Membra Jesu:
la corporeità di Cristo
Gianfranco Ravasi
C'è un punto di partenza imprescindibile quando si vuole delineare la corporeità di Cristo: è l'asserto ho Logos sarX eghéneto, «il Verbo carne divenne», del prologo del Quarto Vangelo, che è nel cuore stesso del cristianesimo. Jorge Luis Borges ha composto nella sua raccolta Elogio dell'ombra (1969), una poesia intitolata semplicemente Giovanni 1,14 per celebrare proprio l'Incarnazione come centro della novità cristiana. Nei versi d'avvio è il Cristo stesso a confessare: «Io sono l'È, il Fu, il Sarà / accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo...». Eterno e tempo, infinito e spazio, assoluto e relativo, divino e "carnale" (cioè umano), s'intrecciano tra loro in modo inestricabile. Perciò, non deve stupire il fatto che si possano fare analisi di taglio non solo teologico, ma anche artistico sulla Christian materiality, come la chiamava Caroline Walker Bynum nel titolo stesso di un suo saggio pubblicato a New York nel 2011. Né deve impressionare che ci si possa persino interessare della Sessualità di Cristo nell'arte rinascimentale e il suo oblio nell'età moderna, titolo e soggetto di un famoso saggio di Leo Steinberg, tradotto in italiano nel 1986.
Una paradossale assenza
Certo è che nella Bibbia ci troviamo di fronte a un paradosso che in realtà risulta non una contraddizione dialettica, bensì un contrappunto armonico e fecondo. Da un lato, si ha una conclamata proclamazione di aniconismo, di ascesi figurativa, di trascendenza purissima contro ogni idolo sacrale (il vitello d'oro), come si legge nel celebre primo comandamento: «Non ti farai idolo né immagine alcuna...» (Es 20,4). Al Sinai «il Signore vi parlò dal fuoco: voce di parole (qól devarím) voi ascoltavate, figura (temûnah) alcuna voi non vedevate, solo una voce» (Dt 4,12). Da qui discenderà l'iconoclasmo presente in certe fasi della stessa storia della cristianità, accanto al sostanziale silenzio iconico dell'ebraismo e dell'islam classico.
D'altro lato, però, la corporeità ha un peso straordinario nella Bibbia. È ciò che è attestato da un'antropologia orientata a esaltare proprio il corpo come compatta e unitaria struttura dell'essere umano, rigettando ogni dualismo anima-corpo, caro invece alla concezione greca, destinata ad avere forte influsso in una certa tradizione cristiana successiva. Per la Bibbia l'uomo ha un nesso profondo con la materia, simbolicamente rappresentata dalla "polvere" della terra (Gen 2,7); l'"immagine" del Creatore è stampata nella fecondità generativa («Dio creò l'uomo a sua immagine... maschio e femmina li creò» Gen 1,27); il Cantico dei cantici è la celebrazione della sessualità che si trasfigura in eros, in tenerezza e passione e s'invera nell'amore pieno e assoluto; Giobbe e il Salterio assegnano un rilievo straordinario alla sofferenza fisica che s'incrocia con quella interiore.
Ebbene, entrambi questi profili - l'aniconico spirituale e il corporeo esistenziale - hanno un loro valore per delineare la realtà piena del corpo di Cristo. Innanzitutto, lo ha proprio quell'aniconismo da cui siamo partiti. I testi evangelici ignorano qualsiasi dato fisiologico descrittivo riguardo a Gesù di Nazaret, lasciando spazio bianco alla creatività artistica che spesso si è dovuta accontentare del ricorso all'allegoria. Così, alcuni Padri della Chiesa, a partire dal III secolo, non esiteranno a immaginare un Gesù dal viso sgraziato, quasi anticipando Rouault, ancorandosi al celebre quarto canto del Servo del Signore, interpretato dal cristianesimo in chiave messianica. In esso si leggeva: «Non ha apparenza né bellezza per attrarre il nostro sguardo, non splendore per poterne godere» (Is 53,2). Lapidario era stato Origene: «Gesù era piccolo e sgraziato, simile a un uomo da nulla».
All'antipodo, ma sempre ricorrendo al tramite ermeneutico allegorico, l'immaginario popolare e altri Padri della Chiesa, a cominciare dal IV secolo, si affideranno all'ideale estetico greco-romano per proporre un Cristo avvenente, incarnazione di un altro passo anticotestamentario riletto in chiave messianica, il carme nuziale regale del Salmo 45: «Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo» (v. 5). E nonostante sant'Agostino ripetesse che «noi ignoriamo totalmente quale fosse il suo volto», fu questa l'immagine vincente, ribadita da mille e mille ritratti stupendi, ma anche da una massa immensa di oleografie devozionali e popolari. Su queste due strade, l'aniconica e l'allegorica, si sono attestate dunque le principali tipologie iconografiche, sia pure secondo variazioni molteplici, ora attualizzate, ora trasfigurate, ora persino degenerate.
Ma come si diceva, non è mancato neppure il ripristino del silenzio aniconico assoluto, non solo nella forma aggressiva dell'iconoclastia, ma anche nella forte semplificazione operata dalla Riforma protestante, convinta talora che fosse meglio affidarsi all'"immaterialità" della musica, evitando la corporeità dell'immagine a rischio idolatrico. Già il famoso storico della Chiesa Eusebio di Cesarea (IV secolo) scriveva polemicamente a Costanza, la sorella dell'imperatore Costantino: «Non so cosa ti abbia indotto a ordinare che venga tracciata un'immagine del nostro Salvatore. Quale immagine di Cristo puoi mai desiderare?». Alla base resisteva la concezione secondo la quale, essendo Gesù «icona del Dio invisibile» (Col 1,15), egli non poteva avere raffigurazioni umane. Contro questa tesi, come è noto, reagirà aspramente san Giovanni Damasceno, il cantore delle icone, e lo farà ribadendo proprio il mistero centrale dell'Incarnazione come principio generativo della legittimità della rappresentazione artistica cristiana.
Mani, labbra, piedi, corpo "carnale" di Cristo
Se è, dunque, vero che è assente nei Vangeli un profilo descrittivo di Cristo, lasciando delusi i "ritrattisti" (si deformerà persino il passo di Luca 19,3 con la "piccolezza" di statura di Zaccheo, applicandola a Gesù, pur di ottenere qualche indizio), è però indiscutibile che in quelle stesse pagine trionfa la corporeità di Cristo. Noi vorremmo ora solo esemplificare questo dato, raccogliendo qualche spunto da una copiosa messe testuale. Faremo, perciò, balenare alcune membra del corpo di Cristo, accompagnandoci idealmente al suggestivo settenario di cantate unitarie, elaborato nel 1680 da Dietrich Buxtehude che evocò (ma in chiave allegorica, ribadendo così la "spiritualizzazione" di quella corporeità, sulla scia della tradizione protestante) sette Membra Jesu nostri (BWV n. 75): piedi, ginocchi, mani, lato, petto, cuore, faccia. Anche noi cercheremo ora di illustrare il corpo storico di Gesù così come affiora soprattutto nella descrizione evangelica del suo ministero pubblico. La nostra, però, sarà solo un'evocazione esemplificativa.
Iniziamo con un organo fondamentale nella sua azione miracolosa: il suo chinarsi sulle carni malate, il suo "toccare" i corpi devastati o inerti vede ovviamente il coinvolgimento delle mani. Emblematico è il caso dei lebbrosi: «Gli venne incontro un lebbroso. Lo supplicava in ginocchio dicendogli: Se vuoi, puoi guarirmi! Gesù, mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: Io lo voglio, guarisci! E subito la lebbra scomparve ed egli guarì» (Mc 1,40-41). Questa affezione in Israele era considerata, per la famosa "tesi della retribuzione" (delitto-castigo, quindi malattia-peccato), una vergogna innominabile. Il lebbroso non era, perciò, soltanto un malato, ma soprattutto uno scomunicato. Egli era ritenuto come se fosse stato punito da Dio per una colpa gravissima, era costretto a vivere alla periferia dei centri abitati, solitamente in caverne-ghetto o, come Giobbe, colpito da «una piaga maligna», in immondezzai, e doveva segnalare la sua presenza appena all'orizzonte si profilasse un cittadino sano e normale. Si legge, infatti, nel libro del Levitico: «Il lebbroso colpito dalla lebbra indosserà vesti stracciate, avrà il capo scoperto e la barba velata. Andrà, gridando: Immondo! Immondo!... E se ne starà fuori dell'accampamento» (13,45-46). Era, di conseguenza, un uomo socialmente morto, schivato con orrore da tutti i fedeli, timorosi di essere infettati non sono fisiologicamente, ma anche e soprattutto moralmente e sacralmente.
Gesù, invece, si mette sulla sua strada, lo accosta e giunge fino al punto di toccarlo. Non soltanto non lo condanna, ma, come nota Marco, si commuove profondamente (splanchnisthéis), lo guarisce e lo invia dai sacerdoti, quasi con una punta di ironia, invitandolo a farsi rilasciare l'attestazione ufficiale di guarigione e di riammissione nella società civile. Abolendo tutti i tabù della casistica etico-giudiziaria di allora, questo atto miracoloso presenta le caratteristiche di un comportamento originale e fin provocatorio di Cristo che privilegia la cura del sofferente sul rispetto del ritualismo sacrale. Altre volte, invece, è la pura e semplice quotidianità ad essere affidata alle mani di Gesù. Pensiamo al caso della suocera febbricitante di Pietro. Le due mani, quella del Salvatore e della malata, s'intrecciano tra loro: «la fece alzare, prendendola per mano e la febbre la lasciò» (Mc 1,31; in Mt 8,15 si legge: «le toccò la mano», quasi tastandole il polso come si fa per misurare le pulsazioni accelerate dalla febbre).
Altre volte il gesto è ancor più concreto e diretto, come quando Cristo «pone le dita negli orecchi e con la saliva tocca la lingua del sordomuto» (Mc 7,33), rimandando a una prassi terapeutica arcaica, quella che riconosceva un potere efficace in alcune sindromi alla saliva, atto che viene ripetuto nel caso del cieco nato quando Gesù «sputa per terra, fa del fango con la saliva e lo spalma sugli occhi del cieco» (Gv 9,6). Altre volte semplicemente «tocca gli occhi ai ciechi» (Mt 9, 29; 20, 34), liberandoli da un'affezione, quella delle sindromi oftalmiche, quasi endemica nell'antico Vicino Oriente, causata da diversi motivi igienici e ambientali. Il "toccare" sanante di Gesù con le sue mani è, quindi, decisivo tant'è vero che questo verbo risuona 39 volte nel Nuovo Testamento.
Abbiamo lasciato largo spazio alle mani di Gesù, ma è evidente che accanto ad esse sono in connessione costante le sue labbra, ossia la sua bocca che parla e Cristo è per eccellenza un maestro che «insegna come uno che ha autorità e non come gli scribi» (Mt 7,29). È interessante segnalare l'uso di una formula di chiaro impianto semitico che è presente nel lemma introduttorio ai discorsi di Gesù: anóixas to stoma autou, "aperta la sua bocca, insegnava loro..." (Mt 5,2). Si tratta del cosiddetto "participio grafico" che vuole descrivere in maniera quasi visiva e solenne l'attività di didaché, di "insegnamento" di Cristo. Una parola la sua che affascina con l'iridescenza simbolica delle parabole, ma che è operativa ed efficace nelle guarigioni, ma anche colpisce in modo folgorante i cuori e blocca persino gli assalti ostili: «I capi dei sacerdoti e i farisei mandarono delle guardie per arrestarlo... Le guardie tornarono dai capi dei sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: Perché non lo avete condotto qui? Risposero le guardie: Mai un uomo ha parlato come parla quest'uomo!» (Gv 7,32.45-46).
Non si possono, però, ignorare i piedi di Gesù, perché egli è spesso rappresentato in viaggio, privo persino di una pietra ove reclinare il capo, come confesserà riconnettendosi all'antica tradizione nomadica dei padri di Israele (Mt 8,20). È significativo che il centro del Vangelo di Luca sia, come noto, occupato - dal c. 9 al c. 19 - da una lunga marcia che conduce Cristo a Gerusalemme, la meta del suo itinerario terreno esistenziale e spirituale. Ma non di rado nei Vangeli l'obiettivo punta esplicitamente e direttamente sui piedi di Gesù, davanti ai quali vengono «deposti zoppi, storpi, ciechi, sordi e malati» (Mt 15,30). Un padre disperato come Giairo si getta ai suoi piedi implorando l'impossibile per la sua figlioletta morta (Mc 5,22). La peccatrice pubblica, entrata nella casa del fariseo che ospita Gesù, si stringe ai piedi del Maestro, «bagnandoli di lacrime, asciugandoli con i suoi capelli, baciandoli e cospargendoli di profumo» (Lc 7,38), così come farà anche Maria, sorella di Lazzaro (Gv 12,3), colei che durante le visite di Cristo nella loro casa «stava seduta ai piedi del Signore, ascoltando la sua parola» (Le 10,39). E nell'alba di Pasqua saranno ancora alcune donne, le prime testimoni della Risurrezione, ad avvicinarsi al Risorto, «abbracciandogli i piedi e adorandolo» (Mt 28,9).
Un Gesù, quindi, molto realistico e corporale fino al punto di farsi spesso sorprendere a tavola persino in cattiva compagnia (Le 15,2), tanto da attirarsi l'epiteto sarcastico di «mangione e beone» (Mt 11,19), rivelando così un profilo ben diverso dall'ascetico Battista. Una caratteristica, questa, dell'amore per i banchetti, che non scompare neppure nella sua nuova condizione di risorto. Ne è testimonianza il racconto lucano dell'apparizione nel Cenacolo (24,36-42) ove il corpo - che è segno dell'identità propria di una persona - è attestato in modo "pesante" e fin materiale: «Toccatemi: un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». E, a riprova, Cristo risorto chiede una porzione di pesce arrostito: «lo prese e lo mangiò davanti a loro». Anzi, nell'addizione al Vangelo giovanneo presente nel c. 21, non solo egli chiede ai discepoli: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?», ma anche prepara per loro «un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane». Poi «prese il pane e lo diede loro, così pure il pesce».
Ma l'apice dell'Incarnazione si compie quando Gesù, attraversando tutta la gamma oscura della sofferenza fisica e spirituale nella sua Passione, approda a quella realtà che è tipicamente umana, perché espressione della nostra finitudine e fragilità e carta di identità della nostra creaturalità, cioè la morte. Anzi, egli, il Figlio di Dio, diventa un cadavere sul quale si accanisce la crudeltà umana: il soldato romano «gli colpì il fianco e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34). Egli è ormai un corpo morto manipolabile. Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo «presero il corpo di Gesù e lo avvolsero in teli» (Gv 19,38-40). Si chiude, in tal modo, la vicenda realistica della corporeità di Cristo, così realistica da aver creato fin dalle origini negli stessi cristiani un imbarazzo che sfocerà nell'eresia gnostica. Essa cancellava questa realtà ai suoi occhi tanto scandalosa, provocando la reiterata reazione degli scritti giovannei. Infatti, sia nel suo Vangelo, sia nella sua Prima Lettera, l'Apostolo ribadirà che non solo <de nostre mani toccarono il Verbo della vita» (1,1), ma anche che «Cristo è venuto nella carne..., è venuto con acqua e sangue» (4,2; 5,6).
Il corpo "pneumatico" risorto, il corpo eucaristico ed ecclesiale
A questo punto, però, possiamo affermare che ha un suo valore anche quella reticenza che abbiamo segnalato nell'arte e nella spiritualità cristiana. Essa mirava a non ridurre il corpo di Gesù soltanto alla pur fondamentale esperienza storica. Se, come si è detto, il corpo è nella concezione biblica l'espressione piena della persona, è chiaro che la corporeità di Cristo non è solo carnalità storica, ma ha un'ulteriore dimensione che potrebbe essere definita ricorrendo a una locuzione paolina a prima vista paradossale. L'Apostolo, infatti, nella densa pagina del c. 15 della Prima Lettera ai Corinzi sulla Risurrezione di Cristo e dei cristiani, dichiara: «Si semina un corpo psichico (soma psychikón) e risorge un corpo spirituale (soma pneumatikón)» (15,44). La formula è piuttosto sconcertante per la cultura greca che pone in netta antitesi corpo e spirito, soma e pyché/pnéuma. Per sciogliere l'enigma è necessario ricorrere all'originalità semantica con cui Paolo usa il lessico greco.
Ebbene, il "corpo psichico" è per l'Apostolo la persona umana nella sua creaturalità di essere vivente animato, finito e peccatore. È in pratica il corpo-persona storico votato alla morte (psyché è, quindi, simile alla rhah ebraica, è il principio vitale della nefesh, ossia dell'essere vivente). Il "corpo pneumatico", invece, è la stessa persona umana, ma aperta e percorsa dall'irruzione del Pnéuma, lo Spirito divino, che trasfigura il limite e la caducità della nostra condizione umana, introducendola nell'eternità e nella gloria. È lo statuto del corpo risorto di Cristo che è per eccellenza "spirituale", non perché etereo o evanescente come un ectoplasma, ma perché pervaso e animato dal divino, dall'eterno e dall'infinito. È in questa luce che si riesce a comprendere un dato reiterato nelle narrazioni delle apparizioni del Cristo risorto e a prima vista stupefacente e fin assurdo.
Infatti, come è mai possibile che Maria di Magdala, giunta al sepolcro «dove era deposto il corpo di Gesù», scambi il Risorto col custode del giardino cemeteriale di Gerusalemme, lei che era stata trasformata da lui e che l'aveva a lungo seguito (Gv 20, 11-18)? La stessa esperienza scioccante di non riconoscimento si ripete per i discepoli di Emmaus (Lc 24,16: «I loro occhi erano impediti a riconoscerlo») e persino nella solenne cristofania finale che suggella il Vangelo di Matteo: «Quando lo videro, si prostrarono, essi però dubitavano» (28,17). La soluzione di questo enigma è lineare se si tiene presente la distinzione paolina. Per "riconoscere" il Cristo risorto nel suo "corpo pneumatico" non basta più la percezione meramente sensoriale e razionale che i discepoli adottavano nei confronti del suo "corpo psichico"; è, invece, necessario un diverso canale di conoscenza trascendente, quello della fede che ha una sua "grammatica" e i suoi segni: la chiamata diretta del Signore per Maddalena, l'incontro diretto col corpo di Cristo risorto per Tommaso incredulo, l'eucaristia per i discepoli di Emmaus, la missione apostolica per gli Undici sul monte della Galilea.
Si apre, quindi, un nuovo statuto ontologico del Risorto che trasforma ma non elide il primo, quello che potremmo chiamare lo stato del "corpo psichico" storico. Si apre, di conseguenza, anche un nuovo percorso epistemologico per riconoscerlo e credere in lui, percorso naturalmente disponibile a tutti i credenti nei secoli successivi, perché ora il Cristo glorificato è oltre la prigione del tempo e dello spazio. Si apre nello stesso tempo una nuova presenza, quella del corpo eucaristico. Il riferimento capitale è ovviamente alle parole dell'ultima cena pronunziate sul pane e sul calice del vino: «Prendete, questo è il mio corpo... Questo è il sangue dell'alleanza» (Mc 14,22.24 e paralleli). Ma è altrettanto significativa la lunga meditazione sul tema che si legge nel c. 6 di Giovanni col discorso di Cafarnao dal quale estraiamo solo due battute: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo... Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (6,51.56).
È sulla scia di questo corpo dotato di un profilo inedito che si configura - dopo il corpo "pneumatico" risorto e quello eucaristico - una terza tipologia, il corpo ecclesiale di Cristo. San Paolo costruisce il legame coi precedenti quando scrive: «Il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo capo: tutti infatti partecipiamo all'unico pane» (1Cor 10,16-17). Per questa via si procede verso la grande affermazione che coinvolge direttamente il cristiano e la Chiesa: «Voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra» (1Cor 12,27; Ef 5,30: «siamo membra del suo corpo»; 1Cor 6,15: «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?»).
Si delinea, così, la definizione coniata da san Paolo nella Lettera ai Colossesi: «il suo [di Cristo] corpo che è la Chiesa» (1,24). Una definizione che sarà ulteriormente precisata, nella stessa Lettera, dall'Apostolo in base a un nuovo profilo secondo il quale Cristo «è il capo del corpo, cioè della Chiesa» (1,18), «capo dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione per mezzo di giunture e legamenti e cresce secondo il volere di Dio» (2,19). Ormai si è configurato un corpo glorioso che è in sé trascendente, ma si manifesta nella concretezza della comunità redenta unita nell'amore, come si proclama nella Lettera ai Romani: «Noi siamo un solo corpo in Cristo» (12,5).
Il filo conduttore della nostra riflessione ha avuto come paradigma l'Incarnazione, capace di unire in sé divino e umano nel corpo-persona del Verbo Gesù Cristo. In una cultura com'è quella contemporanea che ripete la confessione "materialistica" di Pasolini nella sua Supplica a mia madre (1975): «Ho un'infinita fame / d'amore, d'amore di corpi senz'anima», il corpo di Cristo, «anima carnale» come lo definiva Péguy, ci ricorda, invece, in senso pieno quello che Watt Whitman dichiarava solo poeticamente nelle sue Foglie d'erba: «Se c'è qualcosa di sacro, il corpo umano è sacro».
(Convegno "Gesù nostro contemporaneo", Roma 9-11 febbraio 2012)