«Anche il bello

deve morire»

La bellezza alla luce della verità
Osservazioni teologiche sulla relazione estetica

Eberhard Jüngel  

Alcune osservazioni teologiche sulla relazione estetica dell'essere umano non condividono solo il rischio di tutte le dichiarazioni che osa­no affermare qualcosa di valido su che cosa sia l'estetica: cioè che cos'è e con che cosa dovrebbe avere a che fare l'estetica. Oggi la possibilità di tali cognizioni è problematizzata già a priori. Osservazioni teologi­che su questo argomento sono anch'esse tanto più discutibili, perché, a partire dal XIX secolo, l'estetica o l'opera d'arte sembrano essere su­bentrate al posto della religione e della teologia. Infatti, l'arte è consi­derata - e non solo dai tempi di Wilhelm von Humboldt - «il più ade­guato "simbolo della divinità". [...] Sotto forma di riflessione filosofica e della sua traduzione estetica, la relazione estetica comincia a suben­trare al posto della religione fondamentale [...] e a ricondursi a que­st’ultima».[1] Una realtà da tempo ereditata da altri intende - in modo, per così dire comico - ragionare post festum su questi eredi. L'impresa diventa ancor più comica quando essa porta per forza di cose, nono­stante il monito di Lessing, a «ragionare sull'arte in soli termini gene­rici», perché questo può «portare a stramberie che uno troverà prima o poi, a sua grande vergogna, confutate nelle opere dell'arte».[2]

Sono consapevole di questa comicità. Ma poiché la comicità è an­ch'essa un fenomeno estetico, mi considero almeno in parte giustifica­to se oso proporre in queste righe quanto da altri considerato doppia­mente impossibile, ovvero alcune riflessioni teologiche sulla relazione estetica dell'essere umano. 

Relazione estetica. Definizione del concetto 

Parlo di una relazione estetica per distinguerla da altre relazioni in cui l'essere relazionale «uomo» esiste. Presuppongo, in questo conte­sto, come conoscenza cui non servono ulteriori giustificazioni, che l'es­sere umano è costituito nella sua umanità da una relazione con se stes­so, con il mondo e con Dio, nessuna delle tre potendo concretizzarsi au­tonomamente, ma sempre soltanto in una sorta di pericoresi con le al­tre due. I modi in cui si realizzano queste relazioni fondamentali, nel­le quali l'essere umano è quel che è, possono essere a loro volta molto diversi: innanzitutto già dal punto di vista del carattere dominante di una di queste tre relazioni; cioè a seconda che sia dominante il mio com­portamento nei confronti di Dio o del mondo, e quindi la mia relazio­ne con me stesso, oppure del mondo (come comportamento delle sue componenti) nei miei confronti e quindi con Dio. Ma il modo di realiz­zazione di queste relazioni fondamentali può essere anche differenzia­to secondo criteri del tutto diversi: cioè a seconda delle distinzioni ele­mentari a cui io sono esposto in questo processo. Posso, per esempio, essere esposto alla distinzione elementare tra bene e male, se mi rappor­to al mondo, a Dio o a me stesso. In tal caso, vogliamo parlare di una relazione morale. Posso, però, anche essere esposto alla distinzione ele­mentare tra sacro e profano, o tra santità e peccato. In questo caso, vo­gliamo parlare di una relazione religiosa. Vi è ancora tutta una serie di tali distinzioni elementari, che costituiscono ogni volta una relazione particolare, la quale determina o codetermina poi la rispettiva realiz­zazione delle tre relazioni fondamentali (Dio, mondo, noi stessi). Una di queste distinzioni è quella tra bello e non bello (non bello anziché brut­to: il brutto è una perversione del bello e ne fa parte). In questo ultimo caso, vogliamo parlare di una relazione estetica. Con questa espressio­ne si pensa di solito alla relazione con il cosiddetto bello nell'arte; ma

ciò non esclude che si tenga conto anche delle cosiddette bellezze del­la natura. Punto di partenza fenomenologico è il bello che si vede. In qual misura le affermazioni a proposito di questa bellezza valgano an­che per il bello dell'udito e dell'odore - valgono! - non verrà discusso in questa sede. Il concetto di relazione estetica si orienta lungo le funzioni vitali e mondane del bello artistico, così come anche la relazione mora­le e la relazione religiosa. Se nella relazione estetica domini il compor­tamento produttivo, ricettivo o comunicativo, non è una questione fon­damentale. Decisivo è che nella definizione della relazione estetica si tenga conto di tutti gli «sforzi dell'esperienza estetica».[3]

II sostantivo estetica verrà usato, in quanto segue, innanzitutto in ma­niera generica. Formato in origine nella Scuola di Wolff come termine tecnico della teoria delle scienze - nei suoi corsi universitari del 1742, pubblicati nel 1750 sotto il titolo Aesthetica, A.G. Baumgarten propone una “epistéme aisthetiché” («scienza estetica») - l'espressione divenne ra­pidamente una parola corrente. Come osserva Hegel all'inizio delle sue lezioni di estetica, «la parola è entrata nel linguaggio comune». Proprio per questo essa può, secondo Hegel, essere mantenuta come tale, «ben­ché non sia del tutto adatta» (in quanto contempla «le opere d'arte te­nendo conto dei sentimenti [...] che queste opere dovrebbero provoca­re»). Più appropriatamente, bisognerebbe tuttavia parlare, secondo Hegel, di «filosofia delle belle arti».[4] Ma non si capisce per quale motivo i sentimenti che l'opera d'arte provoca o deve per forza provocare do­vrebbero essere una grandezza trascurabile. Senza tali sentimenti non si giungerebbe a ciò che Kant ha chiamato un giudizio del gusto, quin­di all'accordo su cosa meriti d'essere chiamato bello. In quanto segue l'opinione di Kant sarà data per scontata, proprio perché egli si aspet­ta la conferma del giudizio del gusto e quindi l'accordo «non dalle pa­role, ma dall'adesione di altre persone».[5] Il consenso sul giudizio «que­sto è bello» non può essere estorto, e proprio questa impossibilità di strappare il consenso con la forza è essenziale per la relazione estetica.

Io dunque credo, nonostante tutto, che la parola estetica sia adatta per dare alla riflessione su cosa debba essere chiamato bello almeno un nome approssimativo. Con «estetica», intendo quella teoria che si oc­cupa di quanto viene percepito e più precisamente di quanto viene per­cepito come bello. La parola tedesca Wahrnehmung [«percezione»] ha, rispetto al greco “aisthesis” («estetica»), il vantaggio di rinviare alla Wahrheit [«verità»). Questo è decisivo per le riflessioni successive, perché vo­gliamo difendere la tesi secondo cui è proprio il vero che, quando vie­ne percepito in un determinato modo da definire meglio, merita dì es­sere chiamato bello. 

Il bello nel quadro d'insieme 

Domandiamoci innanzitutto in che cosa si distingua quello che vie­ne percepito come bello da altre cose percepite, in che cosa si distin­gua cioè la percezione del bello da altre percezioni. Partiamo dalla per­cezione comune! Essa è, innanzitutto per parlare con Kant, una mera rapsodia del molteplice. Per portare il molteplice nell'unità di una per­cezione, si rende necessaria la ripetizione, a varie riprese, della analo­ga percezione. Solo una serie della medesima - o quasi medesima - indeterminata percezione crea una vera impressione, la rapsodia del mol­teplice si concretizza fino a diventare una vera percezione, il concre­scere si compie verso una unità inconfondibile. Una siffatta percezio­ne ha però bisogno di rifugiarsi a sua volta in una serie di percezioni, per essere una percezione significativa. Una percezione isolata reste­rebbe cieca (un po' come una concezione senza oggetto). Essa richie­de un contesto percettivo, al cui interno soltanto la singola percezione acquista importanza. Un contesto percettivo però si crea soltanto sul­la base di una visione d'insieme, di uno sguardo complessivo, il cui la gico rappresentante sarà il concetto. Solo ora ciò che mi sollecita può essere da me preso per vero. Se la percezione deve significare qualco­sa, in' modo che al di là della semplice affezione [Affizierung] del sog­getto conoscente, qualcosa venga effettivamente veri-ficato [wahr ge­nommen], più precisamente: conosciuto come vero [als wahr genom­men], allora ciò che viene percepito dai suoi va compreso, cioè affet­tato nel contesto che gli è proprio. Primariamente, può essere perce­pito come vero attraverso il rimando ad altro. Gli è necessaria una in­terconnessione.

Se qualcosa viene percepito come bello, quanto sopra è dato come presupposto, ma anche singolarmente relativizzato. La percezione del bello lo attrae dal contesto delle altre percezioni, e precisamente, nella misura in cui considera tale contesto. Ma esso lo considera appunto co­me non ulteriormente degno d'attenzione, come non necessario alla bel­lezza di quanto viene percepito come bello. Il bello è libero rispetto al suo contesto naturale.

Com'è noto, Kant [6] ha perciò parlato, paradossalmente, di una «fi­nalità senza il fine» come propria del bello e alla quale corrisponde, da parte dell'osservatore, il «piacere disinteressato» (ovvero senza un in­teresse che strumentalizza il bello, e quindi senza interesse all'esisten­za del bello nel contesto della realtà - determinato da causalità e fini -e senza interesse per l'utilità pratica). Bello è ciò che esce dal quadro, da questo quadro determinato da causalità e fini. Esso ha, come scrive Hegel, «cancellato la dipendenza da altro. Ma quello che è bello splen­de beato in se stesso».[7]

Ora, è certo che ciò che uscisse in tal maniera dal quadro del nor­male e non si integrasse in un contesto ordinato somiglierebbe piutto­sto alla rapsodia del molteplice, la quale viene prima e sta alla base di ogni percezione che tende a uniformare tale molteplicità. Il bello non sarebbe facilmente distinguibile dal caotico, se la sua caratteristica fos­se soltanto quella di uscire dal quadro della norma. Quel che è total­mente senza contesto può essere registrato soltanto come disturbo, ma non percepito come concreto. Il bello deve dunque entrare nei sensi in maniera tale da rinviare in un modo suo proprio al contesto dal cui qua­dro esso esce. Questo è infatti il caso nella misura in cui il bello supera il contesto di realtà che esso interrompe in qualche modo e rispetto al quale è libero. Il bello supera questo contesto raccogliendolo in sé.

Questo accade in due modi. Innanzitutto creando una particolare qualità della relazione con il soggetto che percepisce. Il bello tiene saldi i sensi, invita a fermarsi. Esso crea quindi una sorta di obbligo di ri­petizione, eliminando così l'impressione del caotico che caratterizza quanto esce dalla norma. Il bello crea un nuovo contesto, perché con­ferisce una nuova qualità al processo stesso della percezione.

Nel contempo, il bello rinvia però anche al contesto rispetto al qua­le rivendica libertà, rappresentando «in qualche modo», per colui che percepisce, l'intero contesto dal quale emerge e contemporaneamente il contesto dal quale emerge colui che lo percepisce e che gli viene in­contro. Nel bello appare una parte per il tutto: esso è una sineddoche. Tuttavia, l'insieme più grande può senz'altro rappresentare la relazione di un esserci distrutto, di una vita priva di senso, cioè la totalità incom­pleta di un'esistenza umana. Su questo fatto dovremo tornare. Comun­que sia, il bello consente, quando viene recepito come tale, di vedere il contesto di vita abituale come «nuovo».[8] Il bello imprime al contesto di realtà sinora visto - che esso interrompe e a cui nega, in tal modo, di essere la verità ultima [9] - un orientamento futuro, a quel futuro che rende pieni e che viene rappresentato anticipatamente nel bello. In quale senso?

Come rappresentante del contesto dal quale esce e del contesto a par­tire dal quale colui che lo percepisce gli viene incontro, il bello ha fon­damentalmente carattere di segno, ha qualità semiotica. Non importa, in questo contesto, se esso debba essere compreso nel senso di una no­ta praesentis rei o piuttosto di una nota absentis rei. (In un dibattito, l'ar­tista Hajek ha sostenuto decisamente la seconda posizione.) Infatti, non è che l'opera d'arte sia un segno (res signiftcans), a cui corrisponderebbe senz'altro una del tutto determinata res significata chiaramente identi­ficabile. Il contesto che esso rappresenta in quanto sineddoche è piut­tosto, da una parte, la totalità del contesto storico di vita in cui l'opera d'arte stessa ha il proprio Sitz im Leben e, dall'altra, l'insieme dei ri­spettivi contesti di vita del possibile soggetto percepente. Quel che vie­ne percepito come bello rappresenta dunque un tutto che determina sempre di nuovo se stesso, ma che inizialmente è ancora indetermina­to. Esso raccoglie il tutto che rappresenta - e precisamente raccoglie il tutto in quanto, al tempo stesso, accoglie l'osservatore - in modo tale che il bello diviene il vertice di una duplice totalità: del contesto dal quale il bello emerge e che rappresenta emergendone, nonché del con­testo dell'esistenza umana che viene interpellata dal bello e che lo per­cepisce come bello. Se chiamiamo il tutto in questione «mondo», l'o­pera d'arte raccoglie il suo mondo. E così facendo, l'opera d'arte con­duce me, l'osservatore, a un vertice del mio mondo, di modo che l'ope­ra d'arte unisce due mondi. Vogliamo chiamare concentrazione del bel­lo questa funzione che riunisce il mondo dell'opera d'arte e il mio. Il bello concentra il tutto dal cui quadro emerge in modo che ne cadono tutti gli aspetti non essenziali. Questa concentrazione crea la cosiddet­ta forma o figura; la quale però forma, elabora e plasma non soltanto la cosiddetta materia, ma anche colui che la percepisce, sebbene in un mo­do a lui consono. Soltanto la concentrazione plasma. In questo senso, bisogna dire che l'opera d'arte opera nell'atto, nell'evento della sua per­cezione che non è distinguibile dalla sua rappresentazione. L'opera d'ar­te agisce concentrando. Il bello è - in ciò non dissimile da quello che gli antichi comprendevano come sacramento - un signum efficax: un segno che crea l'apparenza dell'insieme. Nella tradizione dell'idealismo, vogliamo chiamare la cosa così realizzata la bella apparenza, che non bisogna confondere con la mera apparenza, perché alla sua luce appa­re appunto l'insieme di cui l'opera d'arte è una sineddoche. Il bello è addirittura ciò che maggiormente risplende, l'èkphanestaton. E nel con­tempo il bello raccoglie la mia esistenza dalla sua fattuale dispersione e lacerazione in un vertice che promette integrità alla vita dispersa e lacerata: ciò che maggiormente risplende è anche ciò che maggiormente rapisce, lo è “erasmiotaton.[10] Mentre i tempi passati comprendevano quan­to viene qui preso in considerazione come tutto, come un cosmo dato e in con-chiuso, in cui l'essere umano che percepisce il bello è pro­tetto, l'attuale estetica - se intendo bene - pone l'accento sul fatto che l'opera d'arte fungente da sineddoche rinvia a un tutto che appunto non è (ancora) dato, bensì anzitutto da produrre a un tutto aperto, o an­che solo a una totalità che non c'è, cosicché il tutto appare solo come assente o come un tutto aperto e l'essere umano interpellato dall'ope­ra d'arte viene rinviato esplicitamente alla sua nudità [Ungeborgenheit], alla dispersione e alla lacerazione della sua vita. Ecco perché l'estetica moderna può definirsi proprio come un'estetica del ripugnante. Ma an­che il ripugnante rientra nella categoria del bello come un'espressione del tutto che si manifesta nella parte, foss'anche del tutto di cui si no­ta l'assenza o il ritardo nel venire, ma che si fa notare proprio in que­sto modo. Stando così le cose per l'insieme, il bello soffre la cattività. Ma questa prigionia è - per così dire - la punta più alta della sensazio­ne, perché mediante il bello colui che percepisce viene condotto dai suoi legami naturali e morali verso una libertà che dissolve tali legami. Vogliamo chiamarla libertà estetica e comprenderla come la libertà di una disinibizione elementare che non si lascia condizionare né dal re­gno naturale della causalità, né da quello morale di un agire strumen­tale, ma che proprio in forza di ciò è in grado di esercitare un'enorme influenza sul secondo di questi due regni. Detta disinibizione elemen­tare implica ciò che possiamo chiamare il godimento estetico. In esso, il prigioniero del fascino del bello esperisce se stesso perché dimenti­ca chi è altrimenti e gode di questo oblio di sé. Ma egli ne gioisce solo in m[11]odo da godersi il bello. Egli esperisce se stesso nell'esperienza del bello che lo rende prigioniero.[12]

Il criterio della bella apparenza è dunque un ulteriore effetto del bel­lo. Come signum efficax, il bello influenza colui che lo percepisce come bello: aumenta - potremmo dire con Kant e Schleiermacher, ma anche con Nietzsche - il sentimento vitale. Il bello porta con sé un «sentimento di trasporto della vita» (Kant). Nietzsche chiama l'arte il «grande sti­molante della vita». Questo vale anche quando l'opera d'arte - come il sublime di Kant - scatena un «godimento negativo», facendoci rab­brividire. In ogni modo il bello scatena colui che lo percepisce come bel­lo: si giunge allo disinibizione della gioia, dell'ammirazione, del coin­volgimento emotivo, dello spavento, una disinibizione che è stata defi­nita come un evento molto religioso e che ha portato persino il critico Kant a definirlo come «qualcosa di simile a un sentimento religioso».[13]

La bella apparenza scioglie dunque, dalla parte di colui che perce­pisce, l'ordine della causalità e anche quello dei fini (contrario in ciò a Kant!), a favore di un incontro immediato. Schiller ha perciò parlato di un «terzo, gioioso regno del gioco e dell'apparenza», che «scioglie l'es­sere umano da ogni cosa che si chiama coercizione, sia nel fisico sia nel morale».[14] «Dare libertà mediante libertà è la legge fondamentale di que­sto regno».[15] È la libertà estetica che precede ancora la libera decisio­ne di agire e in questo senso anche la distinzione tra bene e male: la li­bertà in cui non si comincia a fare nulla, perché appunto con il bello non si può e non si deve fare nulla. Come ciò che emerge dal quadro, esso comincia con se stesso e finisce anche con se stesso. Solo come ta­le, esso può avere - e avrà - conseguenze. Le conseguenze saranno sot­toposte poi forse anche alla distinzione morale tra bene e male, quindi alla relazione etica. Ma l'opera d'arte stessa, il bello come tale e con es­so la relazione estetica è al di là (meglio ancora, al di qua) del bene e del male. Come scrive Goethe: «Un'opera d'arte valida potrà e dovrà ave­re conseguenze morali, ma chiedere fini morali all'artista significa ro­vinare il suo prodotto».[16]

L'effetto disinibitorio dell'opera d'arte - la cui origine sta nel condurre in cattività colui che contempla - conferisce alla relazione estetica dell'essere umano un significato teologico. Inibizione e disinibizione del sentimento della vita sono processi marcatamente religiosi. Religioso non significa però necessariamente, in questo contesto, cristiano; anzi, la disinibizione provocata dal bello potrebbe portare a un aumento del sentimento vitale e della pienezza di vita che il cristianesimo identifi­ca, nella loro incontestabile religiosità, con il culto di Baal e che biso­gna confrontare con l'aut-aut di Kierkegaard. Ma peggio: la disinibi­zione provocata dal bello potrebbe essere fraintesa come un tale po­tenziamento del sentimento vitale che fa passare se stesso per poten­ziamento del buono, misconoscendo la propria posizione al di là del be­ne e del male e usando moralmente violenza sia al bello sia a colui che lo contempla. Sarebbe, questo, il moralistico servizio all'idolo sull'alta­re dell'estetica, contro il quale la fede cristiana deve ribadire, nonostante tutti gli epigoni grandi e mediocri di Platone, che bello e buono sono due cose diverse. La percezione del bello non fa affatto un essere mi­gliore (sotto il profilo morale), non in senso stretto.

Ma sarebbe bene non continuare, in questa sede, la riflessione sulla dimensione religiosa dell'azione dirompente del bello. Vogliamo ora piuttosto, ancora una volta, avvicinarci a questo effetto da un altro la­to, chiedendo ancora una volta, di nuovo senza tener conto dell'effica­cia della bella apparenza, del modo dell'apparizione estetica stessa: in quali modi il bello appare come tale? Che cosa costituisce la bella ap­parenza? 

Il bello alla luce del vero 

Partiamo di nuovo dalla percezione. Per percepire qualcosa, questo qualcosa mi deve apparire. L'apparizione di una determinata cosa chia­ramente distinguibile da altre, di una tóde tí presuppone la luce, se non teniamo conto per ora della percezione acustica. Solo alla luce posso distinguere. Anche il senso tattile, che si orienta al buio, presuppone, per poter distinguere la tale cosa dall'altra, le differenze già viste tra que­sta e quella e, quindi, un déjà vu. In modo analogo, anche le altre per­cezioni rinviano alla luce (fosse soltanto perché senza la luce e senza il calore della luce la natura - phüsis - non si potrebbe sviluppare - phüein- e quindi non potrebbe produrre né odori né sapori né suoni). Per que­sto, ha anche un senso se si chiamano apparizioni, fenomeni, tutte le grandezze percepibili dai sensi. L'elemento originario, in cui una cosa appare o diventa visibile, è però la luce.

Ciò va detto in termini espliciti anche per il fenomeno acustico del­la parola o del discorso. Il discorso ha, sia come discorso che appella, sia come discorso che trasmette un'informazione, una funzione emi­nentemente apofantica: il discorso rivela qualcosa, lo mostra; scopre e lascia scoprire. Si è perciò detto che la condizione per la possibilità di una corrispondenza tra il logos e la ragione che lo percepisce è sempre la luce: la luce della ragione. L'uso metaforico dell'espressione luce non deve ingannarci sul fatto che qui si tratta - come nel caso della perce­zione visiva - di un manifestarsi che presuppone un determinato modo di chiarezza e apertura, esprimibile al meglio nel simbolo della luce. La conoscenza dipende, come la percezione, dalla luce.

La luce, in cui una cosa appare, è però di norma diversa da ciò che appare. Alla luce del sole il nostro mondo ci appare pieno di senso. Al­la luce del sole si vedono «le opere incredibilmente sublimi». Per Goethe il sole era perciò identico a Dio, come mostra per esempio il prologo del Faust, riprendendo l'espressione: «Ihr [Der Sonne] Anblick gibt den En­geln Stärke, / Wenn keiner sie ergründen mag; / Die unbegreiflich hohen Werke / Sind herrlich wie am ersten Tag», attribuendola però a Dio: «Der Anblick gibt den Engeln Stärke, / Da keiner dich ergrtinden mag, / Und alle deine hohen Werke / Sind herrlich wie am ersten Tag».[17]

«Ed eccomi già fermo» [Faust, v. 1225]. La luce del sole è, secondo la tradizione biblica, una luce creata da Dio, e in questo senso distinta da Dio stesso. E la luce dell'universo, creata in principio, ancora prima del sole, è la condizione per la possibilità dell'apparizione del mondo e di quanto appare di questo mondo. In questo, essa ha senz'altro una priorità assoluta nel contesto del creato. La luce è, all'interno del co­smo, la prima di tutte le creature. Secondo Gen. 1, la prima delle azio­ni di Dio è la creazione della luce («Sia la luce»). Ma essa è una luce del mondo e, in quanto tale, distinta da Dio stesso. La fede attri­buisce sì una luce anche a Dio, ma la distingue esplicitamente dalla lu­ce creata, riferendo addirittura quest'ultima alla luce propria di Dio, in modo tale che possiamo vedere una luce soltanto alla luce di Dio: «Per la tua luce noi vediamo la luce» (Sal. 36,10).

La luce del primo giorno della creazione e così anche la luce del so­le appartengono dunque al mondo creaturale. Ciò nonostante, essa è di­stinta dalle altre creature della creazione, in quanto condizione per la possibilità della loro apparizione; e questo vuol dire che tutto ciò che appartiene a questo mondo appare in una luce che non si identifica con quanto appare. Esso appare in una luce estranea, in una luce relativa­mente estranea, in un'altra luce. Perciò in questa luce vi sono inganno e percezione sbagliata; cosicché è considerato vero soltanto quanto è identico in intellectu e in re: la veritas è considerata qui come adaequa­tio intellectus et rei.

L'apparizione del bello invece esce, anche in questo senso, dal qua­dro. Il bello, l'opera d'arte, appare sovranamente e non brilla di luce ri­flessa. Certo, esso si percepisce alla luce del sole e dei suoi derivati me­taforici. Ma che esso colpisca i sensi particolarmente e interrompendo il normale contesto percettivo, questo lo deve a una luce che parte dal bel­lo stesso. Il bello appare 'come bello. Il bello brilla e luccica. E bello ap­pare nella luce del suo proprio essere. La sua verità è perciò qualcosa di diverso dalla corrispondenza tra intellectus e res, che si basa sull'im­possibilità di sbagliare. Nell'apparizione del bello si innesta originaria­mente la verità e nell'opera d'arte la verità stessa si inserisce nell'ope­ra.[18] Nella bella apparizione dell'opera d'arte la verità riluce, irradia. Ri­luce e irradia, perché la percezione del vero qui non accade nella luce riflessa, ma nella luce propria dell'essere. Anche qui «la bellezza non esiste accanto a questa verità».[19] La bellezza è piuttosto l'apparizione dell'ente di ciò che è nella luce del suo proprio essere e come tale è il ri­lucere della verità, perché la verità è originariamente, prima di scade­re ad adaequatio intellectus et rei, cioè alla giustezza della conoscenza, proprio questo: l'ente si fa presente a se stesso. Essere vero significa es­sere presente a se stesso e proprio perciò luminoso. Ciò vale somma­mente per la musica, nella misura in cui la sua verità non sta nella cor­rispondenza tra intellectus e res, ma solo nell'evento dei suoni. L'opera d'arte musicale è nella massima misura realtà presente a se stessa: ir­radia nella maniera più pura luce del suo proprio essere. Ma in linea di massima, ogni opera d'arte, ogni cosa bella, si caratterizza così. Pos­siamo dire la stessa cosa con una massima della scolastica [20] (che si ri­trova poi in James Joyce): il bello è lo splendore del vero. La frase risa­le a Platone, che dice nel Fedro, a proposito della giustizia e di molte al­tre cose che gli devono onorare, che a esse non appartiene alcuno splen­dore (ouk énesti phengos), mentre proprio il bello è ciò che maggiormen­te risplende (più brillante) e (perciò) ciò che maggiormente rapisce è l’ekphanestaton kai erasmiotaton.[21] O per dirla con Novalis: «Il bello è il visibile kat’exoken».[22]

Ma ora si tratta, specialmente per il teologo, di stare attenti da più d'un punto di vista. Innanzitutto, dobbiamo chiarire in qual misura qual­cosa possa apparire nella luce del suo proprio essere e dobbiamo di­stinguere il concetto di rivelazione, che qui s'impone, dalla rivelazione di Dio. Dobbiamo poi considerare che il bello è un'apparizione condi­zionata storicamente e che esso è quindi bello solo come apparizione effimera. Dobbiamo infine riprendere tutta la riflessione svolta finora considerando l'aspetto che la fede cristiana confessa a proposito di Dio: egli è apparso in questo mondo e nella sua luce. Quale relazione inter­corre tra questa epifania e l'apparizione del bello?

Ci interroghiamo innanzitutto sulla possibilità da parte di un ente di apparire nella luce del suo proprio essere. Che qualcosa appaia nella lu­ce del sole sembra plausibile. Che la conoscenza avvenga nella luce del­la ragione è plausibile almeno come discorso metaforico. Ma in qual sen­so si può dire che qualcosa appare nella luce del suo proprio essere?

La tradizione filosofica classica sembra avere avuto in mente qual­cosa di simile quando ha affermato: «Il bello [...] deve essere vero in se stesso [perché] il bello si definisce [...] come l'apparire sensuale dell'i­dea».[23] Ma il sapere tradizionale rimane insufficiente finché non si rie­sce a chiarire come e da dove l'ente possa essere dotato di luce in mo­do tale da apparire in questa luce. In che misura si può attribuire all'o­pera d'arte, al bello, questo splendere beato in se stesso?

Nella misura in cui la tradizione risponde ancora a questo interro­gativo, le sue sono risposte teologiche. Così, Schelling dice per esempio che «l'universo è formato in Dio come eterna bellezza e assoluta opera d'atte».[24] Dietro ciò sta la concezione della scolastica secondo cui Dio aveva pensato il proprio concetto di creazione del mondo prima di met­terlo a effetto. Ogni cosa creata è, in questo senso, sempre già una co­sa pensata, ovvero una cosa pensata dall'intellectus divinus. Il divino in­tellectus , però, è considerato l'incarnazione della luce creatrice inesau­ribile. È una luce creatrice che vince il non-essere e che si comunica a ciò che emerge dal non-essere. Perciò tutto ciò che è creato ha parte alla luce divina dalla quale è emerso. Josef Pieper ha descritto ciò in que­sti termini, sulle orme di Tommaso d'Aquino: «Le cose hanno la loro in­telligibilità, la loro limpidezza interiore, luminosità e rivelazione per­ché Dio le ha pensate [...]. Questa lucentezza, e solo questa, rende le co­se esistenti percepibili per la conoscenza umana. In un commento del­la Scrittura, Tommaso dice: "Quanta è la realtà che una cosa ha, tanta è la sua luce". E in un'opera tardiva, nel commento del Liber de causis, è una frase profondissima che formula lo stesso pensiero in un prover­bio mistico: "Ipsa actualitas rei est quoddam lumen ipsius", ovvero l'es­sere reale delle cose è esso stesso la loro luce. L'essere-reale delle cose, inteso come l'essere creato! Ma questa luce è quella che rende le cose visibili per i nostri occhi».[25] Poiché e nella misura in cui le cose pro­vengono dalla luce creatrice inesauribile dell'intellectus divinus, queste possono dunque rendere se stesse percepibili. Esse non hanno la loro verità soltanto nella adaequatio intellectus humani nei loro confronti, ma portano già la loro verità, per via della loro provenienza dall'intel­lectus divinus.

«Eccoci!», verrebbe voglia di commentare questa straordinaria me­tafisica. «Ma le cose, non stanno così», perché si vede in questo mondo «solo coloro che sono nella luce, quelli che sono al buio non si vedo­no»,[26] anche se dovrebbero apparire nella luce del loro proprio essere. Tuttavia potremmo leggere nelle idee della metafisica antica (prescin­dendo da tutte le narrazioni storiche) almeno un indizio che le cose di questo mondo appaiono in un'altra luce quando appaiono nella luce del sole e quindi nella luce di questo mondo; vale a dire in una luce diver­sa dalla,propria. Non contesteremo, al cospetto del bello, che ciò che è possa luccicare, che cioè le cose abbiano - se provengono dal Dio a cui il Nuovo Testamento attribuisce una luce inaccessibile (I Tim. 6,16) - una luce propria, che è stata data loro in questo processo creatore del­l'uscire da Dio. Ma nel mondo caduto non riterremo inaccessibile sol­tanto la luce divina stessa, bensì anche quella che è originariamente propria delle creature, perché per il mondo caduto l'origine creatrice ri­mane nascosta in una luce inaccessibile. Non si vede che il mondo è creatura di Dio. La luminosità del mondo caduto è troppo brutale: la luce del mondo è più forte della luce creatrice di Dio. Nella creazione caduta non solo il creatore, ma anche le creature, in quanto tali, sono di solito nascoste. La loro apparizione terrena è un'apparizione in un'al­tra luce, nella luce del mondo. Questo vale anche per le realtà prodotte dall'essere umano, e precisamente per la realtà prodotta senza una diretta o indiretta imitazione della natura. Infatti, l'essere umano, che nel­la sua capacità poietica non solo di una seconda natura, ma anche di fare di se stesso un secondo dio,[27] vive a sua volta della luce del sole e perciò può dare alle sue realizzazioni soltanto i suoi riverberi, solo una luce riflessa, non già la luce creatrice che supera il nulla. Di questa lu­ce le opere umane non hanno parte come opere di un deus alter, ma so­lo ed esclusivamente perché anche nelle opere umane opera il vero e unico Dio. Ma proprio questa partecipazione alla luce creatrice origi­naria è nascosta nella creazione caduta, perché essa viene abbagliata dalla luce del mondo. Solo per il tempo escatologico della veniente si­gnoria di Dio si annuncia in Is. 60,10 s. e Apoc. 21,23 che nella polis di Dio non dovranno più splendere il sole e la luna, «perché lo splendore di Dio li illumina». Significa: l'ente sarà vero in quanto tale ed effetti­vamente varrà: factum et verum convertuntur.

Nel nostro mondo c'è però bisogno di particolari eventi di rivelazio­ne perché qualcosa possa apparire e splendere nella luce del proprio es­sere. Rivelazione è per definizione un evento estetico. Ma sopra ogni ri­velazione risplende nel contempo l'altra luce, la luce del mondo rifles­sa. Ecco perché, se sopra di essa splende la luce del mondo, nessuna epifania può essere l'apparizione immediata della verità. L'apparizione nella luce del proprio essere, che noi attribuiamo al bello, può accade­re, nelle condizioni del nostro mondo, solo come bella apparenza, come apparizione del bello. Il bello però è solo un primo barlume della verità che viene. Nel bello, la verità si mette all'opera solo in maniera indiret­ta. In questo senso, il bello porta però in sé la promessa di una verità che viene, di un non mediato incontro futuro con la verità in sé. Schil­ler lo dice tranquillamente e proprio perciò con la pretesa di dire la ve­rità: «Was wir als Schönheit hier empfunden / Wird einst als Wahrheit uns entgegengehn».[28] Nel bello riluce sin d'ora un primo barlume del­la verità. Sulla scia del «Regno di Vaduz sul granaio di Francoforte» di Clemens von Brentano e dell'«Isola di Orplid» di Eduard Mörike, Ern­st Bloch ha parlato del «tentativo di articolare un contenuto utopico di speranza» e di una «porta mattutina del bello», cui sarebbe propria «la serietà di un primo barlume del reale possibile».[29] Egli sottolinea, non a torto, che il bello è una prima apparizione rivolta verso uno scopo e in questo senso una caparra sulla verità, lontano da tutti gli «infantilismi e arcaismi di bei giochi».[30] In questo senso, Schiller ha trovato in Blo­ch il moderno e attuale portavoce della sua causa. L’incontro immedia­to con la verità non fa che annunciare il bello. Ecco perché il bello, quan­do è un primo barlume della verità, esce dal quadro del reale che splen­de esclusivamente nell'altra luce e in nessun modo nella luce del pro­prio essere. Per questo motivo, perché è un primo barlume della verità, il bello è l'apparizione più splendente di tutto, lo ékphanestaton.

Ma la verità - persino quando si tratta solo del suo primo barlume - è sempre un'interruzione chiara del nostro contesto di realtà. All'inter­no della nostra realtà possiamo essere più o meno vicini alla verità, ma non possiamo immediatamente percepirla. La percezione, cioè il pren­dere qualcosa per vero, ha sempre bisogno di un'intermediazione. Pro­prio per questo non si può mai possedere la verità, non la si può ac­quistare. Schiller ha detto il necessario anche su questo: «Weh dem, der zu der Wahrheit geht durch Schuld / Sie wird ilun nimmermehr er­freulich sein».[31]

Come primo barlume di verità, il bello sta d'altra parte davvero - co­me sineddoche - al posto dell'intero contesto di realtà che esso inter­rompe, perché la verità mira sempre al tutto. Il tutto, che appare nel bello sotto la forma di un punto culminante della totalità, è però sol­tanto il tutto di un mondo effimero e quindi mortale; anzi, in termini concreti esso è soltanto il tutto di un mondo esperito storicamente o il tutto limitato alla percepibilità storica. Vogliamo rendere ciò evidente rivolgendo l'attenzione ancora una volta alla relazione con la totalità.

Avevamo detto che il bello interrompe il contesto di realtà uscendo dal quadro di questo contesto e rinviando, d'altra parte, sineddochica­mente al contesto dal cui quadro esce: esso rappresenta il tutto, appa­rendo come il suo punto culminante. Ma sinora non avevamo pensato al concetto di totalità. Avevamo detto soltanto che si tratta di una ambigua, e dunque doppia totalità; cioè tanto del contesto storico nel quale il bel­lo o l'opera d'arte hanno il proprio Sitz im Leben, quanto anche del con­testo di vita di colui che percepisce il bello come vero. Ma già il termine di totalità doppia rinvia a un'aporia logica della totalità: se la totalità può essere raddoppiata, essa sembra essere a sua volta solo una metà e quin­di non un tutto. Noi abbiamo pur sempre a che fare soltanto con un tut­to relativo. L'ente in quanto tale, nella sua totalità, non è invece rappre­sentabile da un solo ente. E senza il concetto di un creatore del tutto che relativizza a sua volta questo concetto di «totalità», la «totalità» non sa­rebbe altro che una smisurata estensione di molte parti. Se vogliamo dun­que parlare ragionevolmente e criticamente del tutto, dobbiamo com­prendere l'universo creato come quel tutto che, da una parte, viene rela­tivizzato dal suo creatore - il quale, in quanto creatore, mai può essere parte del tutto - e che, dall'altra parte, relativizza se stesso, perché è sem­pre esperibile solo come un tutto - vale a dire come un determinato in­sieme - mai però come il tutto. «L'immediata presenza dell'Esserci indi­viso totale» si schiude soltanto quando si rivela il creatore del tutto. Di conseguenza, anche la verità, se il tutto deve essere il vero (Hegel), può apparire solo relativizzata nel contesto dell'essere creato, solo come ve­rità di un tutto, ma non del tutto. Solo nell'apparizione del creatore, l'en­te come tale sarebbe nel tutto anche presente a se stesso e trasparente.

Tutto ciò ha la conseguenza per il bello che esso può rappresentare sempre solo un tutto, una totalità relativizzata, quando appare sotto il sole e anche nella luce del suo proprio essere. Il bello è, per l'appunto, solo un barlume della verità che riluce in esso. E anche da questo pun­to di vista converrà ancora limitare il discorso, perché - come abbiamo detto - il bello è il punto culminante di un tutto che esso rappresenta come sineddoche. Ma non solo il tutto, non solo l'esistente come tale nell'insieme, ma anche un insieme, anche ogni contesto storico di vita e di realtà, ha molti punti culminanti. Come un vertice di un tutto, di cui è una pars pro toto, il bello, l'opera d'arte, è secondo la sua essenza finito e perituro. Anzi, il bello è nel modo più eclatante il rappresentan­te di una realtà effimera e in questo è, a sua volta, effimero. Se volesse perdurare ed essere immortale, il bello si identificherebbe con la verità, assolutizzandosi (ideologicamente) e allora sarebbe diabolico. La bella apparenza, proprio perché è solo un barlume del vero, deve appassire, affinché il vero stesso possa venire e apparire. «Auch das Schöne muβ sterben! [...] Siehe! Da weinen die Götter, es weinen die Gòttinnen al­le, / Dati das Schtine vergeht, dati das Vollkommene stirbt». [«Anche il bello deve morire! [...] Vedi! Piangono gli dèi, piangono le dèe tutte, / che il bello appassisce, che il perfetto muore»]. Ma Schiller continua: «Auch ein Klaglied zu sein im Mund der Geliebten, ist herrlich, / Denn das Gemeine geht klanglos zum Orkus hinab» «Anche d'essere un'ele­gia nella bocca dell'amata, è splendido, / poiché sono le cose volgari che scendono all'Orco senza lamento».[32] 

Essere nella gloria: fine dell'ambiguità 

Secondo l'autocomprensione della fede cristiana, vi è una sola ap­parizione di verità che - con tutti i parallelismi con la bella apparenza del vero - segue una legge diversa. Questa apparizione è la rivelazione di Dio. Essa si distingue dalle epifanie del bello per il fatto che in que­sto evento appare l'origine di ogni luce, e precisamente appare in modo tale che essa non brilla nella luce del mondo come il bello, bensì appa­rire nascosta sub contrario. Ecco perché l'evento della rivelazione non può rientrare nella categoria del bello. Per questo era troppo ripugnante il peccato con il quale Dio ha identificato colui che non conduce pec­cato - a vantaggio! - dei peccatori. Bisognerà qui ricordare il Servo di Dio di cui parla Isaia: «[...] non aveva forma né bellezza da attirare i nostri sguardi, né aspetto tale da piacerci. Disprezzato e abbandonato dagli esseri umani, essere umano di dolore, familiare con la sofferenza, pari a colui davanti al quale ciascuno si nasconde la faccia [..1» (Is. 53,2 s.). La rivelazione di Dio in Gesù Cristo cancella ogni bella apparenza. La deve cancellare perché non è barlume della verità, ma la verità stes­sa. Però, questa verità accade, secondo la comprensione del Nuovo Te­stamento, fondamentalmente come crisi. Lo fa mettendo il mondo non solo di fronte alla propria mortalità, ma anche alla fine che merita e al­la meritata vergogna. Lo fa, come dice Paolo, dipingendo «Cristo cro­cifisso» (Gal. 3,1). Che questa morte abbia fatto scaturire da sé la vita del Risorto, promettendo così ai mortali la vita eterna sotto forma di vi­sio beatifica e quindi di una visione del tutto libera, faccia a faccia con Dio, è una cosa che non si vede in questa morte. Infatti, in questa mor­te opera, secondo i testi del Nuovo Testamento, l'amore di Dio, il quale non si infiamma (come l'amor hominis) nei confronti del bello, bensì rende bello colui che è ripugnante, cioè lo homo peccator che sfigura se stesso, amandolo.[33] In quanto evento dell'amore di Dio, la morte di Ge­sù Cristo è il contrario di ciò che sembra essere. La croce di Gesù Cri­sto non rivela che in questa morte accade l'unità di vita e morte a favo­re della vita, che merita di essere chiamata amore.

Per questo, è necessaria una nuova venuta di Colui che è già venuto sub contraria specie. È perciò necessaria la risurrezione di Gesù Cristo dai morti; cioè la venuta pasquale del Signore nella gloria e pure nella luce integrale del suo proprio essere. Da una siffatta venuta, dalla rivelazione pasquale di Gesù Cristo nella gloria - ophthe! («è stato visto!») -è nato il Nuovo Testamento ed è nato perché deve annunziarci che «sa­remo anche partecipi di una risurrezione simile alla sua» (Rom. 6,5); cioè che anche noi splenderemo nella luce del nostro proprio essere, che ora ci è ancora profondamente nascosto (cfr. Col. 3,3 s. con I Giov. 3,2). Allora avrà fine ogni apparenza, perché la luce dell'essere proprio non dovrà più competere con altra luce. Allora l'ambiguità che sovrasta il bel­lo, poiché esso appare tanto nella luce estranea del mondo quanto in quella del proprio essere, avrà fine. Allora nulla dovrà più apparire, per­ché al posto dell'apparizione vi sarà l'essere nella gloria. E questo signifi­ca per la vita di coloro che percepivano: allora la nostra vita diventerà una vita liberata, potenziata nella sua verità, allora il nostro esserci, insieme alla totalità di ciò che insiste, sarà integralmente presente a se stesso e trasparente. Allora, verità e bellezza saranno identiche e l'essere umano, che non dovrà più interrompere il rapporto vitale per apparire, sarà re­dento per sempre. Allora! Ma qui e ora il bello rimane per il momento so­lo il barlume - che appare a intervalli - del vero, del quale bisogna dire con Schopenhauer, che esso salva l'essere umano «non per sempre, ma solo a momenti».[34] L'esperienza del bello, che rende integra (come splen­dore del vero) la vita lacerata, può essere, in un contesto di mondo ca­ratterizzato da menzogne esistenziali e schiavitù, solo un'esperienza che lo interrompe. Essere integri (essere eterni) in un attimo, per poi torna­re nel contesto interrotto della vita, nel migliore dei casi tornarvi cam­biati e migliorati: ecco il massimo che ci promette una relazione esteti­ca. Se vogliamo che essa sia qualcosa in più, se rifiutiamo dunque l'a­mara constatazione che anche il bello deve morire, allora la relazione estetica diventa necessariamente nemica del vero.

Se mi è concessa un'osservazione teologica sulla relazione estetica (nel caso ce ne debba o ce ne possa ancora essere una), questa dovreb­be essere la doppia constatazione: da una parte, solo quando rinvia al­la verità merita di essere chiamato bello, e solo là dove la verità diven­ta opera, si può parlare di un'opera d'arte; ma nel contempo bellezza e arte sono antagoniste tanto benvenute quanto pericolose del kerygma cristiano, perché esse anticipano nella bella apparenza ciò che la fede deve annunciare senza alcuna bella apparenza e in precisa contrappo­sizione a tale apparenza, cioè l'ora della verità. 

(Eberhard Jüngel, Possibilità di Dio nella realtà del mondo. Saggi teologici, Claudiana 2005, pp.293-310: saggio 17)


[1] J. RITTER, articolo Ästhetik, in: Handwórterbuch der Philosophie I, 1971, p. 571.

[2] G.E. LESSING, Laokoon, c. 26, in: Werke V, a cura di P. RILLA, 1955, p. 190. E anche di que­sto bisognerà tener conto, che un essere umano non dotto può avere ugualmente un ingenium estetico, mentre uno spirito dotto potrà sembrare rozzo allo stesso proposito. Cfr. A.G. BAUM­GARTEN, Aesthetica (1750), § 53, citato da H.R. SCHWEIZER, Ästhetik als Philosophie der cher Erkenntnis, 1973, p. 138: «Potest ineruditus esse ingenii, etiam aesthetici, admodum poli­ti, sicut eruditus ingenii, qua pulchritudinem spectat, satis rudis». 

[3] Cfr. ora, a tale proposito, H.R. JAUSS, Ästhetische Erfahrung und literarische Hermeneutik, 1982.

[4] G.W.F. HEGEL, Ästhetik, a cura di F. BASSENGE, 1955 [ed. Estetica, Torino, Einaudi, 1977]. Un atteggiamento di totale rifiuto è quello di A.W. SCHLEGEL, perché il discorso sull'e­stetica «tradisce, un'uguale assoluta ignoranza dell'oggetto designato e del linguaggio che de­signa» (J. RITTER, articolo Ästhetik cit., 565).

[5] I. KANT, Kritik der Urteilskraft, § 8, in: Akademie-Textausgabe V, 1913, p. 216 [ed. it. Criti­ca del giudizio, Roma-Bari, Laterza, 2002].

[6] Ivi, §§ 2-5, pp. 204-211.

[7] G.W.F. HEGEL, op. cit., p. 148.

[8] H. R. JAUSS, op. cit., p. 39.

[9] Non so se si debba perciò affermare con Th.W. ADORNO (Ästhetische Theorie, in: Gesammelte Schriften VII, 1970, p. 264) che ogni opera d'arte è a priori polemica: «Tutte le opere d'ar­te [...] sono a priori polemiche [...] Separandosi enfaticamente dal mondo empirico, cioè dal loro altro, esse rendono pubblico che esse stesse vogliono diventare diverse [...]» [ed. it. Teoria estetica, Torino, Einaudi, 1978].

[10] Cfr. M. HEIDEGGER, Nietzsche I, in: Gesamtausgabe 11/43, 1985, pp. 241 ss. (ed. it. Nietz­sche, Milano, Adelphi, 19943); Platone, Fedro, 250d.

[11] H.R. JAUSS (op. cit., pp. 84 s.) ha giustamente difeso il godimento estetico, che egli defi­nisce come «autogodimento nell'eterogodimento», contro i più colti tra i suoi denigratori. L’af­fermazione secondo la quale il godimento estetico costituisce «un modo di esperire di se stes­si nell'esperienza dell'altro» dovrebbe essere circoscritta con precisione all'esperienza dell'o­blio di se stessi nel senso di una disinibizione elementare. In qual misura l'esperienza estetica di disinibizione estetica implichi la triplice caratterizzazione che Jauss (op. cit., pp. 88 s.) at­tribuisce al godimento estetico, resta da verificare: «Un comportamento di godimento esteti­co, che è contemporaneamente liberazione da e liberazione per qualcosa, può svolgersi in tre funzioni: per la coscienza producente nella creazione di universo come opera propria (poie­sis), per la coscienza della ricezione nel cogliere l'occasione di un rinnovamento della propria percezione della realtà esteriore e interiore (aisthesis), e infine - con ciò l'esperienza soggetti­va si apre verso quella intersoggettiva - nel consenso con un giudizio richiesto dall'opera o nel­l'identificazione con nonne predisposte dell'agire, che si tratta di determinare meglio (cathar­sis)».

[12] F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente. Anfang 1888 bis Anfang Januar 1889, in: Werke. Kritische Gesamtausgabe VIII/3, a cura di G. COLLI e M. MONTINARI, 1972, p. 203.

[13] I. KANT, op. cit., p. 482.

[14] F. SCHILLER, Über die ästhetische Erziehung des Menschen, 27. Brief, in: Sitmtliche Werke V, a cura di G. FRICKE e H.G. GÖPFERT, 19674, p. 667.

[15] Ibid. H.R. JAUSS (op. cit., p. 40), fa valere la stessa cosa dal punto di vista temporale: l'e­sperienza estetica «toglie la coercizione del tempo nel tempo».

[16] J.W. v. GOETHE, Dichtung und Wahrheit 12, in: Goethes Werke, ed. commissionata dalla granduchessa Sofia di Sassonia, sez. 1, vol. XXVIII, 1890 (rist. 1975), p. 148.

[17]  [«La vista sua [del sole] dà forza agli angeli / se anche è impossibile fissarlo a fondo. / Le immense opere incomprensibili splendono come nel primo giorno»; Faust, Prologo, w. 247­250. «La vista tua [di Dio] dà forza agli angeli / se anche è impossibile fissarti a fondo. / E tut­te le immense tue opere I splendono come nel primo giorno»; ivi, w. 267-270]. Cfr. E. STAIGER, Goethe und das Lìcht. Vier Vortrage zum Goethe-Jahr 1982, 1982, pp. 13-15.

[18] Cfr. M. HEIDEGGER, Der Ursprung des Kunstwerks, in: Gesamtausgabe 115, 1977, pp. 21 ss. [ed. it. L'origine dell'opera d'arte, in: Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968].

[19] Ivi, p. 69.11 concetto di opera qui tematizzato ha però i suoi lati problematici, perché la «dissoluzione dell'unità tradizionale dell'opera [...] può essere identificata come un tratto co­mune dell'epoca moderna. Coerenza e autonomia dell'opera vengono consapevolmente messe in discussione o addirittura distrutte» (R. BUBNER, (Über einige Bedingungen gegenwartiger Asthetik, in: "Neue Hefte für Philosophie" 5, s.d., p. 49). È perciò raccomandabile utilizzare il concetto di opera così come si impone quasi nell'ottica della teologia protestante: non l'opera - per quanto «perfetta» - giustifica la verità, ma la verità giustifica l'opera, per quanto «im­perfetta».

[20] Cfr. U. Eco, Le poetiche di Joyce, Milano, Bompiani, 1966.

[21] PLATONE, Fedro, 250b, 250d. Splendore significa qui solo la bella apparenza. Nelle con­dizioni in cui si ha luce nel mondo, la verità può brillare solo nel modo di un primo barlume, che diventa caduco solo nello splendere escatologico della verità, perché solo allora il vero sarà bello in quanto tale, e il suo splendore la sua immediata espressione. Nelle condizioni in cui si ha luce nel mondo invece vale che anche il bello ha un'ombra.

[22] NOVALIS, Poëticismen, in: Schriften a cura di R. SAMUEL, 1981, p. 540.

[23] G.W.F. HEGEL, op. cit., p. 117.

[24] F.W.J. SCHELLING, Philosophie der Kunst, in: Sämtliche Werke V, a cura di K.F.A. SCHEL­LIMP, 1859, p. 386.

[25] J. PIEPER, Unaustrinkbares Licht. Das negative Element in der Weltansicht des Thomas von Aquin, 19632, pp. 26 s. Cfr. TOMMASO D'AQUINO, commento a I Tim. 6,4 e commento al Liber de causis 1,6.

[26] Allusione a B. BRECHT, Opera da tre soldi.

[27] Così almeno comprendo la definizione di poeta data da J.C. SCALIGERO, Poetica I,1, 1561. Secondo G. PICO DELLA MIRANDOLA (De dignitate hominis, Respublica literaria I, a cura di DYCK e G. LIST, 1968, p. 28), l'essere umano è «[sui] ipsius quasi arbitrarius honorariusque plastes et fictor» («[di se] stesso in certo qual modo modellatore e creatore arbitrario e onora­rio»). H.R. JAUSS (op. cit., pp. 111 ss.) ha stabilito una linea di pensiero convincente da questa interpretazione dell'essere umano poietico verso l'interpretazione vichiana della tesi: «Verum et factum convertuntur» (Cfr. G. Vico, De Antiquissima Italorum Sapientia, c.1; cfr. in partico­lare c. 8, § «et factum et verum, cum verbo convertuntur»; in: Opere di Giambattista Vico, vol. I, Napoli, ed. Orazioni Accademiche di G. Vico di F.S. Pomodoro, 1858).

[28]  [«Quel che qui abbiamo visto come verità, un giorno ci verrà incontro come verità»]. F. SCHILLER, Die Künstler, in: Sämtliche Werke I, a cura di G. PRIME e H.G. GOPFERT, 19806, p. 175.

[29] E. BLOCH, Das Prinzip Hoffnung, in: Gesamtausgabe V, 1959, pp. 108 s. [ed. it. Il principio speranza, Milano, Garzanti, 1994].

[30] Ivi, p. 109.

[31]  [«Guai a colui che va dalla verità attraverso la colpa; / essa non gli sarà mai una gioia»]. E SCHILLER, Das verschleierte Bild zu Sais, in: Sämtliche Werke I cit., p. 226. L'affermazione di Nietzsche «Abbiamo l'arte per non morire della verità» (op. cit., p. 296) rinvia, nonostante l'ap­parente affinità con l'idea di Schiller, in una direzione del tutto diversa, nel senso che la verità qui significa il soprasensibile, che ruba al sensuale la sua forza vitale, mentre l'arte è conside­rata «il grande stimolante della vita» (ivi, p. 15). Cfr. M. HEIDEGGER, op, cit., pp. 87 s.

[32] F. SCHILLER, Nänie, in: Sämtliche Werke I cit., p. 242. L'arte deve essere fatta splendere proprio «verso il lato della sua più alta destinazione», cioè fare splendere l'idea e di conse­guenza la verità. Certamente non, come pensava HEGEL (op. cit., p. 22), «per una cosa passata» il cui posto è stato preso dalla filosofia del concetto; ma l'arte e il bello sono per noi una cosa transitoria.

[33] Cfr. M. LUTERO, Heidelberger Disputation (1518), in: WA 1,365,11 s.

[34] A. SCHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vorstellung, in: Sämtliche Werke I, a cura di W. V. LÖHNESEN, 1961, p. 372 [ed. it. Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano, Mursia, 1990].