La sessualità
nell'antropologia cristiana
Paolo Maria Blasetti *
Il tempo che stiamo attraversando si presenta come un tempo pieno di profonde contraddizioni che ne manifestano, contemporaneamente, la condizione di essere un tempo di grande travaglio, in cui la realizzazione del passaggio epocale sembra ancora molto lontana da essere un fatto, e proprio la condizione di essere tempo di passaggio, tempo di cambiamento e di trasformazione. Tutti sono concordi sul fatto che il nostro tempo è il tempo del passaggio da un'epoca a un'altra, ma nessuno sa dire bene dove questo passaggio ci conduce e quali sono le prospettive che si aprono all'umanità. E fin troppo facile parlare di crisi delle istituzioni senza riuscire a dire il perché: spesso si ha l'impressione che il problema si situi solo a livello di analisi e non nelle ragioni che determinano la crisi.
Una profonda crisi antropologica
Personalmente credo che all'origine di tante problematiche contraddittorie del nostro tempo si trovi una radice profonda che è la crisi del modello antropologico che ha accompagnato la nostra storia occidentale, pur nelle evoluzioni possibili di quel modello, modello ricevuto, pensato, vissuto. Tale crisi del modello antropologico ha profonde ripercussioni su molti aspetti del vivere umano e delle dimensioni del sociale che esso comporta: basti pensare all'affermazione contenuta nel messaggio per la Giornata mondiale di preghiera della pace 2015, in cui papa Francesco afferma, parlando della schiavitù nelle sue molteplici manifestazioni, che «Oggi come ieri, alla radice della schiavitù si trova una concezione della persona umana che ammette la possibilità di trattarla come oggetto [...]. La persona umana creata a immagine e somiglianza di Dio, con la forza, l'inganno o la costrizione fisica o psicologica viene privata della libertà, mercificata, ridotta a proprietà di qualcuno; viene trattata come un mezzo e non come fine» (n. 4). Tale pensiero mostra come la distorsione che il peccato introduce nella storia degli uomini va a incidere esattamente sulla visone antropologica che produce molteplici e diffuse visione distorte. Già Paolo W nella «Gaudete in Domino» aveva mostrato che il problema della gioia è un problema antropologico quando affermava che «la società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia» (n. 8): infatti la perdita della prospettiva del progetto spinge al piacere che genera «le passioni tristi» che caratterizzano il nostro tempo. Chiaramente questa crisi antropologica va a incidere in maniera molto profonda sul tema specifico del dossier di questo numero e i prodromi della attuale situazione sono ben descritti da padre Maurizio P. Faggioni in un articolo dal titolo significativo: «L'ideologia del "gender". Sfida all'antropologia e all'etica cristiana» (rintracciabile in www.penitenzeria.va), tenuto al corso di formazione sul foro interno del 2014. In quell'articolo l'autore percorre in maniera esaustiva il cammino che il nostro tema ha compiuto nel tempo.
Come si risponde a una crisi antropologica profonda come quella che viviamo e che inevitabilmente ci interpella come Chiesa, ma anche come operatori pastorali che sono chiamati a confrontarsi continuamente con il diffondersi evidente di questa crisi culturale ed epocale che pervade le generazioni senza spesso toccarle nella realtà? Infatti, credo, che sia più facile incontrarsi-scontrarsi con la dimensione culturale piuttosto che con il vissuto reale e concreto dei singoli o dei gruppi. Personalmente ritengo che questo sia un elemento significativo sul quale riflettere per un vero approccio pastorale. Se, pastoralmente, devo incontrare un singolo che vive tale condizione sarà molto diverso che se devo incontrare gruppi pervasi dalla mentalità e dalla cultura contemporanea.
Il punto di partenza
Sappiamo bene che la fede cristiana si basa su un elemento fondamentale che la distingue da ogni altra religione o fede: essa non è il frutto e lo sforzo dell'uomo per andare verso Dio, ma piuttosto lo sforzo e l'impegno di Dio per andare verso l'uomo. In termini teologici, questa dimensione si esprime nella dimensione della rivelazione, che se non toglie l'impegno dell'uomo a comprendere il fummo di I )io, nello stesso tempo impegna la riflessione in un punto di partenza che è sempre fondamentale nel cammino della riflessione: la consapevolezza che «Dio ha parlato agli uomini come ad amici» (ricorderebbe la Dei Verbum al n. 2), e che in questo parlare Dio ha rivelato all'uomo se stesso e l'uomo a se stesso. Tale rivelazione è contenuta in maniera speciale nella sacra Scrittura, ma ancor più nella parola di Dio che si è fatta carne; «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Tale prospettiva impone che la riflessione vada seguendo una linea che abbia in Gesù il suo inizio e non solo nella sua parola, ma anche in ogni suo gesto, perché il rivelarsi di Dio accade nei gesti e nelle parole e il sostantivo latino di DV non dice eventi, ma gesti che comprendono non solo i grandi fatti ma anche ogni realtà ordinaria: «In realtà solamente nel Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo [...] proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo all'uomo» (Gs 22). Sarebbe difficile ricostruire in Gesù il nostro tema; una tale analisi richiederebbe più che lo spazio di un articolo, ma vorrei prendere due fatti, due parole nella sua predicazione che mi sembrano fondamentali per il resto del discorso. Nel grande discorso della montagna, in Mt 5-6-7, Gesù all'inizio fa una grande affermazione in cui prima di proporre la nuova giustizia afferma: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i profeti [...] ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17).
In questa prima affermazione appare chiaro che Gesù non abolisce con un colpo di spugna quello che lo ha preceduto, ma al contrario è dentro di esso perché trovi il suo compimento. (E molto interessante che nel suo ultimo romanzo «Giuda» il grande scrittore israeliano Amos Oz proponga una tale lettura della persona di Gesù). Ora, la Legge non sono semplicemente le norme, ma piuttosto i grandi cinque libri che aprono anche la Bibbia cristiana: ciò vuol dire che tutto quello che in essi è contenuto fa parte di quello che deve trovare compimento. In questa linea si trova anche la parola di Gesù nel momento in cui viene interpellato sulla questione del divorzio: è assolutamente indicativa di come Gesù si rifaccia al dono della Legge e la spinga verso il suo compimento: «Non avete letto che il creatore da principio li fece maschio e femmina e disse: "Per questo l'uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne?"» (Mt 19,4-5). E nel suo parlare cita esplicitamente il testo di Gen 2,24, che narra l'evento della creazione e il fine che in essa ha iscritto il suo artefice. L'apostolo Paolo in Ef 5, parlando delle relazioni coniugali, citerà lo stesso testo di Gen 2,24, e alla fine concluderà con quell'espressione straordinaria: «Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa» (Ef 5,32). Tali rilievi ci spingono a cercare in quei testi il fondamento di ogni riflessione seria sull'uomo e sulla sua sessualità. Del resto, pur non trascurando altri testi contenuti, nel Primo Testamento i due capitoli iniziali della Genesi sono fondamentali per l'antropologia teologica e i padri della Chiesa li hanno riccamente commentati.
I racconti di creazione di Gen 1 e 2
L'attenzione della nostra riflessione si concentra soprattutto sulla creazione dell'adam distinto in maschile e femminile che i due testi ci rimandano. Ricordo che le due narrazioni sono due versioni diverse delle stesso evento che la sapienza della fede ci ha rimandato nelle sequenza che conosciamo, anche se il racconto di Gen 1 è più moderno di Gen 2, e ne è in qualche modo un'interpretazione teologica più alta. Il primo elemento che va sottolineato è il valore della dimensione corporea che troviamo in Gen 2,7, in cui il creatore appare tale sia nei confronti del corpo (polvere del suolo = adamah) sia nei confronti dello «spirito» (soffio nelle sue narici). La dimensione corporea non è un accidens nella nostra realtà umana, piuttosto si potrebbe dire «io sono il mio corpo», nel senso che la condizione dell'uomo è una condizione di profonda unità tra l'anima e il corpo, per mantenere la terminologia greca, anche se non corrisponde perfettamente alla visione della Bibbia. Se io sono il mio corpo, il cammino di unificazione e il cammino di relazione esistono e si espandono a partire dalla consapevolezza della sua realtà e della sua presenza che eliminano ogni possibilità di considerare il corpo come un oggetto e spingono invece a considerarlo come identità della persona stessa. In tale direzione, scrive padre Francesco Rossi de Gasperis: «Il mio corpo è la mia storia, la mia possibilità di relazione, lo spazio e il centro della rete di tutti i miei rapporti con gli altri esseri».[1] Tale prospettiva è quella che troviamo in Rom 12,1-2 nell'invito a offrire i corpi, invito che non rimanda all'esercizio della castità quanto piuttosto a una vita che si trasforma in liturgia, perché ogni gesto è offerta e lode al creatore della terra: il corpo per Paolo è la vita dell'uomo nella sua interezza. Sicuramente è questa la prima delle dimensioni antropologiche da recuperare nel nostro tempo, che invece tende a spingere la visione di un corpo-oggetto del quale posso fare quello che credo, a prescindere dalla mia identità e dalla mia realtà personale. Tale visione del corpo come oggetto si esprime a livelli bassissimi (come la pratica del tatuaggio), fino a livelli estremi (come decidere a quale sesso voglio appartenere in questo tempo della mia vita, con in mezzo una gamma infinita di dimensioni che a volte lasciano senza fiato).
Un secondo elemento dell'antropologia si trova in Gen 1,27 dove l'adam è creato a immagine e somiglianza di Dio, maschio e femmina. Sappiamo che il significato di «immagine e somiglianza» trova diverse interpretazioni nella storia della teologia. Mi piace prendere quella proposta da Enzo Bianchi: «Tenendo conto del contesto che mostra di non trattarsi di un uomo individuale, ma di un adam collettivo, l'adam del Sal 8, e tenendo conto che l'immagine-impronta significa innanzitutto la capacità, l'apertura all'incontro con Dio, credo che l'essere a immagine e somiglianza di Dio significhi innanzitutto che l'uomo è un essere in relazione con Dio e con gli altri».[2] Dunque la rivelazione mette subito in evidenza che la struttura dell'adam è una struttura relazionale in cui la relazione uomo-donna assume una prospettiva importante e fondamentale, privilegiata. L' adam allora è persona e non individuo, proprio perché la sua essenza è quella della relazione, e la sua identità scaturisce non dall'essere in sé ma dalle relazioni che esso vive con Dio, con gli altri, con le cose. In tale prospettiva è davvero significativo che le tre cadute, le «tre porte di ingresso del peccato»,[3] siano proprio tre dimensioni relazionali che vengono distorte: Dio, nel caso di Gen 3, l'altro, nel caso di Gen 4, e le cose, nel caso di Gen 11. Si deve notare ancora che non è importante il piano relazionale da cui si parte nella distorsione del peccato, perché ogni volta tutte le dimensioni relazionali vengono coinvolte nella distorsione. Anche qui troviamo un forte elemento di contrasto rispetto al vissuto culturale del nostro tempo, che ha sostituito la persona con l'individuo, con tutte le conseguenze che sono sotto i nostri occhi.
In questa duplice dimensione della corporeità e della relazione, dell'essere dunque persona che passa nelle relazioni attraverso una dimensione corporea sessuata, si inserisce un ulteriore elemento antropologico di grande importanza, che è il fatto che l'adam si riceve e non si fa da sé. Penso che questo elemento sia profondamente significativo, perché esso viene reso partecipe, nell'attività di generare i figli, della stessa attività creatrice di Dio, che passa alle generazioni successive la stessa dimensione. Potrei esprimere il concetto in questo modo: non potrei mai usare l'io, perché di fatto la mia realtà è un noi che ricevo dai miei genitori. Certamente, nel processo di consapevolezza di sé questo fatto è molto importante, perché solo nell'accoglienza di questo ricevermi da altri mi è possibile compiere un cammino di armonizzazione progressiva della mia identità. Mi ricevo da Dio, mi ricevo da altri, e posso costruirmi come persona solo se accolgo questa condizione primaria, e non se la rifiuto credendo di poter costruire una identità a prescindere. Questa identità personale che si riceve da altri e che si realizza e manifesta nella dimensione corporea, è un'identità sessuata prima ancora che sessuale. Scrive ancora E. Bianchi: «L'uomo, in quanto tale, non esiste affatto, ma esiste in quanto maschio e femmina, e trova lasua pienezza di senso soltanto nell'essere l'uno con l'altro e l'uno per l'altro dei due. Gli uomini sono immagine di Dio, ciascuno di loro, nell'umanità di cui fan parte e che essi rappresentano, in sé, se sono uniti, se si completano con amore accettando la differenza reciproca».[4] L'immagine e somiglianza, e il maschio e femmina, dicono che nella carne dell'uomo e della donna in relazione è iscritta quella realtà che è l'alleanza di Dio con l'uomo.
Nel racconto di Gen 2, come già sottolineato in precedenza, l'uomo si riceve da Dio sia nella sua dimensione corporea sia nella sua realtà «spirituale». L'esperienza che l'uomo fa, e di cui Dio prende consapevolezza, è che tutto quello che lo circonda, compresi gli animali se hanno relazione con lui, in realtà non riescono ad aprire l'uomo a una relazione profonda e autentica che viene espressa dalla bocca stessa di Dio in Gen 2,18: «Non è bene che l'uomo sia solo». La realtà della gamma delle traduzioni dell'espressione che segue a questa constatazione è enorme, ma mostra che Dio pensa l'uomo come necessitato a una relazione con un altro da sé. La creazione della donna appare così come un altro che è «carne della mia carne», dunque mi è simile ma nello stesso tempo è altro da me. La differenza, l'alterità è data proprio dalla differenza sessuale, che nell'esercizio della sessualità diventa icona del superamento della dualità e della unità profonda che caratterizza la realtà stessa Dio. «L'uomo abbisogna dell'alterità. A questo punto Dio separa per unire, separa in vista di una comunione e crea la donna dal lato dell'uomo. Così la donna è partner corrispondente dell'uomo e i due sono capaci di completarsi».[5] Mi piace pensare al torpore di Adamo come a una morte, perché quando si risveglierà la sua condizione sarà completamente cambiata: egli si penserà e si comprenderà solo a partire con l'altro da sé che è la donna.
Tali elementi antropologici non sono semplicemente «culturali», piuttosto hanno la dimensione dell'essenziale, perdendo la quale viene a perdersi anche la verità stessa sull'uomo. Penso che questo sia un punto importante anche nella pastorale, che mai debba essere perduto.
Conclusione
Quando Ben Sirach scrive il suo libro ha sicuramente la consapevolezza che i giovani del suo tempo sono affascinati dalla cultura e dalla sapienza ellenistica, e sa bene che la Torah può apparire loro come una sorta di albero avvizzito. Egli scrive partendo da un vissuto personale, che è quello di una vita dedicata allo studio e alla riflessione che permette di mostrare alle generazioni quale segreto si nasconde nella Torah, e cioè che solo da essa essi potranno trarre la vita. Del resto, anche l'evangelista Giovanni nel suo prologo non dice semplicemente che veniva nel mondo la luce, ma sottolinea che veniva nel mondo la luce vera, sottolineatura che indica come nell'uomo ci sia una ricerca della luce; ma questa ricerca può essere ingannata da luci che non sono vere. La sapienza che scaturisce dalla Scrittura ci invita a liberarci, come credenti ma soprattutto come operatori pastorali, da un complesso di inferiorità rispetto al nostro tempo e ai giovani. La nostra epoca è sicuramente un'epoca di grandi progressi dal punto di vista tecnico, di fronte ai quali molti di noi possono avvertire la loro inadeguatezza e quindi sentirsi incapaci di proporre al mondo di oggi le grandi realtà che la tradizione, e soprattutto la rivelazione ci hanno consegnato. Ma il mondo presente è sicuramente lontano da quella «sapienza» che rivelazione e tradizione ci consegnano, e un recupero di un dialogo autentico tra generazioni si può realizzare proprio a partire dalla consapevolezza che gli «anziani» hanno sicuramente da imparare dai giovani il mondo della tecnica, ma che i «giovani» hanno bisogno di aprire l'orecchio a una sapienza che le generazioni hanno acquisito sì nella rivelazione divina, ma anche e soprattutto nel
pensare e riflettere l'esperienza del vivere, a partire dalla consapevolezza di averla ricevuta come un dono e di averla vissuta come tale.
* Fondatore del Centro Emmanuel di Rieti, cappellano del carcere di Rieti
NOTE
1 F. ROSSI DE GASPERIS, Sentieri di vita, Paoline, Milano 2005, I, 172.
2 E. BIANCHI, Adamo dove sei, Magnano 2007, 154.
3 Cf. ROSSI DE GASPERIS, Sentieri di vita.
4 BIANCHI, Adamo dove sei, 155.
5 BIANCHI, Adamo dove sei, 192.
(Orientamenti pastorali, 1-2/2015, pp. 51-58)