Metafisica quotidiana /2
Roberta De Monticelli
Avvenire 2005-2006
11. Ciascuno di noi è unico: e i filosofi cosa dicono?
Avevo promesso che ci saremmo messi alla ricerca di quelle forze interne ed esterne che tanto ci offuscano la vista da nasconderci la caratteristica più straordinaria, forse la sola assoluta, di ciò che siamo - quella comunissima fonte dell'incomparabile valore di ogni vita personale, che è la sua unicità. Ma prima bisogna capire perché possa valere la pena di farlo.
Ciascuno di noi è unico. Lo sappiamo, vagamente. Non stiamo su tanto a pensarci. E saperlo, quando abbiamo a che fare con l'automobilista della fila di fianco o il vicino in autobus, non cambia molto alla nostra faticosa coesistenza con loro. Lo sappiamo, ma come non sapendolo, distrattamente: nel modo svagato e un po' assente in cui ci portiamo dietro tutto il sapere che non ci serve. Anche il nostro sapere implicito è un po' quello di un sonnambulo. Questa nozione più che mai implicita poi - quella dell'unicità di ciascuno di noi - raramente si sveglia e passa allo stato di evidenza vissuta e sentita. Non è la sola: la leghiamo confusamente a quella di una qualche profondità delle persone, di un loro "dentro", che ci vuole molto tempo a conoscere, anche se la faccia di una persona impariamo invece rapidissimamente a distinguerla da quella di un'altra.
Questa profondità, per cui nessuna persona ci appare "tutta lì", esaurita in quello che di lei si vede, ci sembra ospitare quella che chiamiamo la "personalità" di una persona. Queste due caratteristiche, unicità e profondità di una persona, ne fanno una classe molto speciale di individuo. Uno che, se è uno, è unico. Si potrebbe credere che questa caratteristica sia estesa a tutti i viventi, dai fagioli agli umani. Forse no, almeno in questo senso: l'individualità biologica è replicabile, si può clonare, e già esistono i gemelli. È solo dove c'è esperienza (quindi in misura minore forse anche per molte creature animali) che le circostanze esterne della nascita di un individuo, che certamente lo distinguono da qualunque altro, lasciano una traccia un po' speciale in lui, quella che ne fa qualcosa di non replicabile in linea di principio, di necessariamente diverso da una fotocopia.
Ma questa traccia, nel nostro caso, non è più una traccia. E' addirittura una prospettiva sulla e un sentimento della realtà, che si articola in quello che chiamiamo un mondo interiore. In questo potremmo trovare la base per una definizione delle persone: delle macchine per trasformare le circostanze esterne in un'essenza individuale, o se volete, le contingenze in un destino.
Duns Scoto, questo particolare legame fra le circostanze distintive della nostra esistenza (il luogo e tempo in cui siamo venuti al mondo con il corpo e le doti che abbiamo, nella situazione e dai genitori che abbiamo) - la chiamava haecceitas: un conio geniale, che dice appunto questo peculiare legame fra il vivere qui ed ora, ed avere un'essenza individuale.
Torniamo all'unicità, questa caratteristica necessaria delle cose che hanno un'essenza individuale. E' straordinario, a pensarci bene, quanto poco i filosofi - con poche eccezioni fra cui quella che abbiamo citata - si siano curati di questa caratteristica che, è vero, ci accomuna tutti, perché tutti la possediamo, senza eccezione; ma pur essendo la proprietà più diffusa fra i figli di Adamo - incomparabilmente più del buon senso, perché quello non ce l'hanno veramente tutti - è anche quella che farebbe di ciascuno di noi un essere prezioso, se solo uno non si sforzasse disperatamente, tutto il tempo, di essere o diventare "come gli altri", invece di accettare la guida dei propri limiti e diventare docilmente ciò che è, o che può essere.
Perché se ne sono occupati così poco, dell'unicità di ciascuno, i filosofi? Lasciamo agli storici questa questione. Perché i filosofi se ne occupano così poco oggi? Forse questa è una domanda da cui ripartire, un'altra volta.
12. Coralli o individui? Per un'etica della società civile
Avevo promesso che ci saremmo messi alla ricerca di quelle forze e di quei fatti che ci offuscano la vista di questo nostro carattere essenziale, la nostra unicità. Fatti di metafisica quotidiana, o piuttosto fatti che la nascondono. Oggi me ne è venuto fra le mani uno - se è un fatto, ma ancora io spero che non lo sia - particolarmente esemplare, nella sua "buonistica" ottusità. Leggo che la Provincia di Milano avrebbe stanziato 480 mila euro per ripagare i danni causati dai cinque sciagurati ragazzi che hanno allagato il Liceo Parini di Milano.
La mia speranza è che questo stanziamento, ottenuto azzerando il già magro bilancio delle migliorie - non sia che un anticipo delle spese che logicamente spetta ai responsabili del danno di pagare (in base alle leggi che regolano la responsabilità civile dei minorenni: dunque alle loro famiglie). Ma supponete che non sia così. Supponete che ogni volta che degli atti di vandalismo privati danneggiano beni pubblici, i pubblici poteri, invece di intentare causa ai responsabili, provvedano a sanare il danno a spese della collettività.
Ecco, non è questo un argomento molto convincente a favore della tesi che è meglio considerarsi più simile a un ramo di corallo che a un individuo dotato di una propria personalità, e in particolare di un'identità morale? Ramo di corallo e individuo personale appartengono entrambi a una collettività: solo che nel primo caso l'appartenenza prevale a tal punto sull'identità individuale che qualunque cosa avvenga a un singolo ramo, avviene al tutto. Paga il corpo sociale corallifero, questa affascinante metafora dell'idea di responsabilità illimitata che ciascun ramo di corallo avrà per tutti gli altri, equivalente di fatto a nessuna responsabilità del singolo ramo. Un'idea doppia proprio nel senso popolare del termine: con l'occhio sinistro fa l'occhiolino alla Solidarietà, mentre chiude l'occhio destro sulla rapina di denaro pubblico che in questo caso sarebbe perpetrata.
Si diceva la settimana scorsa che una persona può essere definita una macchina capace di trasformare le circostanze in natura propria. Di fare di ciò che uno riceve in sorte - questo corpo, queste risorse, questi legami, questa eredità - parte della propria essenza. E' per questa capacità che un corpo umano acquista il marchio e lo stile proprio di una persona, e un volto e un nome. Ma come avviene questo? In parte attraverso l'esperienza e la memoria, questi processi di interiorizzazione del dato. Ma in parte anche maggiore attraverso l'azione. Noi abbiamo un potere di iniziativa, nel bene e nel male, che le altre creature animali non sembrano avere. Non bisognerebbe mitizzare il libero arbitrio, ma capirne bene la natura. Per tutta la vita noi apprendiamo il nesso fra ciò che facciamo e ciò che accade.
Proprio perché viviamo insieme con gli altri, le conseguenze della singola azione sfuggono in gran parte alla previsione: passano attraverso la pluralità e l'intreccio delle azioni di ciascuno. Noi impariamo penosamente a riconoscerci responsabili di ciò che facciamo: cioè a riconoscerci cause non di tutto ciò che il nostro agire produce mescolandosi con quello altrui, né di niente di quello che la nostra iniziativa produce - ma di qualcosa. Qualcosa che a volte, però, è addirittura calcolabile in centinaia di migliaia di euro di danni. Dolorosa sorpresa apprenderlo, non c'è dubbio. Eppure, supponete che il corpo sociale ogni volta ripristini lo stato precedente all'azione dei singoli, comportandosi come un organismo invece che come una società civile: come farebbero i singoli ad acquistare quella consapevolezza della loro responsabilità senza cui non si dà azione libera, cioè azione individuale? La ragazza che ha detto essere "ingiusto" che le conseguenze del suo gesto fossero pagate dalla sua famiglia potrebbe magari evitare un doloroso senso di colpa, ma subirebbe in cambio l'ingiustizia ben più grave di non potere imparare ad essere libera. Ad essere più che un ramo di corallo.
Nel secolo scorso atroci conseguenze discesero dalla cattiva filosofia che chiama "astuzia della ragione" l'imprevedibilità di tutte le conseguenze di un'azione individuale, e Soggetto solo il Tutto - la società, la storia, lo Stato. Che la gran tragedia debba replicarsi in forma di minuscola farsa, e nel paese dello scetticismo - il nostro - all'incubo dello Stato etico debba seguire la burla di Mamma Provincia? Oh speriamo di no, speriamo che sia solo un brutto sogno.
13. Il sonno della mente e due tipi di stupore
C'è uno stupore di stupidità e uno di meraviglia. La differenza è un po’ come quella che c’è fra le orecchie otturate in un aereo che decolla, e la giusta pressione ristabilita dopo uno sbadiglio. Nel primo stato i suoni perdono il loro senso, e quel che ne resta è come un punto di domanda: ma sono punti di domanda ottusi. Nel secondo stato, nel silenzio trascendentale che per un attimo si instaura dopo lo sbadiglio, e prima che ricominci il chiacchiericcio confuso, il rumore di fondo della vita, i suoni, nitidi e come nuovi, diventano di nuovo enigmatici, ma questa volta come per eccesso di senso. Così è lo stupore di meraviglia.
Ciò che ordinariamente chiamiamo stato di veglia, purtroppo, è più simile alla prima condizione che alla seconda. O forse è solo una condizione intermedia fra le due, che ci consente di carpire alle cose quel tanto di senso necessario a trattarle rapidamente come si conviene: prendere il tram, scegliere le verdure al mercato, cercare informazioni in rete, eccetera. Abbiamo sul filo delle settimane evocato qualche esempio del nostro ordinario sonnambulismo. E’ forse più facile accorgercene per quanto riguarda il sonnambulismo morale, e più in generale la sordità o cecità ai valori: estetici, ad esempio. Il sonno del sentire e i risvegli del cuore: tutti ne abbiamo esperienza. La tradizione biblica ci fornisce anche espressioni proverbiali per questo: il cuore "accecato", per esempio. La sua "durezza".
Ma esiste anche un sonnambulismo della mente, o per essere precisi, un più generale sonnambulismo della coscienza, che è più difficile da riconoscere. I poeti e gli uomini di religione, che sono i professionisti dei "passaggi di stato" - dallo stupore di stupidità allo stupore di meraviglia - l’hanno sovente lamentato, riconosciuto - e scosso, anche negli altri. Fra i filosofi, alcuni sono acutamente consapevoli di questa differenza fra i due stupori - che è poi la differenza fra l’ovvietà quotidiana e la silenziosa evidenza del non ancora detto. Fra i filosofi del passato furono acutissimamente consapevoli di questa differenza Platone e Leibniz. Fra quelli del presente lo sono soprattutto - o forse soltanto - i fenomenologi.
Bisognerebbe, per capire bene il senso di questa bella parola, "fenomenologia", avere nell’orecchio anche il senso spettacolare di "fenomeno": "portento", anche, ciò che si fa ammirare. E’ nella prima giovinezza, di solito, che siamo in questo senso sensibili al fenomeno, se non di ciascuna cosa, almeno di qualcuna. Che intravediamo la profondità essenziale della cosa che si vede: ogni bel volto colpisce con l’enigma della bellezza, ogni atto ingiusto ferisce con l’inafferrabilità opaca del male. L’essenza di qualcosa, per alcuni, diventa una causa di vita, ci si dedicano i propri studi e tutto il proprio ingegno. Noi sappiamo che il mondo esiste da un pezzo, e che molti e molti altri hanno vissuto prima di noi: ma lo viviamo, necessariamente, come dovette apparire al primo uomo, dato che ognuno di noi vive per la prima volta. Lo dimentichiamo presto, perché il mondo lentamente ma inesorabilmente si ricopre dei concetti belli e fatti che apprendiamo con la nostra lingua, e cessa di stupirci.
In un certo senso, la fenomenologia è la filosofia della giovinezza, o della novità del mondo. I suoi maestri furono soprattutto colpiti da questo, e il primo di loro estrasse, dalla meraviglia del nuovo darsi di ogni cosa, la forma più comprensiva della giovinezza della mente, e la chiamò coscienza pura. I migliori fra i suoi seguaci lo contestarono su un punto: coscienza pura è la prima parola, ma non l’ultima, della fenomenologia. La seconda, e più importante perché risponde all’amore di verità che è la filosofia, è la parola realtà. E l’aggettivo principale di questo sostantivo è "infinita". Passare dallo stupore di stupidità a quello di meraviglia è riscuotersi un momento dallo stato di svagatezza-incoscienza-ignoranza in cui possiamo agire, per accorgersi che approfondire anche un solo dettaglio dell’essenziale di ciascuna cosa - il volo di quest’ala d’aereo, per esempio, che fende il cielo affidato all’esattezza dei calcoli di chi l’ha costruito, o l’universo spirituale racchiuso entro queste dodici battute di musica, di cui giunge al mio orecchio solo la carezzevole superficie - richiederebbe una vita intera. Una per ciascuna cosa.
14. “Come stai?”, troppe risposte false
Sulla rivista “Science”, a quanto risulta da un articolo uscito a firma di Massimo Piattelli Palmarini su un grande quotidiano, sono stati pubblicati i risultati di una ricerca empirica americana sul rapporto fra le percezioni soggettive del proprio stato di benessere o malessere fisico (stanchezza, sonnolenza eccetera) e psichico (umore) da un lato, e le concezioni che i soggetti hanno di quello che conta e non conta per la loro “felicità”. Risultato, una discrepanza sorprendente fra ciò che “viviamo” come negativo e positivo e ciò che crediamo esser tale. Certo, in un articolo di giornale è difficile rendere il senso della scienza, ma qui davvero si resta a bocca aperta di fronte alle conclusioni. A meno che sia una confusione così diffusa da essere ormai la norma americana, quella di prendere la vicenda degli stati e degli umori, la dimensione, diciamo così, meteorologica dell’affettività quotidiana, per la questione eminentemente personale delle proprie ragioni d’essere, delle cose e altre persone che stanno più e meno a cuore, e insomma di ciò che mette in gioco addirittura la felicità: cioè la fioritura, la pienezza che è la vita conforme alla propria essenza, per ciascuno diversa. Felicità è anche la capacità di soffrire a causa di quello che ci sta più o meno a cuore, ma potendo ancora consentire all’ordine delle cose che ci stanno a cuore: a quello stesso che ci espone a sofferenze possibili. Questo ordine di preferenze di valore, consentendo al quale confessiamo la nostra identità profonda, noi lo chiamiamo anche senso. E infatti nulla mette a più dura prova la felicità possibile che il dolore privo di senso, il dolore assurdo. La felicità è più in generale la piena attivazione, il vigere dalla superficie all’estrema profondità, di tutti gli strati del sentire che ci costituiscono. Forse per questo non esiste piena che là dove il sentire si risveglia e ci scopre più grandi, più vivi, così che sentiamo in noi il respiro che si allarga, mentre si fa più capace e più puro il sentimento della realtà. Ma infine, è possibile che sia davvero tanto diffusa quanto questa ricerca empirica accerta, la confusione fra il senso della domanda “come stai” e il senso della domanda “chi sei”? Cioè: dov’è il tuo buon demone, quello che regge il filo fragile della tua “eudaimonia” o felicità? Che cosa veramente rallegra te, che cosa ti resuscita dai morti? Che cosa ti risveglia a una possibilità d’essere che è essenzialmente tua, che cosa attiva in te un più profondo consenso all’essere e anche a ciò che tu sei?
Temo non fossero queste né simili le domande del questionario sulla felicità quotidiana, poi corredati dalla lista elettronica degli stati somatici e umorali di ciascun soggetto, per coglierlo in flagrante delitto di incoerenza fra le sue lamentele e le sue sensazioni. Ma noi da questa ricerca impariamo tre cose. La prima è la ragione per cui molti si dilungano tanto al telefono, quando si sentono rivolgere la domanda “come stai”? Com’era meglio, a pensarci, la perfetta spietatezza con cui una nostra grande saggista e scrittrice, Cristina Campo, chiudeva certe sue lettere, chiedendo al destinatario, invece di informarsi sulla sua salute: “Su che cosa fonda oggi la sua vita? Che cosa legge?”. La seconda, è la statistica che ci conferma quanto sia diffusa (forse non solo in America, purtroppo) la riduzione del sentire alla sua sfera di base, quella appunto dove uno incontra i propri stati fisici e psichici, ma ancora non incontra se stesso, il che avviene solo quando incontra le cose che gli stanno a cuore. E questa è una delle cause che ci offuscano la vista su quel dato di quotidiana metafisica che è l’unicità d’essenza di ciascuno, radice della sua preziosità. Ne eravamo in cerca, ma ci è venuta fra le mani con una terza lezione, dove la voce di un premio Nobel ci avverte di “fare attenzione all’enorme importanza del tempo, la risorsa oggi più scarsa per tutti”.
15. Nessun conflitto nel nome di Allah
“A chi gli domandava in che modo si potesse sconfiggere la violenza del Male, Francesco d'Assisi un giorno rispose: "Perché aggredire le tenebre? Basta accendere una luce, e le tenebre fuggono spaventate"”. Questo è l'inizio davvero illuminante di un piccolo libro che chi scrive vorrebbe regalare per Natale a tutti i suoi amici - ma anche e soprattutto alle persone che si ostinano a diffondere l'idea che sia in corso un "conflitto di civiltà" - intendendo un conflitto, in ultima analisi, di modi di concepire il divino, con tutto quello che ne consegue anche per la vita delle civiltà e la mente di chi vi appartiene, sia o no uomo di fede. Soprattutto costoro di questo libro prezioso avrebbero bisogno, per imparare a non nominare il nome di Dio invano.
Proprio così, con una sola variante (Non nominare il nome di Allah invano) suona il titolo di questo breve e poetico trattato di Massimo Jevolella, scrittore e studioso delle religioni abramitiche, in particolare della mistica e della filosofia di radice islamica - cui ha dedicato saggi mirabili e finissime traduzioni. (Il libro, uscito quest'anno da Boroli, contiene anche una ricca postfazione di Franco Cardini su L'enigma storico dell'islam). Si tratta di un piccolo capolavoro sul cuore spirituale dell'islam, cioè sull'avventura interiore di rinnovamento e liberazione, d'amore e di distacco, di fede e di abbandono di cui vive ogni grande religione, e di cui vivono in particolare quelle del Libro. L'esattezza filologica è qui la migliore introduzione alla precisione del cuore. La parola ebraica che San Gerolamo tradusse in vanum non dice affatto la vanitas, la banalizzazione del nome di Dio o la sua menzione futile: ma il vero e proprio contrabbandare per divino quello che al divino è contrario - violenza, vendetta, sopraffazione, terrorismo.
Quale che sia la parte da cui proviene, è sfruttamento del nome di Dio, ed è quel vero e proprio "peccato contro lo Spirito" contro il quale il lettore troverà, attraverso tutto il Corano e l'opera dei saggi e dei filosofi della tradizione islamica, qui sapientemente commentati, espressioni di condanna non meno esplicite che nel Vangelo di Matteo (12, 31): “Qualunque peccato o bestemmia saranno perdonati agli uomini, ma il peccato contro lo Spirito non sarà perdonato”. E', insomma, un'utilissima guida a quel continente sommerso che è l'islam spirituale, contrapposto al fanatismo dei falsi profeti che dalla terra e dal cielo distribuiscono morte e la chiamano Iddio. Guerra santa o Valori dell'Occidente, magliette, bandiere e bombe.
Ma se prestiamo ascolto a questa mite, garbatissima, accorata denuncia della cecità spirituale di tutti gli Al-mu'tadin di oggi (i fanatici del "Dio lo vuole"), non è solo perché è Natale, ed è tempo di leggere anche il Corano come quel "libro di pace" che la scelta antologica e l'accurato commento di Jevolella ci insegnano a conoscere. (E nemmeno soltanto per consigliare un antidoto di intelligenza tanto alla banalità del male - quello vero- quanto all'innocua ma folgorante ignoranza delle maestre che sostituiscono Cappuccetto Rosso alla cometa e alla capanna per non urtare i piccoli musulmani).
Non solo per queste ragioni, ma perché c'è in questo libro una meditazione sulla luce che dalla splendida citazione iniziale da San Francesco alla riflessione sulle difficili parole del Prologo di Giovanni ci riconduce diritti al filo conduttore di queste nostre domeniche - il tema della cecità e dei risvegli. Come hanno fatto le "tenebre" a "non accogliere" la luce? Perché agli occhi nostri quella che è detta Luce si presenta piuttosto come notte, perché anche il Regno può venire "come un ladro nella notte"?
Diamo parola all'autore: “Anche Gesù, luce del mondo, nasce nel cuore di una notte del solstizio d'inverno, proprio quando il sole sembra rotolare per sempre negli abissi, e il buio celebra il suo maggior trionfo sulla luce. Eppure questo sarebbe solo un mito carico di fascino, se il suo significato vero non fosse un altro. E cioè, se il Natale di Cristo non avvenisse in definitiva nel cuore dell'uomo (…) Luce e verità sono dentro di noi, e il Natale di Cristo, così come l'islamica Notte del destino, si celebrano ogni volta che noi riusciamo a ritrovarle”.
16. Sul ponte di San Luis Rey i segreti delle vite spezzate
In un suo magistrale racconto, Il ponte di San Luis Rey, Thornton Wilder immagina un religioso, Fratel Ginepro, alla ricerca del segreto di ciascuna delle vite immaturamente spezzate dall'improvviso crollo del ponte, sul quale si trovavano in un giorno qualunque a passare. Se ricordo bene, non sono più di una dozzina le vittime del disastro, cui la ricerca del religioso restituisce un nome e la memoria di una vita incomparabile. Una dozzina al più - niente di paragonabile alle cifre apocalittiche della catastrofe naturale su cui si è chiuso il quarto anno del secondo millennio. Eppure l'esiguità stessa di questo plurale indica meglio di ogni argomento l'infeconda illusione su cui si basano gli argomenti, che siano di accusa o di difesa, delle teodicee: vale a dire di quei "processi a Dio" che si aprono nella mente dei filosofi di fronte all'irrompere del male - specie di quello che non si può onestamente ricondurre a una qualche intenzione umana di nuocere. Sotto il terremoto di Lisbona Voltaire seppellì la teodicea di Leibniz - benché molto ante litteram ci avesse già pensato Giobbe, a coprire di ridicolo i ragionamenti dei teologi sul nesso fra colpe e punizioni. Anche se la teodicea di Lebniz, va detto a suo onore, non ha niente a che fare col nesso fra colpe e punizioni. Ma l'illusione di cui parlo è più circoscritta: oggi nessuno prova a "giustificare" Iddio, molti però sono sconvolti dall'enormità dei numeri del dolore. Ma se una vita individuale è incomparabile, anche una sola morte prematura è irreparabile. E per quanto questo contrasti con le nostre abitudini di calcolo, la perdita dell'assoluto di una vita non può accrescersi né diminuire con la moltiplicazione delle vite perdute.
Simile a questa, benché meno drammatiche, sono due altre illusioni che la vita quotidiana, che della quotidiana metafisica è il luogo, sembra fatta per nutrire in noi. La prima è che ci sarà tempo: per leggere altri libri, per imparare altre arti, per capire ciò che è degno di essere capito ma non è urgente. La seconda è che il numero dei libri letti, o delle arti praticate, o dei giorni nuovi vissuti, possa dare una misura di grandezza alle nostre vite. Dal dubbio, che ciascuno nutre in fondo all'anima, su queste apparenti ovvietà, nasce quella sorta di caricatura dell'onniscienza che è l'ansia delle nostre menti, tanto più dispersive e smarrite quanto più avide e curiose di novità. “Ogni mente è onnisciente - ma confusa” - sorrideva Leibniz spiegando il destino delle menti finite, eppure in un senso assolute: ma che la loro assolutezza fraintendono. “C'è un non so che di architettante e armonico - scriveva ancora Leibniz - che non appena è liberato dal compito di dirimere le idee, si mette a comporne”. Cos'è questa strana spontaneità, questa produttiva facoltà del nuovo, questo potere architettante e armonico, che sfugge talmente al nostro volere da dover essere piuttosto sempre "liberato dai compiti", per vivere e creare? La sua sola "assolutezza" è la sua unicità, che fa di ciascuno di noi il centro di una prospettiva inedita e di un agire non replicabile (si duo faciunt, non est unum). Ma la nostra condizione sembra fatta apposta per nasconderci questa unicità, radice della preziosità di ogni persona. Essa è talmente in contrasto con le nostre abitudini di vita. Solo da uno, poi da un altro, raramente da un altro ancora - e comunque da uno alla volta- noi impariamo qualcosa, e un pezzo di noi si risveglia: come se dalle mani di quest'uno fossimo donati a noi stessi. Eppure i programmi di studio, di insegnamento, di lettura nascondono l'unicità sotto l'uniforme pluralità dei riferimenti. E così è dappertutto. In una biblioteca ci sono molti libri, ma ciascuno è vivo solo in quanto sia - per il tempo in cui vive insieme a noi - l'unico. Il filo segreto dei giorni di ciascuno è legato a segni che formano, nella loro concatenazione, un linguaggio unico, creato appositamente per fare un discorso indirizzato solo a lui: ma noi, invece, siamo fatti per capire solo i linguaggi comuni. Ogni impresa che miri a realizzare del bene, materiale o immateriale, deve associare, convincere, armonizzare i molti; eppure ogni bontà ha un'origine, ogni idea sorgiva una sola fonte, e di questa solitudine si nutre.
Forse un teologo medievale, partendo da queste mute evidenze, avrebbe potuto architettare una dimostrazione armonica dell'esistenza di Dio a pluralitate rerum et unicitate vitae… Forse, in fondo a qualcuno degli innumerevoli scaffali di una delle innumerevoli biblioteche del mondo, questa dimostrazione esiste.
17. Solo la bellezza manda la mente in vacanza
Molti di noi, accingendosi a riprendere le occupazioni ordinarie, hanno ancora negli occhi la bellezza di un'opera, o di un pezzo di natura: un regalo dentro il regalo di qualche giorno di vacanza, a molti offerto, nonostante tutto. Uno dei rari doni capaci di farci sperimentare la profondità di senso di questa parola, “vacanza”.
Raramente ho trovato un'espressione più concisa ed esatta dell'esperienza estetica pura - l'esperienza del Bello - che in queste parole di un tema scolastico scritto da una ragazza diciassettenne di nome Simone Weil: “Cammino guardandomi intorno e vedo un tempio: il primo effetto che ha su di me è di fermarmi. L'ammasso di pietre che avevo visto prima non mi aveva fatto fermare. Avevo continuato il mio cammino senza pensarci e, seppure ci avevo pensato, era per domandarmi chi l'avesse messo lì, a cosa servisse; o per ricordarmi di altri ammassi di pietre... Ma davanti al tempio, non penso a nient'altro che al tempio: il tempio ferma il mio cuore e la mia mente”.
Questo arresto di ogni attività, questo silenzio, sono i segni di uno stato di contemplazione. Sembra una parola difficile, e invece vale semplicemente: attenzione pura, assoluta, senza scopi e senza calcoli. Fare il vuoto dove c'era l'io: vacatio mentis, per diventare solo la grande camera oscura di un occhio sgranato sullo splendore del bello.
C'è un legame profondo fra l'esperienza religiosa e l'esperienza estetica. Ben lo sapevano gli antichi, che avevano una sola parola, Cosmo, per l'Ordine e la Bellezza del mondo: per le sue qualità “divine”, appunto. Ma le parole hanno una lunga storia, e anche la nostra modesta cosmetica ha radice nell'intuizione greca della bellezza. Il solo fra i sommi valori, detti i Trascendentali (ombre di Dio, per così dire) che nessuna filosofia moderna riesce a detronizzare. Gli altri tre - l'Uno il Vero e il Bene - la maggior parte dei filosofi li ha mandati in qualche casa di riposo. Il Bello, no. Si può essere più o meno d'accordo con il calcolo che sfrutta questo fatto - ma le nostre patinate riviste piene di belle donne e belle foto non venderebbero forse neppur un decimo delle loro copie se non porgessero omaggio a quest'ultima divinità, la Bellezza.
Eppure, la gente che fa la coda per entrare in un museo non è idolatra alla maniera in cui, pur scherzosamente, si può dire lo siano i lettori e le lettrici di riviste femminili. No, lì c'è proprio altro che è in gioco. Il bello non arresta solo il respiro, non fa solo tremare di sgomento. Da qualche parte sappiamo che salva. Salva o rinnova una parte di noi e della nostra vita, anche per chi fosse scettico sulla profezia del principe Miskin, il protagonista de L'idiota di Dostoevskij - che la bellezza salverà il mondo. Solo che per accorgersi di questo potere di salvezza, bisogna aver sofferto.
Questo è uno dei messaggi più misteriosi della sapienza di tutti i tempi - noi ne abbiamo un condensato nel Libro di Giobbe. Alla fine della storia, l'Eterno scende verso Giobbe, ma non per consolarlo. Si limita a mostrargli la terribile bellezza del mondo. Eppure questo basta. Come accade al protagonista di un dramma incompiuto della Weil, Venezia salva. Il personaggio principale si rivela un giusto. Capo della congiura che avrebbe dovuto portare alla conquista e all'asservimento di Venezia ancora nel pieno fulgore della sua grandezza, decide invece di sacrificarsi per salvarla. Subirà il destino di un traditore, e condividerà la sorte delle vittime di questo mondo. Ma avrà veduto ciò cui restano ciechi i violenti, vincitori: la bellezza di Venezia.
18. Attenzione: ecco la vera musa (anzi la virtù) dei poeti
Citavamo domenica scorsa una pagina di Simone Weil sulla bellezza, e sul caratteristico risveglio e rinnovamento della mente che ne è l'effetto. Vorrei riprendere il filo di questa riflessione, che attraversa a volo il bello di natura e sosta ancora un momento sul bello dell'opera, vale a dire sull'opera riuscita - che poi dipinga il bello o il brutto della nostra condizione. L'opera d'arte, ad esempio di poesia.
Siamo stati abituati ad associare la poesia alla fantasia, all'immaginazione. Ma è davvero “dall'immaginazione” che nascono le immagini poetiche? Questa, che ha l'apparenza di un truismo, rischia invece di essere un'idea sbagliata, o per lo meno vuota. In ogni caso è un'idea romantica, in cui i migliori poeti e i migliori filosofi non hanno mai veramente creduto fino in fondo. Scrive ad esempio Mario Luzi: “La nascita dell'immagine durante la quale l'animo si equipara… all'oggetto stesso della sua emozione, è il momento necessario che il poeta, vissuta la sua prosa, aspetta non dalla sua immaginazione, ma dal suo plenario sgomento”.
Quanto a Simone Weil, lei torna incessantemente sull'esperienza dei suoi 17 anni: l'arresto del respiro e di tutte le “facoltà lavoratrici”, il loro silenzio stupefatto e grato: “Quando si fa perfettamente attenzione a una musica perfettamente bella (e lo stesso vale per l'architettura, la pittura, eccetera), l'intelligenza non vi trova alcunché da affermare o negare. Ma tutte le facoltà dell'anima, compresa l'intelligenza, fanno silenzio e sono sospese all'ascolto… E l'intelligenza, che non vi afferra alcuna verità, vi trova però nutrimento”. Ci vuole quel vuoto d'aria pura, di cielo limpido, che è la mente sgombra, non solo per vedere la prima realtà, ma anche per vedere la seconda realtà di cui parla Platone.
“Vedere”. Anche Leopardi, che pure parla molto dell'immaginazione, la definisce proprio come una seconda vista: “All'uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà con gli occhi una torre, una campagna; udrà con gli orecchi un suono di una campana; e nel tempo stesso (…) vedrà un'altra torre, un'altra campagna, udirà un altro suono. In questo secondo genere di oggetti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione”.
C'è un'altra vista oltre a quella degli occhi, e il suo nome è: attenzione. Ecco come si esprime su questa Cristina Campo (1923-1977), in un saggio dal titolo Attenzione e Poesia: “L'attenzione è il solo cammino verso l'inesprimibile, la sola strada al mistero. I simboli delle Sacre Scritture, dei miti, delle fiabe, che per millenni hanno nutrito e consacrato la vita, si vestono delle forme più concrete di questa terra: dal Cespuglio Ardente al Grillo Parlante, dal Pomo della conoscenza alle Zucche di Cenerentola. Davanti alla realtà l'immaginazione indietreggia. L'attenzione la penetra invece, direttamente e come simbolo. (…) La parola svela istantaneamente a quale grado di attenzione sia nata”.
L'attenzione non è certamente solo la virtù dei poeti : anzi, lungi dall'essere una virtù minore, forse è il fondamento stesso di ogni virtù. Forse le più belle sue definizioni ce le ha date proprio Simone Weil, che nei suoi poco più che trent'anni di vita ha condensato l'esperienza di ogni assoluto - morale, estetico, teologico. Ecco cosa scrive, ad esempio, sull'attenzione: “L'attenzione consiste nella sospensione del pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e penetrabile all'oggetto, a mantenere dentro di sé, vicine al pensiero, ma a un livello inferiore e senza contatto con esso, le diverse conoscenze acquisite che si è costretti a utilizzare. (…) Ma soprattutto la mente deve essere vuota, in attesa, non cercare niente, ma essere pronta a ricevere nella sua verità nuda l'oggetto che sta per penetrarvi”.
Secondo un'altra pensatrice esperta d'assoluti, Edith Stein, l'attenzione è “la capacità di accogliere veramente la realtà nella sua individualità e nelle sue esigenze”. Presuppone evidentemente rispetto e umiltà, senso dell'evidenza e senso della trascendenza, capacità di ritrarsi e fiducia in ciò che è offerto, sentimento della profondità nascosta e fedeltà a quanto ciascuna cosa è, e infine abbandono e distacco. Forse dall'attenzione si dovrebbe partire per scrivere un piccolo trattato delle virtù. Non solo quelle del contemplativo. Forse bisognerebbe cominciare a rendere conto, e a rendere ragione, del fondamento silenzioso, quieto, ricettivo, e per nulla “attivo” della ragione pratica, e di ogni fare “giusto”, adeguato. Del suo fondamento contemplativo.
19. L'apologo di Schnitzler nella Vienna antisemita
Restando in tema di attenzione e di poesia, vorrei proporvi oggi una riflessione che trae il suo spunto dalla bellissima commedia di Arthur Schnitzler (scritta nel 1912), Il professor Bernhardi, in scena al Teatro Strehler di Milano per la regia di Luca Ronconi. Bianchi camici, candore di mobilia e suppellettili, lunare più che asettico: la scena d'apertura è l'ospedale modello diretto dal professor Bernhardi, medico e uomo di ricerca, ma anche uomo di buona volontà, che all'amore di verità dello scienziato e all'efficienza del dirigente unisce una sorridente fiducia nel suo prossimo: una fiducia impaziente di meschinità, ignara di bassezze, naturalmente propensa a credere che buona fede e amore di verità siano cose di senso comune. Lo spettatore lo percepisce subito: Bernhardi entra in scena come planando sovranamente, affabile e deciso, verso le Cose che importano, qualche metro al di sopra degli affarucci e delle beghe in cui nuotano colleghi e allievi, così come delle loro opposte ansietà d'affermazione personale o ideologica (siamo in una Vienna percorsa da brividi di antisemitismo e rigurgiti reazionari, si avverte che fuori dell'ospedale il vento dell'opinione e della politica sta cambiando, e alterando gli equilibri da cui dipendevano i finanziamenti dell'ospedale modello: nihil novi sub sole). Si consuma l'evento che dà luogo al dramma: c'è in ospedale una ragazza, una diciottenne moribonda, a causa di una setticemia dovuta evidentemente all'intervento di qualche mammana. La ragazza non ha lo straccio di un parente, l'uomo che l'ha evidentemente abbandonata resta latitante. Bernhardi esce dalla sala di degenza con un'espressione luminosa e perplessa, come incantato dallo strano prodigio - di natura o di qualche insondabile sapienza - che fa dell'ultima ora di vita della sventurata l'ora forse più bella. La ragazza è euforica, si sente meravigliosamente, attende l'arrivo certissimo dell'amato che la porterà via con sé. Lo spettatore percepisce nelle parole e nell'atteggiamento del medico, mentre racconta tutto questo, come un senso di pietas, di rispetto e stupore di fronte all'ignoto, che Massimo De Francovich, in veste di Bernhardi, è bravissimo a rendere: ed è un momento cruciale. Ma arriva il prete per "i conforti della religione": chiamato non dalla paziente (che non ha mai manifestato il minimo segno di "pentimento") ma da uno dei personaggi minori dell'ansia ideologica, un'infermiera un po' bigotta.
Il dialogo fra il medico e il sacerdote è un altro momento straordinario. L'uomo vestito della sua bruna tonaca e quello avvolto nel bianco del camice sono altrettanto limpidi nell'enunciato del loro dovere - niente a che vedere con i personaggi della mediocrità, della banalità del male - ma i loro doveri sono tragicamente in conflitto. Bernhardi impedisce al sacerdote di spezzare con i suoi conforti la verità della morente, che è, nella fattispecie, l'estrema serenità del suo morire. Pagherà duramente questo gesto: nel seguito del dramma si intrecciano le trame, gli imbrogli, gli interessi di parte che portano a una condanna penale del protagonista, con relativa incarcerazione, per vilipendio alla religione cattolica.
C'è un'indimenticabile resoconto, certo memore di Platone, del modo in cui vira secondo il vento dell'Opinione l'eloquenza del Politico (il bravissimo Massimo Popolizio, irresistibile nella sua grottesca somiglianza ad ogni piccolo "uomo della provvidenza" che la nostra interessata sbadataggine manda al potere, nihil novi sub sole). E poi c'è, a condanna avvenuta, un ultimo dostoevskiano dialogo fra il medico e il sacerdote. Questi riconosce nel suo intimo che il medico “non avrebbe potuto, dal punto di vista del suo dovere, fare altrimenti”. Perché allora, chiede stupito il medico, non testimoniare di questa convinzione al processo? Perché la giustizia umana non è tutto, e al di sopra di essa sta il dovere di testimonianza di fronte a un tribunale più che umano. C'è qualcosa che per quel tribunale valga più del vero? (Chiede smarrito il medico). Vera è anche la vita di tutti quelli che ad esso si affidano, e nella sua visibile presenza confidano, risponde il sacerdote. Lo spettatore uscirà dal teatro come Bernhardi dal carcere, mutato il vento e scontata la pena. Nessun rancore, nessuna rivendicazione, nessun nome proprio in mente: ma solo le domande fondamentali della filosofia - e quelle dell'etica.
20. Hersch, intravedere l'irriducibile attraverso il pensiero
Il conflitto di cui abbiamo parlato domenica scorsa, fra il medico che si prende a cuore l'imperscutabile serenità di una morente e il sacerdote che vorrebbe metterla di fronte alle sue responsabilità sub specie aeterni, era un dilemma morale. Un dilemma autentico, vale a dire un conflitto morale cui bene si addice l'aggettivo tragico, che - se lo usiamo rispettando il peso del suo significato - designa precisamente un conflitto le cui parti hanno entrambe buone, nobili ragioni, o almeno ragioni radicate nella necessità del loro ethos, della loro identità personale e morale: ma il conflitto è o pare senza soluzione. C'è una straordinaria occasione di approfondire la natura di questo tipo di conflitti, non nella banalità delle chiavi sociologiche, di solito ancorate a un relativismo pacifico sì (e questa è una virtù), ma immemore del tragico; bensì nella lucidità di un pensiero che del conflitto tragico, e più in generale dei paradossi della condizione umana, ha fatto il suo dato originario, l'origine dello stupore (quello di meraviglia, non quello di stupidità) da cui nasce la filosofia. Esce oggi in libreria la prima opera di grande spessore teorico di Jeanne Hersch (1910-2000), L'illusione della filosofia, uscita a Ginevra nel 1936 e oggi riproposta da Bruno Mondadori nella traduzione di una giovanissima Fernanda Pivano, che su iniziativa di Nicola Abbagnano lo volse dal francese in italiano per i tipi di Einaudi già nel 1942. Una pensatrice, Jeanne Hersch, di cui il lettore può già trovare nella nostra lingua, sempre da Bruno Mondadori, la Storia della filosofia come stupore, e presso le Edizioni Interlinea la splendida raccolta di saggi (con una prefazione di Jean Starobinski) La nascita di Eva, ma di cui molto altro si annuncia. Ad esempio il secondo suo capolavoro filosofico, L'essere e la forma (1947), e prima ancora il suo romanzo, annunciato per questa primavera da Baldini Castoldi Dalai, che verrà a nutrire questa nostra riflessione sui risvegli della mente e del cuore.
L'illusione della filosofia: grandissimo errore sarebbe intendere questo titolo come se la tesi del libro fosse che la filosofia è illusoria. Al contrario, la filosofia consiste secondo Jeanne Hersch in un costante proporre e dissolvere dall'interno l'illusione di “possedere la propria verità come se fosse il contenuto di un sapere”. Ma allora come può la filosofia possedere verità, e perché una verità “propria”? Ce ne sarebbe dunque più d'una, riguardo a ciascun problema? Qui io credo che ci sia qualcosa di importante da apprendere anche per chi non creda illusorio il compito di conciliare la vitadella mente, che è la vita della persona attraverso “la ricchezza meravigliosa e disperante del mondo in cui viviamo” (Hersch) con il rigore che vuole evidenza e ragioni per le asserzioni che si fanno. C'è una “verità” che noi riconosciamo a sistemi di pensiero il cui significato sostanziale persiste anche dopo che la loro illusione di possedere un contenuto oggettivo del sapere è stata svelata (altrimenti non studieremmo tutti i grandi filosofi del passato). Perché? Perché l'essenziale di un pensiero filosofico resta inesprimibile. Questo lo dissero Platone e più recentemente Wittgenstein, ma Jeanne Hersch sarebbe d'accordo. E perché inesprimibile? Perché esprimendolo in proposizioni che pretendono ciascuna a verità oggettiva se ne perde semplicemente la metà del senso, che è l'esercizio di libertà in cui una vita personale si definisce, riconoscendosi, come voleva Platone, nel suo proprio demone. O nell'ordine di priorità dei suoi amori, come avrebbe detto Agostino. Questa metà del senso è quella che ciascun pensiero filosofico intende comunicare - perciò “inesprimibile” non vuol dire “ineffabile” - ma che può comunicare soltanto attraverso proposizioni che formulano problemi comprensibili e cercano risposte ragionevoli. “Fare intravedere l'irriducible attraverso pensieri chiari” - questa è la formula herschiana della filosofia. E l'“irriducibile” è quello che, nella condizione umana, non può essere ridotta ai dati e alle leggi empiriche della natura, della società, della politica e della storia. È la libertà stessa, che non può mai divenire l'oggetto di un'evidenza scientifica, ma che è “ciò con cui si pensa”, l'organo della filosofia. Ecco il delicato pensiero del conflitto tragico. Tragico resta il conflitto di valori finché è scontro di mere posizioni, o peggio di forze. Dogmatica o relativistica l'alternativa per chi vuole possedere la trascendenza in proposizioni. Ma delicatamente affidata alla comunicazione filosofica, questo ponte fra i personaggi di una tragedia o anche di una semplice commedia, la sostanza della vita di ognuno.