«Anche il bello
deve morire»
La bellezza alla luce della verità
Osservazioni teologiche sulla relazione estetica
Eberhard Jüngel
Alcune osservazioni teologiche sulla relazione estetica dell'essere umano non condividono solo il rischio di tutte le dichiarazioni che osano affermare qualcosa di valido su che cosa sia l'estetica: cioè che cos'è e con che cosa dovrebbe avere a che fare l'estetica. Oggi la possibilità di tali cognizioni è problematizzata già a priori. Osservazioni teologiche su questo argomento sono anch'esse tanto più discutibili, perché, a partire dal XIX secolo, l'estetica o l'opera d'arte sembrano essere subentrate al posto della religione e della teologia. Infatti, l'arte è considerata - e non solo dai tempi di Wilhelm von Humboldt - «il più adeguato "simbolo della divinità". [...] Sotto forma di riflessione filosofica e della sua traduzione estetica, la relazione estetica comincia a subentrare al posto della religione fondamentale [...] e a ricondursi a quest’ultima».[1] Una realtà da tempo ereditata da altri intende - in modo, per così dire comico - ragionare post festum su questi eredi. L'impresa diventa ancor più comica quando essa porta per forza di cose, nonostante il monito di Lessing, a «ragionare sull'arte in soli termini generici», perché questo può «portare a stramberie che uno troverà prima o poi, a sua grande vergogna, confutate nelle opere dell'arte».[2]
Sono consapevole di questa comicità. Ma poiché la comicità è anch'essa un fenomeno estetico, mi considero almeno in parte giustificato se oso proporre in queste righe quanto da altri considerato doppiamente impossibile, ovvero alcune riflessioni teologiche sulla relazione estetica dell'essere umano.
Relazione estetica. Definizione del concetto
Parlo di una relazione estetica per distinguerla da altre relazioni in cui l'essere relazionale «uomo» esiste. Presuppongo, in questo contesto, come conoscenza cui non servono ulteriori giustificazioni, che l'essere umano è costituito nella sua umanità da una relazione con se stesso, con il mondo e con Dio, nessuna delle tre potendo concretizzarsi autonomamente, ma sempre soltanto in una sorta di pericoresi con le altre due. I modi in cui si realizzano queste relazioni fondamentali, nelle quali l'essere umano è quel che è, possono essere a loro volta molto diversi: innanzitutto già dal punto di vista del carattere dominante di una di queste tre relazioni; cioè a seconda che sia dominante il mio comportamento nei confronti di Dio o del mondo, e quindi la mia relazione con me stesso, oppure del mondo (come comportamento delle sue componenti) nei miei confronti e quindi con Dio. Ma il modo di realizzazione di queste relazioni fondamentali può essere anche differenziato secondo criteri del tutto diversi: cioè a seconda delle distinzioni elementari a cui io sono esposto in questo processo. Posso, per esempio, essere esposto alla distinzione elementare tra bene e male, se mi rapporto al mondo, a Dio o a me stesso. In tal caso, vogliamo parlare di una relazione morale. Posso, però, anche essere esposto alla distinzione elementare tra sacro e profano, o tra santità e peccato. In questo caso, vogliamo parlare di una relazione religiosa. Vi è ancora tutta una serie di tali distinzioni elementari, che costituiscono ogni volta una relazione particolare, la quale determina o codetermina poi la rispettiva realizzazione delle tre relazioni fondamentali (Dio, mondo, noi stessi). Una di queste distinzioni è quella tra bello e non bello (non bello anziché brutto: il brutto è una perversione del bello e ne fa parte). In questo ultimo caso, vogliamo parlare di una relazione estetica. Con questa espressione si pensa di solito alla relazione con il cosiddetto bello nell'arte; ma
ciò non esclude che si tenga conto anche delle cosiddette bellezze della natura. Punto di partenza fenomenologico è il bello che si vede. In qual misura le affermazioni a proposito di questa bellezza valgano anche per il bello dell'udito e dell'odore - valgono! - non verrà discusso in questa sede. Il concetto di relazione estetica si orienta lungo le funzioni vitali e mondane del bello artistico, così come anche la relazione morale e la relazione religiosa. Se nella relazione estetica domini il comportamento produttivo, ricettivo o comunicativo, non è una questione fondamentale. Decisivo è che nella definizione della relazione estetica si tenga conto di tutti gli «sforzi dell'esperienza estetica».[3]
II sostantivo estetica verrà usato, in quanto segue, innanzitutto in maniera generica. Formato in origine nella Scuola di Wolff come termine tecnico della teoria delle scienze - nei suoi corsi universitari del 1742, pubblicati nel 1750 sotto il titolo Aesthetica, A.G. Baumgarten propone una “epistéme aisthetiché” («scienza estetica») - l'espressione divenne rapidamente una parola corrente. Come osserva Hegel all'inizio delle sue lezioni di estetica, «la parola è entrata nel linguaggio comune». Proprio per questo essa può, secondo Hegel, essere mantenuta come tale, «benché non sia del tutto adatta» (in quanto contempla «le opere d'arte tenendo conto dei sentimenti [...] che queste opere dovrebbero provocare»). Più appropriatamente, bisognerebbe tuttavia parlare, secondo Hegel, di «filosofia delle belle arti».[4] Ma non si capisce per quale motivo i sentimenti che l'opera d'arte provoca o deve per forza provocare dovrebbero essere una grandezza trascurabile. Senza tali sentimenti non si giungerebbe a ciò che Kant ha chiamato un giudizio del gusto, quindi all'accordo su cosa meriti d'essere chiamato bello. In quanto segue l'opinione di Kant sarà data per scontata, proprio perché egli si aspetta la conferma del giudizio del gusto e quindi l'accordo «non dalle parole, ma dall'adesione di altre persone».[5] Il consenso sul giudizio «questo è bello» non può essere estorto, e proprio questa impossibilità di strappare il consenso con la forza è essenziale per la relazione estetica.
Io dunque credo, nonostante tutto, che la parola estetica sia adatta per dare alla riflessione su cosa debba essere chiamato bello almeno un nome approssimativo. Con «estetica», intendo quella teoria che si occupa di quanto viene percepito e più precisamente di quanto viene percepito come bello. La parola tedesca Wahrnehmung [«percezione»] ha, rispetto al greco “aisthesis” («estetica»), il vantaggio di rinviare alla Wahrheit [«verità»). Questo è decisivo per le riflessioni successive, perché vogliamo difendere la tesi secondo cui è proprio il vero che, quando viene percepito in un determinato modo da definire meglio, merita dì essere chiamato bello.
Il bello nel quadro d'insieme
Domandiamoci innanzitutto in che cosa si distingua quello che viene percepito come bello da altre cose percepite, in che cosa si distingua cioè la percezione del bello da altre percezioni. Partiamo dalla percezione comune! Essa è, innanzitutto per parlare con Kant, una mera rapsodia del molteplice. Per portare il molteplice nell'unità di una percezione, si rende necessaria la ripetizione, a varie riprese, della analoga percezione. Solo una serie della medesima - o quasi medesima - indeterminata percezione crea una vera impressione, la rapsodia del molteplice si concretizza fino a diventare una vera percezione, il concrescere si compie verso una unità inconfondibile. Una siffatta percezione ha però bisogno di rifugiarsi a sua volta in una serie di percezioni, per essere una percezione significativa. Una percezione isolata resterebbe cieca (un po' come una concezione senza oggetto). Essa richiede un contesto percettivo, al cui interno soltanto la singola percezione acquista importanza. Un contesto percettivo però si crea soltanto sulla base di una visione d'insieme, di uno sguardo complessivo, il cui la gico rappresentante sarà il concetto. Solo ora ciò che mi sollecita può essere da me preso per vero. Se la percezione deve significare qualcosa, in' modo che al di là della semplice affezione [Affizierung] del soggetto conoscente, qualcosa venga effettivamente veri-ficato [wahr genommen], più precisamente: conosciuto come vero [als wahr genommen], allora ciò che viene percepito dai suoi va compreso, cioè affettato nel contesto che gli è proprio. Primariamente, può essere percepito come vero attraverso il rimando ad altro. Gli è necessaria una interconnessione.
Se qualcosa viene percepito come bello, quanto sopra è dato come presupposto, ma anche singolarmente relativizzato. La percezione del bello lo attrae dal contesto delle altre percezioni, e precisamente, nella misura in cui considera tale contesto. Ma esso lo considera appunto come non ulteriormente degno d'attenzione, come non necessario alla bellezza di quanto viene percepito come bello. Il bello è libero rispetto al suo contesto naturale.
Com'è noto, Kant [6] ha perciò parlato, paradossalmente, di una «finalità senza il fine» come propria del bello e alla quale corrisponde, da parte dell'osservatore, il «piacere disinteressato» (ovvero senza un interesse che strumentalizza il bello, e quindi senza interesse all'esistenza del bello nel contesto della realtà - determinato da causalità e fini -e senza interesse per l'utilità pratica). Bello è ciò che esce dal quadro, da questo quadro determinato da causalità e fini. Esso ha, come scrive Hegel, «cancellato la dipendenza da altro. Ma quello che è bello splende beato in se stesso».[7]
Ora, è certo che ciò che uscisse in tal maniera dal quadro del normale e non si integrasse in un contesto ordinato somiglierebbe piuttosto alla rapsodia del molteplice, la quale viene prima e sta alla base di ogni percezione che tende a uniformare tale molteplicità. Il bello non sarebbe facilmente distinguibile dal caotico, se la sua caratteristica fosse soltanto quella di uscire dal quadro della norma. Quel che è totalmente senza contesto può essere registrato soltanto come disturbo, ma non percepito come concreto. Il bello deve dunque entrare nei sensi in maniera tale da rinviare in un modo suo proprio al contesto dal cui quadro esso esce. Questo è infatti il caso nella misura in cui il bello supera il contesto di realtà che esso interrompe in qualche modo e rispetto al quale è libero. Il bello supera questo contesto raccogliendolo in sé.
Questo accade in due modi. Innanzitutto creando una particolare qualità della relazione con il soggetto che percepisce. Il bello tiene saldi i sensi, invita a fermarsi. Esso crea quindi una sorta di obbligo di ripetizione, eliminando così l'impressione del caotico che caratterizza quanto esce dalla norma. Il bello crea un nuovo contesto, perché conferisce una nuova qualità al processo stesso della percezione.
Nel contempo, il bello rinvia però anche al contesto rispetto al quale rivendica libertà, rappresentando «in qualche modo», per colui che percepisce, l'intero contesto dal quale emerge e contemporaneamente il contesto dal quale emerge colui che lo percepisce e che gli viene incontro. Nel bello appare una parte per il tutto: esso è una sineddoche. Tuttavia, l'insieme più grande può senz'altro rappresentare la relazione di un esserci distrutto, di una vita priva di senso, cioè la totalità incompleta di un'esistenza umana. Su questo fatto dovremo tornare. Comunque sia, il bello consente, quando viene recepito come tale, di vedere il contesto di vita abituale come «nuovo».[8] Il bello imprime al contesto di realtà sinora visto - che esso interrompe e a cui nega, in tal modo, di essere la verità ultima [9] - un orientamento futuro, a quel futuro che rende pieni e che viene rappresentato anticipatamente nel bello. In quale senso?
Come rappresentante del contesto dal quale esce e del contesto a partire dal quale colui che lo percepisce gli viene incontro, il bello ha fondamentalmente carattere di segno, ha qualità semiotica. Non importa, in questo contesto, se esso debba essere compreso nel senso di una nota praesentis rei o piuttosto di una nota absentis rei. (In un dibattito, l'artista Hajek ha sostenuto decisamente la seconda posizione.) Infatti, non è che l'opera d'arte sia un segno (res signiftcans), a cui corrisponderebbe senz'altro una del tutto determinata res significata chiaramente identificabile. Il contesto che esso rappresenta in quanto sineddoche è piuttosto, da una parte, la totalità del contesto storico di vita in cui l'opera d'arte stessa ha il proprio Sitz im Leben e, dall'altra, l'insieme dei rispettivi contesti di vita del possibile soggetto percepente. Quel che viene percepito come bello rappresenta dunque un tutto che determina sempre di nuovo se stesso, ma che inizialmente è ancora indeterminato. Esso raccoglie il tutto che rappresenta - e precisamente raccoglie il tutto in quanto, al tempo stesso, accoglie l'osservatore - in modo tale che il bello diviene il vertice di una duplice totalità: del contesto dal quale il bello emerge e che rappresenta emergendone, nonché del contesto dell'esistenza umana che viene interpellata dal bello e che lo percepisce come bello. Se chiamiamo il tutto in questione «mondo», l'opera d'arte raccoglie il suo mondo. E così facendo, l'opera d'arte conduce me, l'osservatore, a un vertice del mio mondo, di modo che l'opera d'arte unisce due mondi. Vogliamo chiamare concentrazione del bello questa funzione che riunisce il mondo dell'opera d'arte e il mio. Il bello concentra il tutto dal cui quadro emerge in modo che ne cadono tutti gli aspetti non essenziali. Questa concentrazione crea la cosiddetta forma o figura; la quale però forma, elabora e plasma non soltanto la cosiddetta materia, ma anche colui che la percepisce, sebbene in un modo a lui consono. Soltanto la concentrazione plasma. In questo senso, bisogna dire che l'opera d'arte opera nell'atto, nell'evento della sua percezione che non è distinguibile dalla sua rappresentazione. L'opera d'arte agisce concentrando. Il bello è - in ciò non dissimile da quello che gli antichi comprendevano come sacramento - un signum efficax: un segno che crea l'apparenza dell'insieme. Nella tradizione dell'idealismo, vogliamo chiamare la cosa così realizzata la bella apparenza, che non bisogna confondere con la mera apparenza, perché alla sua luce appare appunto l'insieme di cui l'opera d'arte è una sineddoche. Il bello è addirittura ciò che maggiormente risplende, l'èkphanestaton. E nel contempo il bello raccoglie la mia esistenza dalla sua fattuale dispersione e lacerazione in un vertice che promette integrità alla vita dispersa e lacerata: ciò che maggiormente risplende è anche ciò che maggiormente rapisce, lo è “erasmiotaton”.[10] Mentre i tempi passati comprendevano quanto viene qui preso in considerazione come tutto, come un cosmo dato e in sé con-chiuso, in cui l'essere umano che percepisce il bello è protetto, l'attuale estetica - se intendo bene - pone l'accento sul fatto che l'opera d'arte fungente da sineddoche rinvia a un tutto che appunto non è (ancora) dato, bensì anzitutto da produrre a un tutto aperto, o anche solo a una totalità che non c'è, cosicché il tutto appare solo come assente o come un tutto aperto e l'essere umano interpellato dall'opera d'arte viene rinviato esplicitamente alla sua nudità [Ungeborgenheit], alla dispersione e alla lacerazione della sua vita. Ecco perché l'estetica moderna può definirsi proprio come un'estetica del ripugnante. Ma anche il ripugnante rientra nella categoria del bello come un'espressione del tutto che si manifesta nella parte, foss'anche del tutto di cui si nota l'assenza o il ritardo nel venire, ma che si fa notare proprio in questo modo. Stando così le cose per l'insieme, il bello soffre la cattività. Ma questa prigionia è - per così dire - la punta più alta della sensazione, perché mediante il bello colui che percepisce viene condotto dai suoi legami naturali e morali verso una libertà che dissolve tali legami. Vogliamo chiamarla libertà estetica e comprenderla come la libertà di una disinibizione elementare che non si lascia condizionare né dal regno naturale della causalità, né da quello morale di un agire strumentale, ma che proprio in forza di ciò è in grado di esercitare un'enorme influenza sul secondo di questi due regni. Detta disinibizione elementare implica ciò che possiamo chiamare il godimento estetico. In esso, il prigioniero del fascino del bello esperisce se stesso perché dimentica chi è altrimenti e gode di questo oblio di sé. Ma egli ne gioisce solo in m[11]odo da godersi il bello. Egli esperisce se stesso nell'esperienza del bello che lo rende prigioniero.[12]
Il criterio della bella apparenza è dunque un ulteriore effetto del bello. Come signum efficax, il bello influenza colui che lo percepisce come bello: aumenta - potremmo dire con Kant e Schleiermacher, ma anche con Nietzsche - il sentimento vitale. Il bello porta con sé un «sentimento di trasporto della vita» (Kant). Nietzsche chiama l'arte il «grande stimolante della vita». Questo vale anche quando l'opera d'arte - come il sublime di Kant - scatena un «godimento negativo», facendoci rabbrividire. In ogni modo il bello scatena colui che lo percepisce come bello: si giunge allo disinibizione della gioia, dell'ammirazione, del coinvolgimento emotivo, dello spavento, una disinibizione che è stata definita come un evento molto religioso e che ha portato persino il critico Kant a definirlo come «qualcosa di simile a un sentimento religioso».[13]
La bella apparenza scioglie dunque, dalla parte di colui che percepisce, l'ordine della causalità e anche quello dei fini (contrario in ciò a Kant!), a favore di un incontro immediato. Schiller ha perciò parlato di un «terzo, gioioso regno del gioco e dell'apparenza», che «scioglie l'essere umano da ogni cosa che si chiama coercizione, sia nel fisico sia nel morale».[14] «Dare libertà mediante libertà è la legge fondamentale di questo regno».[15] È la libertà estetica che precede ancora la libera decisione di agire e in questo senso anche la distinzione tra bene e male: la libertà in cui non si comincia a fare nulla, perché appunto con il bello non si può e non si deve fare nulla. Come ciò che emerge dal quadro, esso comincia con se stesso e finisce anche con se stesso. Solo come tale, esso può avere - e avrà - conseguenze. Le conseguenze saranno sottoposte poi forse anche alla distinzione morale tra bene e male, quindi alla relazione etica. Ma l'opera d'arte stessa, il bello come tale e con esso la relazione estetica è al di là (meglio ancora, al di qua) del bene e del male. Come scrive Goethe: «Un'opera d'arte valida potrà e dovrà avere conseguenze morali, ma chiedere fini morali all'artista significa rovinare il suo prodotto».[16]
L'effetto disinibitorio dell'opera d'arte - la cui origine sta nel condurre in cattività colui che contempla - conferisce alla relazione estetica dell'essere umano un significato teologico. Inibizione e disinibizione del sentimento della vita sono processi marcatamente religiosi. Religioso non significa però necessariamente, in questo contesto, cristiano; anzi, la disinibizione provocata dal bello potrebbe portare a un aumento del sentimento vitale e della pienezza di vita che il cristianesimo identifica, nella loro incontestabile religiosità, con il culto di Baal e che bisogna confrontare con l'aut-aut di Kierkegaard. Ma peggio: la disinibizione provocata dal bello potrebbe essere fraintesa come un tale potenziamento del sentimento vitale che fa passare se stesso per potenziamento del buono, misconoscendo la propria posizione al di là del bene e del male e usando moralmente violenza sia al bello sia a colui che lo contempla. Sarebbe, questo, il moralistico servizio all'idolo sull'altare dell'estetica, contro il quale la fede cristiana deve ribadire, nonostante tutti gli epigoni grandi e mediocri di Platone, che bello e buono sono due cose diverse. La percezione del bello non fa affatto un essere migliore (sotto il profilo morale), non in senso stretto.
Ma sarebbe bene non continuare, in questa sede, la riflessione sulla dimensione religiosa dell'azione dirompente del bello. Vogliamo ora piuttosto, ancora una volta, avvicinarci a questo effetto da un altro lato, chiedendo ancora una volta, di nuovo senza tener conto dell'efficacia della bella apparenza, del modo dell'apparizione estetica stessa: in quali modi il bello appare come tale? Che cosa costituisce la bella apparenza?
Il bello alla luce del vero
Partiamo di nuovo dalla percezione. Per percepire qualcosa, questo qualcosa mi deve apparire. L'apparizione di una determinata cosa chiaramente distinguibile da altre, di una tóde tí presuppone la luce, se non teniamo conto per ora della percezione acustica. Solo alla luce posso distinguere. Anche il senso tattile, che si orienta al buio, presuppone, per poter distinguere la tale cosa dall'altra, le differenze già viste tra questa e quella e, quindi, un déjà vu. In modo analogo, anche le altre percezioni rinviano alla luce (fosse soltanto perché senza la luce e senza il calore della luce la natura - phüsis - non si potrebbe sviluppare - phüein- e quindi non potrebbe produrre né odori né sapori né suoni). Per questo, ha anche un senso se si chiamano apparizioni, fenomeni, tutte le grandezze percepibili dai sensi. L'elemento originario, in cui una cosa appare o diventa visibile, è però la luce.
Ciò va detto in termini espliciti anche per il fenomeno acustico della parola o del discorso. Il discorso ha, sia come discorso che appella, sia come discorso che trasmette un'informazione, una funzione eminentemente apofantica: il discorso rivela qualcosa, lo mostra; scopre e lascia scoprire. Si è perciò detto che la condizione per la possibilità di una corrispondenza tra il logos e la ragione che lo percepisce è sempre la luce: la luce della ragione. L'uso metaforico dell'espressione luce non deve ingannarci sul fatto che qui si tratta - come nel caso della percezione visiva - di un manifestarsi che presuppone un determinato modo di chiarezza e apertura, esprimibile al meglio nel simbolo della luce. La conoscenza dipende, come la percezione, dalla luce.
La luce, in cui una cosa appare, è però di norma diversa da ciò che appare. Alla luce del sole il nostro mondo ci appare pieno di senso. Alla luce del sole si vedono «le opere incredibilmente sublimi». Per Goethe il sole era perciò identico a Dio, come mostra per esempio il prologo del Faust, riprendendo l'espressione: «Ihr [Der Sonne] Anblick gibt den Engeln Stärke, / Wenn keiner sie ergründen mag; / Die unbegreiflich hohen Werke / Sind herrlich wie am ersten Tag», attribuendola però a Dio: «Der Anblick gibt den Engeln Stärke, / Da keiner dich ergrtinden mag, / Und alle deine hohen Werke / Sind herrlich wie am ersten Tag».[17]
«Ed eccomi già fermo» [Faust, v. 1225]. La luce del sole è, secondo la tradizione biblica, una luce creata da Dio, e in questo senso distinta da Dio stesso. E la luce dell'universo, creata in principio, ancora prima del sole, è la condizione per la possibilità dell'apparizione del mondo e di quanto appare di questo mondo. In questo, essa ha senz'altro una priorità assoluta nel contesto del creato. La luce è, all'interno del cosmo, la prima di tutte le creature. Secondo Gen. 1, la prima delle azioni di Dio è la creazione della luce («Sia la luce»). Ma essa è una luce del mondo e, in quanto tale, distinta da Dio stesso. La fede attribuisce sì una luce anche a Dio, ma la distingue esplicitamente dalla luce creata, riferendo addirittura quest'ultima alla luce propria di Dio, in modo tale che possiamo vedere una luce soltanto alla luce di Dio: «Per la tua luce noi vediamo la luce» (Sal. 36,10).
La luce del primo giorno della creazione e così anche la luce del sole appartengono dunque al mondo creaturale. Ciò nonostante, essa è distinta dalle altre creature della creazione, in quanto condizione per la possibilità della loro apparizione; e questo vuol dire che tutto ciò che appartiene a questo mondo appare in una luce che non si identifica con quanto appare. Esso appare in una luce estranea, in una luce relativamente estranea, in un'altra luce. Perciò in questa luce vi sono inganno e percezione sbagliata; cosicché è considerato vero soltanto quanto è identico in intellectu e in re: la veritas è considerata qui come adaequatio intellectus et rei.
L'apparizione del bello invece esce, anche in questo senso, dal quadro. Il bello, l'opera d'arte, appare sovranamente e non brilla di luce riflessa. Certo, esso si percepisce alla luce del sole e dei suoi derivati metaforici. Ma che esso colpisca i sensi particolarmente e interrompendo il normale contesto percettivo, questo lo deve a una luce che parte dal bello stesso. Il bello appare 'come bello. Il bello brilla e luccica. E bello appare nella luce del suo proprio essere. La sua verità è perciò qualcosa di diverso dalla corrispondenza tra intellectus e res, che si basa sull'impossibilità di sbagliare. Nell'apparizione del bello si innesta originariamente la verità e nell'opera d'arte la verità stessa si inserisce nell'opera.[18] Nella bella apparizione dell'opera d'arte la verità riluce, irradia. Riluce e irradia, perché la percezione del vero qui non accade nella luce riflessa, ma nella luce propria dell'essere. Anche qui «la bellezza non esiste accanto a questa verità».[19] La bellezza è piuttosto l'apparizione dell'ente di ciò che è nella luce del suo proprio essere e come tale è il rilucere della verità, perché la verità è originariamente, prima di scadere ad adaequatio intellectus et rei, cioè alla giustezza della conoscenza, proprio questo: l'ente si fa presente a se stesso. Essere vero significa essere presente a se stesso e proprio perciò luminoso. Ciò vale sommamente per la musica, nella misura in cui la sua verità non sta nella corrispondenza tra intellectus e res, ma solo nell'evento dei suoni. L'opera d'arte musicale è nella massima misura realtà presente a se stessa: irradia nella maniera più pura luce del suo proprio essere. Ma in linea di massima, ogni opera d'arte, ogni cosa bella, si caratterizza così. Possiamo dire la stessa cosa con una massima della scolastica [20] (che si ritrova poi in James Joyce): il bello è lo splendore del vero. La frase risale a Platone, che dice nel Fedro, a proposito della giustizia e di molte altre cose che gli devono onorare, che a esse non appartiene alcuno splendore (ouk énesti phengos), mentre proprio il bello è ciò che maggiormente risplende (più brillante) e (perciò) ciò che maggiormente rapisce è l’ekphanestaton kai erasmiotaton.[21] O per dirla con Novalis: «Il bello è il visibile kat’exoken».[22]
Ma ora si tratta, specialmente per il teologo, di stare attenti da più d'un punto di vista. Innanzitutto, dobbiamo chiarire in qual misura qualcosa possa apparire nella luce del suo proprio essere e dobbiamo distinguere il concetto di rivelazione, che qui s'impone, dalla rivelazione di Dio. Dobbiamo poi considerare che il bello è un'apparizione condizionata storicamente e che esso è quindi bello solo come apparizione effimera. Dobbiamo infine riprendere tutta la riflessione svolta finora considerando l'aspetto che la fede cristiana confessa a proposito di Dio: egli è apparso in questo mondo e nella sua luce. Quale relazione intercorre tra questa epifania e l'apparizione del bello?
Ci interroghiamo innanzitutto sulla possibilità da parte di un ente di apparire nella luce del suo proprio essere. Che qualcosa appaia nella luce del sole sembra plausibile. Che la conoscenza avvenga nella luce della ragione è plausibile almeno come discorso metaforico. Ma in qual senso si può dire che qualcosa appare nella luce del suo proprio essere?
La tradizione filosofica classica sembra avere avuto in mente qualcosa di simile quando ha affermato: «Il bello [...] deve essere vero in se stesso [perché] il bello si definisce [...] come l'apparire sensuale dell'idea».[23] Ma il sapere tradizionale rimane insufficiente finché non si riesce a chiarire come e da dove l'ente possa essere dotato di luce in modo tale da apparire in questa luce. In che misura si può attribuire all'opera d'arte, al bello, questo splendere beato in se stesso?
Nella misura in cui la tradizione risponde ancora a questo interrogativo, le sue sono risposte teologiche. Così, Schelling dice per esempio che «l'universo è formato in Dio come eterna bellezza e assoluta opera d'atte».[24] Dietro ciò sta la concezione della scolastica secondo cui Dio aveva pensato il proprio concetto di creazione del mondo prima di metterlo a effetto. Ogni cosa creata è, in questo senso, sempre già una cosa pensata, ovvero una cosa pensata dall'intellectus divinus. Il divino intellectus , però, è considerato l'incarnazione della luce creatrice inesauribile. È una luce creatrice che vince il non-essere e che si comunica a ciò che emerge dal non-essere. Perciò tutto ciò che è creato ha parte alla luce divina dalla quale è emerso. Josef Pieper ha descritto ciò in questi termini, sulle orme di Tommaso d'Aquino: «Le cose hanno la loro intelligibilità, la loro limpidezza interiore, luminosità e rivelazione perché Dio le ha pensate [...]. Questa lucentezza, e solo questa, rende le cose esistenti percepibili per la conoscenza umana. In un commento della Scrittura, Tommaso dice: "Quanta è la realtà che una cosa ha, tanta è la sua luce". E in un'opera tardiva, nel commento del Liber de causis, è una frase profondissima che formula lo stesso pensiero in un proverbio mistico: "Ipsa actualitas rei est quoddam lumen ipsius", ovvero l'essere reale delle cose è esso stesso la loro luce. L'essere-reale delle cose, inteso come l'essere creato! Ma questa luce è quella che rende le cose visibili per i nostri occhi».[25] Poiché e nella misura in cui le cose provengono dalla luce creatrice inesauribile dell'intellectus divinus, queste possono dunque rendere se stesse percepibili. Esse non hanno la loro verità soltanto nella adaequatio intellectus humani nei loro confronti, ma portano già la loro verità, per via della loro provenienza dall'intellectus divinus.
«Eccoci!», verrebbe voglia di commentare questa straordinaria metafisica. «Ma le cose, non stanno così», perché si vede in questo mondo «solo coloro che sono nella luce, quelli che sono al buio non si vedono»,[26] anche se dovrebbero apparire nella luce del loro proprio essere. Tuttavia potremmo leggere nelle idee della metafisica antica (prescindendo da tutte le narrazioni storiche) almeno un indizio che le cose di questo mondo appaiono in un'altra luce quando appaiono nella luce del sole e quindi nella luce di questo mondo; vale a dire in una luce diversa dalla,propria. Non contesteremo, al cospetto del bello, che ciò che è possa luccicare, che cioè le cose abbiano - se provengono dal Dio a cui il Nuovo Testamento attribuisce una luce inaccessibile (I Tim. 6,16) - una luce propria, che è stata data loro in questo processo creatore dell'uscire da Dio. Ma nel mondo caduto non riterremo inaccessibile soltanto la luce divina stessa, bensì anche quella che è originariamente propria delle creature, perché per il mondo caduto l'origine creatrice rimane nascosta in una luce inaccessibile. Non si vede che il mondo è creatura di Dio. La luminosità del mondo caduto è troppo brutale: la luce del mondo è più forte della luce creatrice di Dio. Nella creazione caduta non solo il creatore, ma anche le creature, in quanto tali, sono di solito nascoste. La loro apparizione terrena è un'apparizione in un'altra luce, nella luce del mondo. Questo vale anche per le realtà prodotte dall'essere umano, e precisamente per la realtà prodotta senza una diretta o indiretta imitazione della natura. Infatti, l'essere umano, che nella sua capacità poietica non solo di una seconda natura, ma anche di fare di se stesso un secondo dio,[27] vive a sua volta della luce del sole e perciò può dare alle sue realizzazioni soltanto i suoi riverberi, solo una luce riflessa, non già la luce creatrice che supera il nulla. Di questa luce le opere umane non hanno parte come opere di un deus alter, ma solo ed esclusivamente perché anche nelle opere umane opera il vero e unico Dio. Ma proprio questa partecipazione alla luce creatrice originaria è nascosta nella creazione caduta, perché essa viene abbagliata dalla luce del mondo. Solo per il tempo escatologico della veniente signoria di Dio si annuncia in Is. 60,10 s. e Apoc. 21,23 che nella polis di Dio non dovranno più splendere il sole e la luna, «perché lo splendore di Dio li illumina». Significa: l'ente sarà vero in quanto tale ed effettivamente varrà: factum et verum convertuntur.
Nel nostro mondo c'è però bisogno di particolari eventi di rivelazione perché qualcosa possa apparire e splendere nella luce del proprio essere. Rivelazione è per definizione un evento estetico. Ma sopra ogni rivelazione risplende nel contempo l'altra luce, la luce del mondo riflessa. Ecco perché, se sopra di essa splende la luce del mondo, nessuna epifania può essere l'apparizione immediata della verità. L'apparizione nella luce del proprio essere, che noi attribuiamo al bello, può accadere, nelle condizioni del nostro mondo, solo come bella apparenza, come apparizione del bello. Il bello però è solo un primo barlume della verità che viene. Nel bello, la verità si mette all'opera solo in maniera indiretta. In questo senso, il bello porta però in sé la promessa di una verità che viene, di un non mediato incontro futuro con la verità in sé. Schiller lo dice tranquillamente e proprio perciò con la pretesa di dire la verità: «Was wir als Schönheit hier empfunden / Wird einst als Wahrheit uns entgegengehn».[28] Nel bello riluce sin d'ora un primo barlume della verità. Sulla scia del «Regno di Vaduz sul granaio di Francoforte» di Clemens von Brentano e dell'«Isola di Orplid» di Eduard Mörike, Ernst Bloch ha parlato del «tentativo di articolare un contenuto utopico di speranza» e di una «porta mattutina del bello», cui sarebbe propria «la serietà di un primo barlume del reale possibile».[29] Egli sottolinea, non a torto, che il bello è una prima apparizione rivolta verso uno scopo e in questo senso una caparra sulla verità, lontano da tutti gli «infantilismi e arcaismi di bei giochi».[30] In questo senso, Schiller ha trovato in Bloch il moderno e attuale portavoce della sua causa. L’incontro immediato con la verità non fa che annunciare il bello. Ecco perché il bello, quando è un primo barlume della verità, esce dal quadro del reale che splende esclusivamente nell'altra luce e in nessun modo nella luce del proprio essere. Per questo motivo, perché è un primo barlume della verità, il bello è l'apparizione più splendente di tutto, lo ékphanestaton.
Ma la verità - persino quando si tratta solo del suo primo barlume - è sempre un'interruzione chiara del nostro contesto di realtà. All'interno della nostra realtà possiamo essere più o meno vicini alla verità, ma non possiamo immediatamente percepirla. La percezione, cioè il prendere qualcosa per vero, ha sempre bisogno di un'intermediazione. Proprio per questo non si può mai possedere la verità, non la si può acquistare. Schiller ha detto il necessario anche su questo: «Weh dem, der zu der Wahrheit geht durch Schuld / Sie wird ilun nimmermehr erfreulich sein».[31]
Come primo barlume di verità, il bello sta d'altra parte davvero - come sineddoche - al posto dell'intero contesto di realtà che esso interrompe, perché la verità mira sempre al tutto. Il tutto, che appare nel bello sotto la forma di un punto culminante della totalità, è però soltanto il tutto di un mondo effimero e quindi mortale; anzi, in termini concreti esso è soltanto il tutto di un mondo esperito storicamente o il tutto limitato alla percepibilità storica. Vogliamo rendere ciò evidente rivolgendo l'attenzione ancora una volta alla relazione con la totalità.
Avevamo detto che il bello interrompe il contesto di realtà uscendo dal quadro di questo contesto e rinviando, d'altra parte, sineddochicamente al contesto dal cui quadro esce: esso rappresenta il tutto, apparendo come il suo punto culminante. Ma sinora non avevamo pensato al concetto di totalità. Avevamo detto soltanto che si tratta di una ambigua, e dunque doppia totalità; cioè tanto del contesto storico nel quale il bello o l'opera d'arte hanno il proprio Sitz im Leben, quanto anche del contesto di vita di colui che percepisce il bello come vero. Ma già il termine di totalità doppia rinvia a un'aporia logica della totalità: se la totalità può essere raddoppiata, essa sembra essere a sua volta solo una metà e quindi non un tutto. Noi abbiamo pur sempre a che fare soltanto con un tutto relativo. L'ente in quanto tale, nella sua totalità, non è invece rappresentabile da un solo ente. E senza il concetto di un creatore del tutto che relativizza a sua volta questo concetto di «totalità», la «totalità» non sarebbe altro che una smisurata estensione di molte parti. Se vogliamo dunque parlare ragionevolmente e criticamente del tutto, dobbiamo comprendere l'universo creato come quel tutto che, da una parte, viene relativizzato dal suo creatore - il quale, in quanto creatore, mai può essere parte del tutto - e che, dall'altra parte, relativizza se stesso, perché è sempre esperibile solo come un tutto - vale a dire come un determinato insieme - mai però come il tutto. «L'immediata presenza dell'Esserci indiviso totale» si schiude soltanto quando si rivela il creatore del tutto. Di conseguenza, anche la verità, se il tutto deve essere il vero (Hegel), può apparire solo relativizzata nel contesto dell'essere creato, solo come verità di un tutto, ma non del tutto. Solo nell'apparizione del creatore, l'ente come tale sarebbe nel tutto anche presente a se stesso e trasparente.
Tutto ciò ha la conseguenza per il bello che esso può rappresentare sempre solo un tutto, una totalità relativizzata, quando appare sotto il sole e anche nella luce del suo proprio essere. Il bello è, per l'appunto, solo un barlume della verità che riluce in esso. E anche da questo punto di vista converrà ancora limitare il discorso, perché - come abbiamo detto - il bello è il punto culminante di un tutto che esso rappresenta come sineddoche. Ma non solo il tutto, non solo l'esistente come tale nell'insieme, ma anche un insieme, anche ogni contesto storico di vita e di realtà, ha molti punti culminanti. Come un vertice di un tutto, di cui è una pars pro toto, il bello, l'opera d'arte, è secondo la sua essenza finito e perituro. Anzi, il bello è nel modo più eclatante il rappresentante di una realtà effimera e in questo è, a sua volta, effimero. Se volesse perdurare ed essere immortale, il bello si identificherebbe con la verità, assolutizzandosi (ideologicamente) e allora sarebbe diabolico. La bella apparenza, proprio perché è solo un barlume del vero, deve appassire, affinché il vero stesso possa venire e apparire. «Auch das Schöne muβ sterben! [...] Siehe! Da weinen die Götter, es weinen die Gòttinnen alle, / Dati das Schtine vergeht, dati das Vollkommene stirbt». [«Anche il bello deve morire! [...] Vedi! Piangono gli dèi, piangono le dèe tutte, / che il bello appassisce, che il perfetto muore»]. Ma Schiller continua: «Auch ein Klaglied zu sein im Mund der Geliebten, ist herrlich, / Denn das Gemeine geht klanglos zum Orkus hinab» «Anche d'essere un'elegia nella bocca dell'amata, è splendido, / poiché sono le cose volgari che scendono all'Orco senza lamento».[32]
Essere nella gloria: fine dell'ambiguità
Secondo l'autocomprensione della fede cristiana, vi è una sola apparizione di verità che - con tutti i parallelismi con la bella apparenza del vero - segue una legge diversa. Questa apparizione è la rivelazione di Dio. Essa si distingue dalle epifanie del bello per il fatto che in questo evento appare l'origine di ogni luce, e precisamente appare in modo tale che essa non brilla nella luce del mondo come il bello, bensì apparire nascosta sub contrario. Ecco perché l'evento della rivelazione non può rientrare nella categoria del bello. Per questo era troppo ripugnante il peccato con il quale Dio ha identificato colui che non conduce peccato - a vantaggio! - dei peccatori. Bisognerà qui ricordare il Servo di Dio di cui parla Isaia: «[...] non aveva forma né bellezza da attirare i nostri sguardi, né aspetto tale da piacerci. Disprezzato e abbandonato dagli esseri umani, essere umano di dolore, familiare con la sofferenza, pari a colui davanti al quale ciascuno si nasconde la faccia [..1» (Is. 53,2 s.). La rivelazione di Dio in Gesù Cristo cancella ogni bella apparenza. La deve cancellare perché non è barlume della verità, ma la verità stessa. Però, questa verità accade, secondo la comprensione del Nuovo Testamento, fondamentalmente come crisi. Lo fa mettendo il mondo non solo di fronte alla propria mortalità, ma anche alla fine che merita e alla meritata vergogna. Lo fa, come dice Paolo, dipingendo «Cristo crocifisso» (Gal. 3,1). Che questa morte abbia fatto scaturire da sé la vita del Risorto, promettendo così ai mortali la vita eterna sotto forma di visio beatifica e quindi di una visione del tutto libera, faccia a faccia con Dio, è una cosa che non si vede in questa morte. Infatti, in questa morte opera, secondo i testi del Nuovo Testamento, l'amore di Dio, il quale non si infiamma (come l'amor hominis) nei confronti del bello, bensì rende bello colui che è ripugnante, cioè lo homo peccator che sfigura se stesso, amandolo.[33] In quanto evento dell'amore di Dio, la morte di Gesù Cristo è il contrario di ciò che sembra essere. La croce di Gesù Cristo non rivela che in questa morte accade l'unità di vita e morte a favore della vita, che merita di essere chiamata amore.
Per questo, è necessaria una nuova venuta di Colui che è già venuto sub contraria specie. È perciò necessaria la risurrezione di Gesù Cristo dai morti; cioè la venuta pasquale del Signore nella gloria e pure nella luce integrale del suo proprio essere. Da una siffatta venuta, dalla rivelazione pasquale di Gesù Cristo nella gloria - ophthe! («è stato visto!») -è nato il Nuovo Testamento ed è nato perché deve annunziarci che «saremo anche partecipi di una risurrezione simile alla sua» (Rom. 6,5); cioè che anche noi splenderemo nella luce del nostro proprio essere, che ora ci è ancora profondamente nascosto (cfr. Col. 3,3 s. con I Giov. 3,2). Allora avrà fine ogni apparenza, perché la luce dell'essere proprio non dovrà più competere con altra luce. Allora l'ambiguità che sovrasta il bello, poiché esso appare tanto nella luce estranea del mondo quanto in quella del proprio essere, avrà fine. Allora nulla dovrà più apparire, perché al posto dell'apparizione vi sarà l'essere nella gloria. E questo significa per la vita di coloro che percepivano: allora la nostra vita diventerà una vita liberata, potenziata nella sua verità, allora il nostro esserci, insieme alla totalità di ciò che insiste, sarà integralmente presente a se stesso e trasparente. Allora, verità e bellezza saranno identiche e l'essere umano, che non dovrà più interrompere il rapporto vitale per apparire, sarà redento per sempre. Allora! Ma qui e ora il bello rimane per il momento solo il barlume - che appare a intervalli - del vero, del quale bisogna dire con Schopenhauer, che esso salva l'essere umano «non per sempre, ma solo a momenti».[34] L'esperienza del bello, che rende integra (come splendore del vero) la vita lacerata, può essere, in un contesto di mondo caratterizzato da menzogne esistenziali e schiavitù, solo un'esperienza che lo interrompe. Essere integri (essere eterni) in un attimo, per poi tornare nel contesto interrotto della vita, nel migliore dei casi tornarvi cambiati e migliorati: ecco il massimo che ci promette una relazione estetica. Se vogliamo che essa sia qualcosa in più, se rifiutiamo dunque l'amara constatazione che anche il bello deve morire, allora la relazione estetica diventa necessariamente nemica del vero.
Se mi è concessa un'osservazione teologica sulla relazione estetica (nel caso ce ne debba o ce ne possa ancora essere una), questa dovrebbe essere la doppia constatazione: da una parte, solo quando rinvia alla verità merita di essere chiamato bello, e solo là dove la verità diventa opera, si può parlare di un'opera d'arte; ma nel contempo bellezza e arte sono antagoniste tanto benvenute quanto pericolose del kerygma cristiano, perché esse anticipano nella bella apparenza ciò che la fede deve annunciare senza alcuna bella apparenza e in precisa contrapposizione a tale apparenza, cioè l'ora della verità.
(Eberhard Jüngel, Possibilità di Dio nella realtà del mondo. Saggi teologici, Claudiana 2005, pp.293-310: saggio 17)
[1] J. RITTER, articolo Ästhetik, in: Handwórterbuch der Philosophie I, 1971, p. 571.
[2] G.E. LESSING, Laokoon, c. 26, in: Werke V, a cura di P. RILLA, 1955, p. 190. E anche di questo bisognerà tener conto, che un essere umano non dotto può avere ugualmente un ingenium estetico, mentre uno spirito dotto potrà sembrare rozzo allo stesso proposito. Cfr. A.G. BAUMGARTEN, Aesthetica (1750), § 53, citato da H.R. SCHWEIZER, Ästhetik als Philosophie der cher Erkenntnis, 1973, p. 138: «Potest ineruditus esse ingenii, etiam aesthetici, admodum politi, sicut eruditus ingenii, qua pulchritudinem spectat, satis rudis».
[3] Cfr. ora, a tale proposito, H.R. JAUSS, Ästhetische Erfahrung und literarische Hermeneutik, 1982.
[4] G.W.F. HEGEL, Ästhetik, a cura di F. BASSENGE, 1955 [ed. Estetica, Torino, Einaudi, 1977]. Un atteggiamento di totale rifiuto è quello di A.W. SCHLEGEL, perché il discorso sull'estetica «tradisce, un'uguale assoluta ignoranza dell'oggetto designato e del linguaggio che designa» (J. RITTER, articolo Ästhetik cit., 565).
[5] I. KANT, Kritik der Urteilskraft, § 8, in: Akademie-Textausgabe V, 1913, p. 216 [ed. it. Critica del giudizio, Roma-Bari, Laterza, 2002].
[6] Ivi, §§ 2-5, pp. 204-211.
[7] G.W.F. HEGEL, op. cit., p. 148.
[8] H. R. JAUSS, op. cit., p. 39.
[9] Non so se si debba perciò affermare con Th.W. ADORNO (Ästhetische Theorie, in: Gesammelte Schriften VII, 1970, p. 264) che ogni opera d'arte è a priori polemica: «Tutte le opere d'arte [...] sono a priori polemiche [...] Separandosi enfaticamente dal mondo empirico, cioè dal loro altro, esse rendono pubblico che esse stesse vogliono diventare diverse [...]» [ed. it. Teoria estetica, Torino, Einaudi, 1978].
[10] Cfr. M. HEIDEGGER, Nietzsche I, in: Gesamtausgabe 11/43, 1985, pp. 241 ss. (ed. it. Nietzsche, Milano, Adelphi, 19943); Platone, Fedro, 250d.
[11] H.R. JAUSS (op. cit., pp. 84 s.) ha giustamente difeso il godimento estetico, che egli definisce come «autogodimento nell'eterogodimento», contro i più colti tra i suoi denigratori. L’affermazione secondo la quale il godimento estetico costituisce «un modo di esperire di se stessi nell'esperienza dell'altro» dovrebbe essere circoscritta con precisione all'esperienza dell'oblio di se stessi nel senso di una disinibizione elementare. In qual misura l'esperienza estetica di disinibizione estetica implichi la triplice caratterizzazione che Jauss (op. cit., pp. 88 s.) attribuisce al godimento estetico, resta da verificare: «Un comportamento di godimento estetico, che è contemporaneamente liberazione da e liberazione per qualcosa, può svolgersi in tre funzioni: per la coscienza producente nella creazione di universo come opera propria (poiesis), per la coscienza della ricezione nel cogliere l'occasione di un rinnovamento della propria percezione della realtà esteriore e interiore (aisthesis), e infine - con ciò l'esperienza soggettiva si apre verso quella intersoggettiva - nel consenso con un giudizio richiesto dall'opera o nell'identificazione con nonne predisposte dell'agire, che si tratta di determinare meglio (catharsis)».
[12] F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente. Anfang 1888 bis Anfang Januar 1889, in: Werke. Kritische Gesamtausgabe VIII/3, a cura di G. COLLI e M. MONTINARI, 1972, p. 203.
[13] I. KANT, op. cit., p. 482.
[14] F. SCHILLER, Über die ästhetische Erziehung des Menschen, 27. Brief, in: Sitmtliche Werke V, a cura di G. FRICKE e H.G. GÖPFERT, 19674, p. 667.
[15] Ibid. H.R. JAUSS (op. cit., p. 40), fa valere la stessa cosa dal punto di vista temporale: l'esperienza estetica «toglie la coercizione del tempo nel tempo».
[16] J.W. v. GOETHE, Dichtung und Wahrheit 12, in: Goethes Werke, ed. commissionata dalla granduchessa Sofia di Sassonia, sez. 1, vol. XXVIII, 1890 (rist. 1975), p. 148.
[17] [«La vista sua [del sole] dà forza agli angeli / se anche è impossibile fissarlo a fondo. / Le immense opere incomprensibili splendono come nel primo giorno»; Faust, Prologo, w. 247250. «La vista tua [di Dio] dà forza agli angeli / se anche è impossibile fissarti a fondo. / E tutte le immense tue opere I splendono come nel primo giorno»; ivi, w. 267-270]. Cfr. E. STAIGER, Goethe und das Lìcht. Vier Vortrage zum Goethe-Jahr 1982, 1982, pp. 13-15.
[18] Cfr. M. HEIDEGGER, Der Ursprung des Kunstwerks, in: Gesamtausgabe 115, 1977, pp. 21 ss. [ed. it. L'origine dell'opera d'arte, in: Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968].
[19] Ivi, p. 69.11 concetto di opera qui tematizzato ha però i suoi lati problematici, perché la «dissoluzione dell'unità tradizionale dell'opera [...] può essere identificata come un tratto comune dell'epoca moderna. Coerenza e autonomia dell'opera vengono consapevolmente messe in discussione o addirittura distrutte» (R. BUBNER, (Über einige Bedingungen gegenwartiger Asthetik, in: "Neue Hefte für Philosophie" 5, s.d., p. 49). È perciò raccomandabile utilizzare il concetto di opera così come si impone quasi nell'ottica della teologia protestante: non l'opera - per quanto «perfetta» - giustifica la verità, ma la verità giustifica l'opera, per quanto «imperfetta».
[20] Cfr. U. Eco, Le poetiche di Joyce, Milano, Bompiani, 1966.
[21] PLATONE, Fedro, 250b, 250d. Splendore significa qui solo la bella apparenza. Nelle condizioni in cui si ha luce nel mondo, la verità può brillare solo nel modo di un primo barlume, che diventa caduco solo nello splendere escatologico della verità, perché solo allora il vero sarà bello in quanto tale, e il suo splendore la sua immediata espressione. Nelle condizioni in cui si ha luce nel mondo invece vale che anche il bello ha un'ombra.
[22] NOVALIS, Poëticismen, in: Schriften a cura di R. SAMUEL, 1981, p. 540.
[23] G.W.F. HEGEL, op. cit., p. 117.
[24] F.W.J. SCHELLING, Philosophie der Kunst, in: Sämtliche Werke V, a cura di K.F.A. SCHELLIMP, 1859, p. 386.
[25] J. PIEPER, Unaustrinkbares Licht. Das negative Element in der Weltansicht des Thomas von Aquin, 19632, pp. 26 s. Cfr. TOMMASO D'AQUINO, commento a I Tim. 6,4 e commento al Liber de causis 1,6.
[26] Allusione a B. BRECHT, Opera da tre soldi.
[27] Così almeno comprendo la definizione di poeta data da J.C. SCALIGERO, Poetica I,1, 1561. Secondo G. PICO DELLA MIRANDOLA (De dignitate hominis, Respublica literaria I, a cura di DYCK e G. LIST, 1968, p. 28), l'essere umano è «[sui] ipsius quasi arbitrarius honorariusque plastes et fictor» («[di se] stesso in certo qual modo modellatore e creatore arbitrario e onorario»). H.R. JAUSS (op. cit., pp. 111 ss.) ha stabilito una linea di pensiero convincente da questa interpretazione dell'essere umano poietico verso l'interpretazione vichiana della tesi: «Verum et factum convertuntur» (Cfr. G. Vico, De Antiquissima Italorum Sapientia, c.1; cfr. in particolare c. 8, § «et factum et verum, cum verbo convertuntur»; in: Opere di Giambattista Vico, vol. I, Napoli, ed. Orazioni Accademiche di G. Vico di F.S. Pomodoro, 1858).
[28] [«Quel che qui abbiamo visto come verità, un giorno ci verrà incontro come verità»]. F. SCHILLER, Die Künstler, in: Sämtliche Werke I, a cura di G. PRIME e H.G. GOPFERT, 19806, p. 175.
[29] E. BLOCH, Das Prinzip Hoffnung, in: Gesamtausgabe V, 1959, pp. 108 s. [ed. it. Il principio speranza, Milano, Garzanti, 1994].
[30] Ivi, p. 109.
[31] [«Guai a colui che va dalla verità attraverso la colpa; / essa non gli sarà mai una gioia»]. E SCHILLER, Das verschleierte Bild zu Sais, in: Sämtliche Werke I cit., p. 226. L'affermazione di Nietzsche «Abbiamo l'arte per non morire della verità» (op. cit., p. 296) rinvia, nonostante l'apparente affinità con l'idea di Schiller, in una direzione del tutto diversa, nel senso che la verità qui significa il soprasensibile, che ruba al sensuale la sua forza vitale, mentre l'arte è considerata «il grande stimolante della vita» (ivi, p. 15). Cfr. M. HEIDEGGER, op, cit., pp. 87 s.
[32] F. SCHILLER, Nänie, in: Sämtliche Werke I cit., p. 242. L'arte deve essere fatta splendere proprio «verso il lato della sua più alta destinazione», cioè fare splendere l'idea e di conseguenza la verità. Certamente non, come pensava HEGEL (op. cit., p. 22), «per una cosa passata» il cui posto è stato preso dalla filosofia del concetto; ma l'arte e il bello sono per noi una cosa transitoria.
[33] Cfr. M. LUTERO, Heidelberger Disputation (1518), in: WA 1,365,11 s.
[34] A. SCHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vorstellung, in: Sämtliche Werke I, a cura di W. V. LÖHNESEN, 1961, p. 372 [ed. it. Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano, Mursia, 1990].