista si deve fermare in classe per ultimo per alcuni compiti pratici che gli studenti, a turno, dovevano svolgere. Non resiste alla tentazione, sposta la panca e sorpreso scopre che non c’è alcuna traccia di cetrioli e carne salata. Da lì inizia a tenere d’occhio dopo la scuola l’ipotetico ladro di questi alimenti e alla fine scopre che un altro compagno andava ogni giorno a raccogliere il cibo buttato per mangiarlo. A questo punto il protagonista accusa questo ragazzo di essere un ladro e insieme ad altri compagni lo insegue e lo picchia, ma rimasto solo comprende che il suo atteggiamento non è stato giusto. Così Dagerman scrive:«Ma il giudice che avevo dentro, che doveva essere più maturo dei miei nove anni, mi disse alla fine che avevo agito da autentico vigliacco: era “rubare” prendere quello che noi avevamo gettato via?» [2]. Il racconto continua, poi, con altre osservazioni acute e inerenti al tema della giustizia e al ruolo della coscienza nel cogliere atteggiamenti, anche nostri, non coerenti.
Nella sua semplicità questa storia riporta l’esperienza pratica del percepire che noi, non solo subiamo ingiustizie ma siamo anche in grado di causarne. Da dove nasce il senso di giustizia che percepisce il ragazzo del racconto? Di certo, un elemento che costruisce la coscienza personale della giustizia e dell’ingiustizia vissuta è quello culturale. Il giudice interiore di cui il racconto narra si costruisce attraverso il mondo vitale della persona e in particolare grazie alle parole e agli esempi delle figure affettivamente più significative, in primis i genitori.

La mamma non vuole

Questa espressione è per il bambino il primo segnale che una cosa non è giusta.
Mi ricordo una delle prime gite fatte da bambino con l’oratorio. Mia mamma mi aveva raccomandato di stare attento ai burroni e di camminare sempre in mezzo al sentiero. La gita era molto semplice e il sentiero era in realtà una grande mulattiera. Siccome era piovuto, c’erano molte pozzanghere. Se erano nel mezzo del sentiero io le calpestavo pensando di fare il giusto. A nulla è servito l’impegno di un educatore che ha provato a convincermi che non c’erano pericoli e che bagnarsi i piedi era peggio che spostarsi un po’ di lato. La mia risposta era una sola: «la mamma non vuole».
D’altro canto, un ricordo sempre dei primi anni di vita, è quello di mio papà che mi sgrida perché dalla mia bocca era uscita una parola sentita forse all’asilo.
Ero in cucina e dalla reazione di papà ho imparato che certe parole sono inadatte e non è giusto usarle.
Nel contesto culturale in cui sono cresciuto certe espressioni erano censurate e ricordo di non averle mai sentite pronunciare neppure dai miei famigliari. Ma ricordo anche che di fronte ad un compagno che, invece, le pronunciava, sua mamma rideva, approvando implicitamente quel linguaggio.
L’atteggiamento dei genitori e delle figure affettive più significative è decisivo per la prima costruzione del sé e di quel senso di giustizia che poi accompagna la crescita successiva.

Il ruolo della cultura

Il contesto storico culturale non è indifferente nella valutazione di ciò che è giusto o ingiusto.
È giusto che vi sia la schiavitù? Noi oggi siamo unanimi nel rispondere che la schiavitù è ingiusta in nome della dignità della persona e dei diritti umani.
Eppure ci sono stati tanti secoli in cui questa pratica non creava alcun problema.
Per esempio, nel Nuovo Testamento, in particolare nella lettera di Paolo a Filemone, si parla di Onesimo che era stato schiavo di Paolo (Fm 8-20) e non vi è la possibilità di cogliere che tenere qualcuno come schiavo fosse ritenuto ingiusto.
Saranno necessari diversi secoli per giungere a una riflessione di questo tipo. Non per questo, però, in Paolo mancano criteri importanti di giustizia. Questo, per specificare che il contesto storico non è indifferente nella valutazione della giustizia. Oggi noi condanniamo la schiavitù, ma in generale non ci fa problema la presenza di persone che lasciano il loro paese natio e la loro famiglia per venire a prendersi cura dei nostri anziani, accudendoli ventiquattrore su ventiquattro e con magari solo qualche ora di libertà. Sono quelle persone che comunemente chiamiamo badanti e che sono comode alla nostra società, ma non sono forse anche queste forme mascherate di schiavitù? Quello che credo sia importante aggiungere alla nostra riflessione sulla virtù della giustizia è il fatto che ogni epoca è più sensibile ad alcuni aspetti rispetto ad altri. Ci sono delle sensibilità culturali che si sviluppano e altre che si assopiscono.
Il senso della giustizia non è un concetto statico e universalmente condiviso nelle sue declinazioni pratiche; questo non significa che siamo nel relativismo della giustizia, ma semplicemente che lo studio della storia ci mostra degli accenti sulla giustizia differenti nelle varie epoche.
Potrebbe nascere il sospetto che ogni periodo storico abbia la propria idea di giustizia e che non vi sia un filo rosso. In realtà, credo si possano vedere alcune costanti dentro le riflessioni antiche e moderne. Anzitutto la domanda di giustizia attraversa ogni epoca e ogni cultura: dalla tragedia greca, al testo biblico sia nell’antico che nel nuovo testamento, da Platone e Aristotele ad Agostino e Tommaso, dai padri della chiesa al medioevo, dalla società moderna a quella postmoderna, noi troviamo trasversale e sempre emergente l’interrogativo dell’uomo sulla giustizia. Cos’è la giustizia? Chi è l’uomo giusto?

Virtù relazionale

Vorrei, ora, provare ad elaborare una proposta che intende la giustizia come una virtù relazionale.
Troviamo un intero capitolo dedicato a questo tema nella Teologia dell’Antico Testamento di Von Rad dove si evidenzia che il termine sedāqâ «è la norma non solo per il rapporto dell’uomo con Dio, ma anche per il rapporto degli uomini tra di loro fino alla disputa più insignificante, anzi anche per il rapporto dell’uomo con gli animali e con l’ambiente naturale circostante» [3].
Un altro studioso della giustizia nella Bibbia è Pietro Bovati, il quale a sostegno di quanto detto afferma che la giustizia «non esprime tanto il riferimento dell’individuo alla norma etica, quanto piuttosto la relazione fra due esseri, relazione che è comunicazione per una vita di comunione» [4]. Da questa visione desume che: «la relazione più difficile, ma al tempo stesso più decisiva, è quella che il giusto stabilisce con l’ingiusto (o con chi è ritenuto tale): il giusto è chiamato infatti non solo ad operare correttamente verso l’altro, ma a ristabilire la giustizia, così da promuovere un retto rapporto fra tutti i membri della società» [5].
In questa linea mi pare s’inserisca anche un’osservazione che faceva il Cardinal Martini in una sua catechesi alla diocesi di Milano: «Secondo sant’Ambrogio, “la giustizia si riferisce alla società e comunità del genere umano”, è qualcosa che regola i rapporti tra le persone. Noi tutti ci accorgiamo dell’importanza di questa virtù, per la quale si può addirittura morire: basta pensare ai magistrati come Falcone e Borsellino per avvertire la drammaticità del tema della giustizia» [6].
Per questo, imparare la giustizia chiede un percorso con delle tappe obbligatorie e fondamentali senza le quali non è pensabile nessun percorso di giustizia. Se la sfida è quella di costruire relazioni giuste, a questo ciascuno di noi è chiamato in tutti gli ambiti di vita dove è inserito: da quelli più stretti come la famiglia e la comunità in cui vive a quelli più ampi che toccano il livello istituzionale.
Proviamo a focalizzarci su qualche passo da compiere per realizzare la virtù della giustizia.

L’uscita da se stessi: oltre il narcisismo

Se è vero che la giustizia è virtù che si gioca nelle relazioni, appare allora evidente la necessità di riconoscere le altre persone con i loro diritti. Il rischio dell’egoismo e del non vedere gli altri è più reale di quanto si possa credere. Un tipico esempio è la fila in un negozio, in strada o in situazioni simili. Non manca quasi mai il cosiddetto furbo di turno che cerca di eludere la fila, non riconoscendo che il tempo è prezioso per tutti e che è giusto aspettare il proprio turno. In molti negozi quando uno entra sa già che deve prendere il numerino e questo per evitare situazioni tante volte ripetute dove, alla domanda della commessa «a chi tocca?», iniziano le antipatiche discussioni, spesso innescate dalla famosa frase «guardi che c’ero prima io!». Gli esempi abbondano: nelle code automobilistiche ci sono persone che utilizzano la corsia di emergenza o che continuano a spostarsi da una fila all’altra, innervositi dalla sensazione che la fila su cui si sono messi sia più lenta. Nelle ore di punta capita di vedere gente che spinge per salire sulla metropolitana senza la pazienza di aspettare il convoglio successivo. Tutti sono lì ad attendere la metrò o il tram, ma ciascuno vede solo il suo bisogno e i suoi orari.
Finché si rimane ripiegati su se stessi non si possono attuare percorsi di giustizia e l’individualismo diviene il primo problema da superare per una società che vuole recuperare il legame sociale al fine di provare a costruire il cosiddetto bene comune.
In questo, l’educazione famigliare è già un apporto fondamentale laddove s’insegna ai figli il rispetto per l’altro, la solidarietà e la necessità di dare fiducia. Il passaggio che ogni bimbo compie è quello dal pensarsi al centro di tutto al riconoscersi come soggetto di una società più grande, dove non esiste solo lui con i suoi diritti.
Come accennavamo all’inizio, il fatto che se subiamo un’ingiustizia siamo più portati a riconoscerla rispetto a quando siamo noi a commetterla, dipende principalmente dalla seguente ragione: chi non è aperto agli altri si può accorgere di un torto subito, mentre per rendersi conto di essere ingiusti serve uno sguardo che si apre alle altre persone.

Gli altri, ma tutti gli altri: oltre il razzismo

Il secondo passaggio è dunque quello di riconoscere gli altri. Ma anche in questo caso, affinché si possa procedere verso la giustizia è necessario specificare meglio chi sono gli altri. Qui il rischio è quello di un’apertura parziale che è di sua natura nemica della giustizia.
Uno dei blocchi ai processi di giustizia concerne proprio le dinamiche di discriminazione che nella storia si sono tante volte verificate, generando sofferenze e gravi ingiustizie. Pensiamo alle lotte di Martin Luther King per far valere per i neri gli stessi diritti dei bianchi.
Oggi certe battaglie ci sembrano lontane. In realtà, come diceva saggiamente la piccola sorella Magdeleine di Gesù: «c’è in ogni uomo un razzismo nascosto e segreto le cui radici sono molto profonde nel cuore umano. Non lo ammettiamo, ma guardiamo sempre il fratello con un complesso di superiorità, prova ne è che lo giudichiamo» [7]. Questa donna, seguendo le orme di Charles de Foucauld, ha speso tutta la sua vita per promuovere legami di fiducia universale tra popoli e culture differenti, ha attraversato tanti paesi del mondo e proprio in virtù di questa esperienza straordinaria ci mette in guardia dal razzismo latente che c’è in ciascuno di noi.
Vigilare sulle chiusure e diffidenze verso le persone è un ulteriore passo verso la giustizia che chiede di guardare a ogni persona con quell’atteggiamento che San Paolo sintetizzava nell’esortazione: «gareggiate nello stimarvi a vicenda».
Alle istituzioni è chiesto di legiferare nell’attenzione al bene di tutti e non solo di quella parte che ha favorito col suo voto l’elezione. Ancora una volta, emerge il nesso tra giustizia e bene comune.

Gli uomini giusti e la mancata realizzazione della giustizia

Un terzo passo da compiere è quello di chiarire una differenza onde evitare un cortocircuito diffuso.
Il fatto che sulla terra non si realizzi la giustizia non significa che manchino uomini giusti. Alcuni li abbiamo già citati: Falcone, Borsellino, Luther King, piccola sorella Magdeleine. Altri si potrebbero citare. Esistono elenchi interi dei cosiddetti martiri della giustizia.
Eppure, ogni giorno si verificano ingiustizie e spesso le cronache dei giornali sono fitte di episodi di corruzione, violenza, furto, omicidi e quant’altro, tutti nella direzione di azioni che attentano ai legami di giustizia. Questo è il risultato del cedimento a quella tentazione sempre presente nel cuore dell’uomo e ben descritta nei primi capitoli del libro della Genesi che si chiama egoismo e che porta l’uomo a farsi come Dio e a volersi sostituire a Lui, non riconoscendo il compito dell’umanità a rendere più bello il giardino affidatogli che è questo mondo.
La giustizia non si realizza non perché mancano uomini giusti, ma a causa del fatto che bastano pochi ingiusti per rovinare il lavoro di tutti.
Però, sulle labbra di molti uomini compare la parola «non è giusto» anche di fronte a episodi che superano le umane strutture di peccato. Penso alle morti premature o al dolore innocente, a quelle situazioni che portano a chiedersi: Dio è ingiusto? Qui la domanda assume due rilievi. Da un lato ci si chiede: perché Dio permette il male? Ma dall’altro, l’interrogativo, quello più radicale, concerne certi dolori legati a vicende dove non c’entra la libertà dell’uomo: perché questo bimbo, che non ha fatto alcun male, deve soffrire così tanto e magari morire? Che senso ha avuto una vita così breve?

La giustizia di Dio: il compiersi della carità

Questo è l’ultimo passaggio e per certi versi il più difficile, quello dove credenti e non credenti, che magari hanno condiviso il percorso fin qui proposto, possono trovarsi un po’ distanti o comunque con posizioni differenti.
«La radice della giustizia è nella creazione voluta da Dio. È lui il garante ultimo di ogni giustizia; è lui che anzitutto fa giustizia a noi devianti, poveri, peccatori; è lui che perdona, ci riabilita, ci ama; e, in grazia della sua giustizia salvifica, siamo messi in grado di esprimere anche noi giustizia, bontà, amore e perdono, verso tutti gli altri, siamo messi in grado di vivere qualcosa di quella giustizia del Regno che chiediamo ogni giorno nel Padre nostro “Venga il tuo Regno!”» [8].
A margine di questa citazione possiamo fare due osservazioni. Anzitutto, che ci sono legami di giustizia che impariamo dallo stile di Gesù e dalla sua capacità di vivere l’amore. Noi non saremmo capaci di misericordia, quella che è in grado di ristabilire la giustizia laddove si è verificato del male, senza prima averla sperimentata su di noi da parte di quel Dio che muore per amore. In secondo luogo ci è consegnato il Regno di Dio quale condizione definitiva dove si realizzerà la giustizia, e coloro che ingiustamente hanno sofferto e sono morti potranno ritrovare una dimensione ancora di vita, finalmente senza più dolore.
Il Dio di Gesù Cristo è il garante che la morte, per grazia, non è la fine di tutto, ma si apre alla vita risorta del Regno, dove noi crediamo si realizzerà quella giustizia che qui non vediamo. In questo caso la giustizia resta virtù relazionale ma che si avvera solo grazie alla promessa di un Dio che ci ama. L’amore di Dio realizza la giustizia, anche quella che su questa terra non vediamo compiersi.


NOTE

1 S. Dagerman, I giochi della notte, Iperborea, Milano 1996, pp. 47-57.
2Ibid., p. 55.
3 G. Von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, vol I. Teologia delle tradizioni storiche d’Israele, Paideia, Brescia 1972, p. 418.
4 P. Bovati, Ristabilire la giustizia. Procedure, vocabolario, orientamenti, PIB, Roma 1986, p. 10.
5 Ibid, p. 10.
6 C. M. Martini, Le virtù. Per dare il meglio di sé, In dialogo, Milano 2010, p. 23.
7 Piccola sorella Annie di Gesù, Piccola sorella Magdeleine di Gesù, Qiqajon, Magnano (BI) 2011, p. 89.
8 C. M. Martini, Le virtù. Per dare il meglio di sé, cit., p. 31.

(Tredimensioni 9 (2012) 120-128)