Apprendere dall’esperienza /8
Michele Pellerey
(NPG 2010-09-46)
La valorizzazione dell’esperienza nei processi educativi e pastorali comporta anche una rilettura del modello di progettazione, o di programmazione, educativa e/o pastorale. Persino nelle attività commerciali e imprenditoriali si sente sempre più l’esigenza di tener conto delle «caratteristiche più vitali dell’esperienza: immediatezza, spirito ludico, soggettività e performatività» (Z. Bauman, L’arte della vita, Bari, Laterza, 2009, 160). La progettazione basata sull’«economia delle esperienze» tiene conto in maniera più attenta della complessità degli eventi reali. Questi possono essere in qualche modo previsti e preordinati, ma la loro attuazione risente delle dimensioni del tempo e dello spazio, oltre che delle disposizioni sia stabili che momentanee delle persone coinvolte, non solo dei destinatari dell’azione formativa, bensì anche dei formatori stessi.
Ripensare la progettazione educativa e pastorale
Negli anni Settanta e Ottanta si era diffuso, ed è ancora un punto di riferimento influente, un paradigma derivante in ultima analisi dal concetto di tecnologia intesa in modo moderno e raffinato. Il tipo di razionalità che sottende tale impostazione si articola secondo tre fasi fondamentali.
La prima è quella progettuale, o del design. In essa si definiscono sia le caratteristiche del prodotto finale, sia quelle del processo produttivo. La programmazione che ne consegue esplicita i tempi, i luoghi, le persone, le risorse implicate nella realizzazione del progetto.
La seconda fase è quella della realizzazione del progetto, o implementation. In essa, con sistematicità e con continuità, vengono attivati i passi stabiliti precedentemente.
La terza fase è quella della valutazione, o evaluation, intesa come controllo della qualità, quality control, sia del processo attuato, sia del prodotto ottenuto. Si tratta di un sistema di regolazione dell’intero processo produttivo, che nelle forme tecnologiche più avanzate può essere gestito in forma automatica. La metafora tecnologica si è diffusa recentemente anche per la tendenza di qualche istituzione formativa a cercare certificazioni ISO 9001, che si ispirano alla gestione della qualità totale e al ciclo: Plan, Do, Check, Act (Pianifica, Sviluppa, Controlla, Agisci).
In molte proposte di progettazione, o di programmazione, educativa o pastorale, si risente la presenza di tale metafora. Essa fa riferimento ai tre passaggi sopra richiamati: a) progettare un insieme di processi sistematici e ordinati, strutturati in vista di obiettivi esplicitamente e chiaramente delineati; b) attivare i processi delineati, integrando la struttura complessa dei sistemi educativi e pastorali, dei loro meccanismi di funzionamento e di interazione dinamica con il sistema delle relazioni interpersonali e istituzionali; c) regolare tali processi mediante un continuo controllo della qualità non solo dei risultati ottenuti, ma anche dello stesso processo messo in atto. Si tratta di una metafora che evoca una razionalità forte, la cui finalità fondamentale è quella di garantire la qualità e la quantità dei risultati sulla base di un processo che deve risultare efficiente ed efficace.
Una delle conseguenze più problematiche di tali assunzioni è la scarsa consapevolezza della differenza essenziale esistente tra momento realizzativo del progetto nel mondo tecnologico e momento attuativo educativo o pastorale, nel quale è cruciale l’insieme delle relazioni tra tutti gli attori: nel campo educativo tra gli educatori, tra gli educatori e gli educandi e tra questi ultimi; nell’ambito pastorale tra tutti i partecipanti alla comunità locale e alle varie associazioni e consigli. Inoltre è emersa con prepotenza la consapevolezza del ruolo cruciale dello stato interno che caratterizza tutti i partecipanti alle attività e pratiche messe in atto. Ad esempio, nel contesto dell’agire concreto spesso ci si imbatte in una resistenza, palese o nascosta, degli interlocutori di fronte ai progetti, agli obiettivi, alla volontà dei responsabili. I soggetti sfuggono ai loro propositi e al loro potere perché non capiscono, non accettano oppure portano in sé altri progetti, altri obiettivi, altra volontà. Se non si mette da parte tale resistenza, negandola o sopraffacendola, bensì accettandola, si sviluppa un vero e proprio lavorio riflessivo che dirige la propria attenzione e il proprio interesse verso le situazioni e i soggetti concreti e le loro resistenza. Infatti, la resistenza dell’altro, in particolare nel mondo dell’educazione e dell’attività pastorale, non riconduce al potere che potrei esercitare su di lui, ma a quello che devo esercitare su di me. È un rinvio alla mia responsabilità, alla ricerca di un modo di offrire la possibilità di un incontro, al desiderio di comprendere e di aiutare. La manipolazione al contrario si colloca nella volontà ostinata di rimandare sempre all’altro la responsabilità delle difficoltà che si incontrano, nel desiderio di circonvenire per superare l’ostacolo che si frappone. «L’io ha sempre una responsabilità in più di tutti gli altri» (Lévinas). Questo ritorno etico si pone a fondamento di ogni ricerca educativa o pastorale e sollecita la riflessione e l’attivazione di ogni sapere di natura pedagogica.
La complessità dell’azione educativa e pastorale
Una ulteriore considerazione mette in luce i limiti di un approccio ispirato alla metafora tecnologica: la complessità del campo educativo e pastorale. Tale constatazione porta a evidenziare l’impossibilità di descrivere la progettazione educativa e pastorale sulla base di un unico approccio interpretativo e la necessità di rimanere aperti a un dialogo o a una tensione tra prospettive diverse. Se si considera la pratica messa in atto nelle varie realtà, la metafora tecnologica sembra sfocarsi per favorire la considerazione di un’altra metafora, quella studiata a suo tempo da C. Lévi-Strauss ne La pensée sauvage (Paris, Plon, 1962), la metafora del «bricolage». Secondo Lévi-Strauss il lavoro, nel caso del bricolage, è differente da quello svolto dal tecnico, perché l’elaborazione dei progetti si basa su materiali e risorse pre-esistenti e sulle esperienze precedenti degli attori. Inoltre i progetti sono condizionati dalle circostanze e dalle contingenze presenti.
L’azione messa in atto si appoggia più su una razionalità pratica che su una tecnico-scientifica. Si è, in effetti, sollecitati nel lavoro educativo e pastorale dalla domanda presente nel contesto e da norme o tradizioni da seguire. In particolare ci si trova a elaborare un’ipotesi di risposta operativa che consideri: le caratteristiche dei soggetti verso i quali si rivolge l’azione; i contenuti da proporre; i vincoli istituzionali; le esperienze positive e negative vissute; ecc. La risposta di conseguenza non potrà essere determinata in maniera univoca e pienamente definita, bensì in forma ipotetica e consensuale, ispirata anche in questo caso alla saggezza pratica. Si tratta di formulare una inferenza pratica, che considera attentamente da una parte le finalità educative o pastorali condivise e, dall’altra, le circostanze, le persone e le risorse disponibili. Si tratta di un processo di problem solving in genere caratterizzato da forme di prefigurazione di scenari futuri possibili, nelle quali gioca in maniera notevole la creatività.
Progettazione come narrazione proiettata sul futuro
Dalla serie di considerazioni esposte in interventi precedenti nasce la possibilità, se non la necessità, di rileggere la progettazione educativa e pastorale come una modalità particolare di sviluppo dell’intelligenza narrativa. Infatti la progettazione delle azioni e delle pratiche educative o pastorali può essere vissuta dai singoli, ma soprattutto dall’intera comunità, come una forma di narrazione proiettata sul futuro, che si innesta sulle storie ed esperienze personali del passato e sulle presenti risonanze soggettive. Le vicende prospettate nel futuro, infatti, inevitabilmente si devono ricollegare alle biografie personali, anche se mirano a sollecitarne uno sviluppo più valido e maturo. Lo scenario entro il quale si sviluppano le vicende nel tempo e nei luoghi futuri deve essere collegato ai contesti esperienziali, culturali e sociali di appartenenza dei vari protagonisti.
Occorre ricordare come in una narrazione non è tanto centrale l’evolversi cronologico di tutti gli eventi, quanto lo svolgersi di quelli cruciali. Il tempo narrativo include certamente una suddivisione che prevede un inizio, uno sviluppo, una conclusione, ma esso è soprattutto un «tempo umanamente rilevante» (P. Ricoeur, Tempo e racconto, Milano, Jaca Book, 1988), la cui «rilevanza è data dai significati assegnati agli eventi dai protagonisti della narrazione o dal narratore della storia o da entrambi» (J. Bruner, La cultura dell’educazione, Milano, Feltrinelli, 1997, 148). Bruner include, tra gli altri, alcuni principi narrativi. Uno di questi afferma: «Le azioni hanno delle ragioni. Quello che fanno le persone delle narrazioni [...] è motivato da convinzioni, desideri, teorie, valori o da altri ‘stati intenzionali’» (Ibidem, 151). Un altro principio, la capacità di espansione storica della narrazione (Ibidem, 158), può essere ripensato come un principio di apertura alla novità, alla modificabilità, alla pluralità e combinabilità dei percorsi.
Il concetto di «sé possibili» sviluppato da H. Markus e P. Nurius, insieme di realtà soggettive future desiderate o temute, può essere esteso a un sé collettivo, a un noi che include tutti i partecipanti, alle attese che albergano nelle loro menti e nei loro cuori, ai pericoli che ciascuno intravede e ai timori del futuro, alle aspirazioni e ai desideri, agli ideali e ai sogni privati e pubblici di ciascuno. Si tratta, cioè, di intessere una narrazione di quanto pensiamo sia possibile realizzare, tenuto conto di tutto questo. Una narrazione delle possibili o probabili azioni, reazioni e interazioni future, degli effetti previsti o temuti, delle alternative a possibili sconfitte o resistenze opposte.
Progettazione come soluzione dei problemi presenti e di quelli futuri possibili
La progettazione educativa o pastorale considerata nel quadro di un processo di soluzione di problemi trova nel modello narrativo anche uno strumento ulteriore per rileggere criticamente la pratica educativa e riuscire in questo modo a identificare con più chiarezza la natura dei problemi da affrontare. In particolare, può essere con più puntualità evidenziata la natura delle difficoltà o resistenze incontrate, valorizzando a questo scopo la narrazione delle storie vissute dai diversi partecipanti e delle risonanze soggettive che queste hanno sollecitato. Si evidenziano in questo modo «testi» narrativi (scritti, orali, formali, informali, esposti per immagini o drammaticamente), che esigono un ascolto e una interpretazione attenta.
Sulla base di questo lavoro diagnostico ed ermeneutico è possibile definire lo scenario entro cui la vicenda futura potrà essere sviluppata, i personaggi e i loro caratteri e ruoli, le condizioni fisiche, ambientali, culturali e sociali, le risorse di cui si dispone o di cui si pensa di poter disporre nel futuro. In un ulteriore passo si dovrà identificare in questo quadro la successione delle mosse centrali, o delle attività fondamentali, che si possono o si debbono prospettare per risolvere i problemi emersi e raggiungere quegli obiettivi che sono stati individuati come desiderabili e possibili. E, in relazione a queste, evidenziare quali contromosse o reazioni si possono aspettare da parte degli interlocutori e come è possibile rispondere a esse in maniera valida e produttiva.
Questo intreccio può essere anticipato, tenendo conto di ciò che passa sotto il nome di episodi o eventi di una storia narrata secondo quanto prospettato dall’analisi psicologica dei testi narrativi. L’insieme degli eventi che vengono previsti nel progetto educativo, espresso sotto il profilo di testo narrativo, forma un insieme complesso nel quale le relazioni sono di molteplice natura: temporali, causali e relative a condizioni utili o necessarie. Si tratta di un tipo di narrazione che deve consentire il dispiegarsi nel tempo dell’azione senza che ci si riduca a un puro proceduralismo, quale si può cogliere nelle descrizioni operative che puntano soprattutto a valorizzare indicazioni di tipo tecnologico.
La progettazione di azioni e pratiche educative espressa sotto forma narrativa, se realizzata in maniera valida, permette probabilmente anche una migliore comunicazione tra gli educatori e tra gli educatori e gli educandi, non tanto sul piano dell’impianto tecnico-operativo del progetto, quanto su quello del senso globale del processo educativo prefigurato, dei significati generali e personali delle varie iniziative e attività, dei limiti e delle condizioni di sviluppo delle differenti azioni. Al testo progettuale narrativo possono essere applicati quindi i criteri di qualità di stesura e di modalità di fruizione propri di tutti i testi narrativi, favorendo una comprensione e condivisione profonda del progetto e non solo della operatività pratica.
Nell’analisi dei testi narrativi sviluppata dalla psicologia è stato messo in evidenza come ogni testo, dopo aver inquadrato la vicenda narrata entro un contesto sociale, culturale, personale e temporale, introduce un elemento di rottura o conflittuale, detto spesso anche «complicazione», elemento che è all’origine della trama stessa. Spesso nel corso del racconto si ha una pluralità di complicazioni – sviluppi – risoluzioni, che si collocano su più piani narrativi, intrecciantesi tra loro. L’analogia con la progettazione educativa o pastorale è evidente. In genere un progetto nasce per rispondere a una domanda, a un problema emerso nel corso della pratica. Si tratta di quello che è stato precedentemente richiamato e che Meirieu ha definito in ambito educativo come il «momento pedagogico», quello nel quale si richiede da parte dell’educatore un rientrare in se stesso, un ripensare attento della situazione e delle origini della difficoltà, per cercare vie di soluzione più coerenti ed efficaci. Da questo momento, da questa complicazione, prende il suo avvio anche la progettazione intesa come narrazione proiettata sul futuro.
Il ruolo dell’esperienza nella progettazione
Normalmente il bisogno di progettare le azioni future parte dalla constatazione che una pratica corrente sembra non essere più soddisfacente. Occorre cambiare la situazione, occorre ripensare quanto viene realizzato. Spesso si tratta di una riprogettazione in quanto il progetto passato appare inadeguato o addirittura fallimentare. L’elaborazione di un nuovo progetto risponde alle esigenze di un possibile miglioramento. Da questo punto di vista l’esperienza gioca un duplice ruolo. Da una parte è la molla che ci spinge a una rielaborazione del nostro piano d’azione; dall’altra ci informa sui possibili nodi problematici da affrontare. Tutto ciò richiede un’attenta riflessione critica che può rivolgersi alla stesse finalità perseguite: sono esse ancora valide? È il caso di una loro rilettura critica? È necessaria una modificazione profonda delle prospettive di significato nel senso di Mezirow? Si tratta, invece, di modalità comunicative o organizzative o relazionali inadeguate? Può essere che le circostanze e le situazioni concrete non sono state adeguatamente approfondite e comprese? In qualche modo ogni progetto è una rilettura delle esperienze precedenti problematiche, ma anche una valorizzazione di quelle positive. Perché una pratica precedente è riuscita? Perché essa è risultata valida ed efficace?
Di qui la dinamica che si mette in moto per prefigurare un’architettura delle azioni future, in particolare di quelle possibili; in altre parole la prefigurazione delle possibili esperienze future, che si spera siano migliori di quelle passate. In ultima analisi ogni progettazione deve fare i conti sia con l’esperienza passata, sia con quella presente, sia con quella futura: essa è figlia, sorella e madre dell’esperienza.