Fedi e proposte etiche
nella società
contemporanea /1
Giannino Piana
Nell'ambito degli sviluppi del dialogo ecumenico tra le confessioni cristiane l'etica ha occupato, in questi ultimi decenni, un posto di grande rilievo. A partire dalle assemblee di Basilea e di Seul numerose sono state le occasioni per riflettere sulle grandi questioni che assillano (talora in modo drammatico) l'umanità - dalla giustizia tra i popoli alla tutela dell'ambiente fino al ripudio della guerra e alla costruzione della pace - e per individuare l'apporto che le Chiese possono insieme fornire alla loro positiva soluzione.
Nonostante questo sforzo di avvicinamento, che ha assunto in alcune circostanze dimensioni più allargate con l'apertura al dialogo interreligioso, la situazione delle confessioni cristiane non cessa di essere, al riguardo, contraddittoria. Il paradosso consiste nel fatto che, mentre su questioni come quelle accennate (e su altre riguardanti l'ordine sociale) è facile riscontrare oggi tra le confessioni cristiane un'ampia convergenza, profonda è la distanza quando si toccano tematiche (anch'esse di grande attualità) come quelle che riguardano la manipolazione della vita e il comportamento sessuale.
L'etica rappresenta pertanto, sotto il profilo ecumenico, un terreno ambivalente, in cui affiorano inedite opportunità di dialogo e di collaborazione e si manifestano rischi di marcata accentuazione delle differenze. Le difficoltà del confronto e dello scambio, soprattutto tra mondo cattolico (e in parte anche ortodosso) e mondo protestante, sono da addebitare a diverse ragioni, tra le quali un posto di primo piano va riservato all'esasperata attenzione del mondo cattolico per la sfera della vita «privata», in particolare per le questioni cosiddette «eticamente sensibili». Ma la ragione decisiva va (forse) rintracciata nell'insufficiente riconoscimento dell'autonomia del fatto etico, autonomia che esige si proceda in tale ambito con argomentazioni di ordine strettamente razionale.
L'obiettivo di questi spunti di riflessione è dunque la ricostruzione di un modello che consenta di affrontare le problematiche etiche nel modo il più possibile oggettivo ed efficace, privilegiando la ragione senza dimenticare per questo l'apporto della fede, che, radicandosi nell'«umano» e assumendolo in pienezza, è in grado di fornire motivazioni di grande significato. La convinzione acquisita che l'etica è anzitutto un fenomeno umano non implica la sua separazione dall'esperienza religiosa. L'agire morale non è semplice adesione a norme di.comportamento ben definite; è, più radicalmente, risposta alla domanda di senso - in questo consiste la ragione ultima dell'etica - ed ha perciò bisogno di attingere a una visione dell'uomo, del inondo e della vita quale orizzonte decisivo di riferimento. È come dire che, al di là del livello dell'etica normativa, quello sul quale normalmente ci si attesta, esiste un livello più profondo di carattere fondativo, che esercita un ruolo essenziale nello stesso ambito della produzione delle norme e che spiega la diversità di posizioni etiche presenti nella nostra società.
La ricerca del modello cui si è alluso è resa necessaria anche dall'esigenza di affrontare, in termini adeguati, la situazione di rapida trasformazione della realtà indotta dai processi di innovazione tecnologica in corso. Per questo si cercherà di delineare, nella prima parte, un quadro sintetico delle questioni che presentano i più spinosi interrogativi di ordine etico, per mettere a fuoco, nella seconda parte, i tratti che devono qualificare il modello di un'«etica della responsabilità» radicato nell'«umano» e fecondato dalla logica evangelica.
I nodi critici della situazione attuale
L'inventario dei nodi critici provocati dagli odierni processi di cambiamento è assai vasto: tutti gli aspetti dell'esperienza umana sono, infatti, coinvolti nell'innovazione tecnologica, che agisce trasversalmente e che incide con la sua azione pervasiva non solo sulle dinamiche strutturali della vita associata, ma anche (e soprattutto) sulle coscienze, provocando una vera mutazione antropologica. Gli ambiti nei quali è tuttavia più evidente (e più determinante) il cambiamento e dove si fa più urgente la riflessione etica, sono quelli dell'economia, della comunicazione (e dell'informazione) e delle manipolazioni della vita umana. Su questi fermeremo principalmente l'attenzione non senza rilevare che le trasformazioni intervenute, tanto a livello individuale che sociale, hanno carattere ambivalente, presentano cioè rischi involutivi ma aprono anche nuove chances per lo sviluppo della persona e della vita collettiva.
1. Il primo ambito da considerare con attenzione è quello della vita economica [1]. Il fenomeno della globalizzazione è identificato da molti con il costituirsi di un «mercato unico globale» [2]. La svolta cui va soggetto il sistema economico si sviluppa in due direzioni, ambedue problematiche dal punto di vista etico: la prima è costituita dall'egemonia dell'economia finanziaria su quella produttiva (la new economy è essenzialmente economia finanziaria); la seconda da una forte rivincita del capitalismo, sia per il crollo dei sistemi alternativi (i regimi del socialismo reale propri dei paesi dell'Est europeo), sia per il dilatarsi della concorrenza e la difficoltà di istituire «regole» che controllino in modo efficace processi che scavalcano i confini degli Stati-nazione, non esistendo un'autorità internazionale in grado di farle valere [3].
Si deve aggiungere che tale sistema – è questo l'aspetto più preoccupante – è insieme effetto e causa di un'ideologia negativa, quella del mercato, che si estende ai vari ambiti dell'esperienza umana e che implica l'adozione di criteri esclusivamente mercantili – quelli dell'efficienza produttiva e del consumo – quali strumenti valutativi della realtà. Ambiti preposti alla tutela e alla promozione di diritti umani fondamentali, quali la salute e la scuola, rischiano di essere dominati da finalità di solo profitto economico: si pensi alla trasformazione degli ospedali in «aziende» e alla stretta dipendenza dell'istruzione dal lavoro e dalla professione, con la tendenza a privilegiare il «fare» e l'«avere» piuttosto che l'«essere». Mentre, anche nell'ambito delle scelte personali, si assiste all'egemonia del paradigma «utilitarista», al punto che la domanda che spontaneamente insorge, quando ci si trova a dover assumere delle decisioni, non è più la domanda di senso (ha senso fare questo?), ma quella della mera utilità (a che cosa serve?).
L'affermarsi di questa logica e di questi criteri ha come esito la negazione della stessa possibilità dell'etica: laddove la domanda di senso è accantonata (perché ritenuta irrilevante) l'etica non ha più spazio. Ma, paradossalmente, proprio nel momento in cui si assiste alla sua emarginazione, la domanda etica riemerge all'interno della scienza economica per ragioni di ordine strettamente economico. Le crescenti sperequazioni tra Nord e Sud del mondo, l'instabilità del mercato del lavoro, la crisi ecologica e l'asservimento della politica a poteri come l'economia e l'informazione, non hanno soltanto ricadute negative sul terreno dell'etica; hanno anche conseguenze destabilizzanti sul piano dell'economia. È dunque evidente che l'attuale sistema non è solo eticamente inaccettabile, ma anche economicamente improduttivo, e che è necessario ricorrere all'etica per modificarlo e rilanciare l'economia [4].
2. Il secondo ambito in cui affiorano problemi di grande rilievo per l'etica è quello della comunicazione e dell'informazione. L'affermarsi di un sistema multimediale, nel quale si intrecciano tecnologie diverse – si pensi a Internet – ha determinato (e determina), come si è visto, mutazioni profonde non solo di carattere strutturale, ma tali da coinvolgere il mondo interiore della persona, dando vita a modelli comportamentali del tutto nuovi e concorrendo soprattutto alla formazione di una nuova mentalità e di una nuova cultura [5]. A venire profondamente modificate sono le tradizionali coordinate spazio-temporali – si pensi al venir meno delle distanze fisico-geografiche e alla possibilità di comunicare «in tempo reale» con l'intera umanità; è il linguaggio, grazie al prevalere di quello «logico-matematico» e all'atrofizzazione di quello «simbolico» su cui si costruiscono le relazioni interumane; e, infine, è la stessa realtà che viene sostituita dal «virtuale», e dunque – come afferma Baudrillard parlando di «delitto perfetto» – definitivamente negata.
La percezione della potenza del «mezzo» e della sua pervasività de-legittima la convinzione che il mezzo vada considerato neutrale, e che il giudizio riguardi soltanto l'uso che se ne fa. Appare chiaro quanto, a suo tempo, affermava McLuhan a proposito della televisione, che cioè «il medium è ormai il messaggio»; in altre parole, che a condizionare la coscienza non è tanto il «che cosa» si comunica ma piuttosto il «come» lo si comunica, e soprattutto gli strumenti di cui ci si avvale per realizzare la comunicazione. È la ragione per cui Umberto Galimberti [6] considera l'attuale civiltà tecnologica radicalmente impermeabile a ogni approccio etico: il fatto che la tecnica, grazie a un salto qualitativo operatosi gradualmente nella seconda parte del secolo scorso, si sia trasformata da «mezzo» in «fine», da «oggetto» in «soggetto» avrebbe infatti avuto come esito – è questa la tesi di Galimberti – la riduzione dell'uomo a «strumento» o «cosa», destituendolo della possibilità di controllo della realtà.
Altri tuttavia, pur non misconoscendo la pesante influenza che la tecnica esercita sulle scelte umane e ritenendo pertanto insufficiente la sola valutazione dell'uso che se ne fa, non rinunciano ad affermare il primato della coscienza e ritengono necessaria la produzione di «regole» adeguate a contenerne gli effetti negativi e in particolare l'elaborazione di un ethos culturale, che sappia intrecciare il momento scientifico-tecnico con quello umanistico per rispondere in modo adeguato alle esigenze del contesto storico attuale. La domanda etica si ripropone dunque, anche in questo caso, con connotati precisi che esigono una risposta puntuale.
3. Infine, l'ultimo ambito è quello relativo alle manipolazioni della vita umana [7]. Le conquiste di questi ultimi decenni in campo genetico consentono interventi sempre più radicali sulla vita dell'uomo, dal momento della sua insorgenza fino a quello terminale. La scoperta del DNA (e la sua decodificazione) ha aperto nuove frontiere di ricerca in ambito terapeutico, ma ha determinato nel contempo possibilità inedite di alterazione dell'«umano» non solo a livello personale ma a livello della stessa specie. La bioingegneria genetica, applicata all'uomo, costituisce il livello più alto del processo di ominizzazione: da dominatore del mondo circostante, l'uomo si è infatti trasformato in artefice del proprio destino; è divenuto, in un certo senso, autocreatore.
È inevitabile che si affacci, in questo quadro, la tentazione dell'onnipotenza prometeica; che affiori, in altri termini, alla coscienza la lusinga del «sarete come dei», con la presunzione di godere di un'autonomia morale assoluta la quale implica il rifiuto di qualsiasi ordine dall'alto. L'etica risulta allora del tutto scavalcata: i valori altro non sono che il prodotto della decisione umana, e di una decisione che assume contorni diversi a seconda del momento storico con l'esclusione, conseguentemente, di criteri di discernimento sicuri.
D'altra parte, la gravità delle conseguenze, che possono derivare dalle manipolazioni dell'«umano» attualmente in corso, impone il ricorso all'etica. Le potenzialità che si esprimono sono enormi, ma altrettanto rilevanti sono i rischi che si corrono: in gioco non vi è infatti soltanto il bene dell'umanità presente ma anche di quella futura [8]. È questa la preoccupazione che ha spinto Hans Jonas a richiedere l'allargamento dell'area di applicazione del famoso principio kantiano: «Tratta ogni uomo sempre come fine, e mai come mezzo» alla specie umana: «Tratta la specie umana sempre come fine, e mai come mezzo».
È evidente, anche in questo ambito, l'ambivalenza della situazione, che esige per essere fronteggiata l'adozione di paradigmi che consentano di vincere le paure irrazionali dettate da sfiducia nel progresso, ma di evitare insieme sterili fughe in avanti, i cui contraccolpi possono farsi, a distanza, pesantemente sentire.
Il modello dell'«etica della responsabilità» come possibile risposta
È dunque essenziale definire un modello etico fondato su valori irrinunciabili e dotato insieme di grande duttilità nella sua applicazione; un modello che garantisca la possibilità di un discernimento oggettivo e sia nello stesso tempo in grado di adattarsi a situazioni in continuo cambiamento, individuando in modo creativo soluzioni corrette e praticabili. La categoria che sembra rispondere a tali esigenze è la categoria di «responsabilità»; categoria che ha acquisito negli ultimi decenni sempre maggiore centralità tanto nell'ambito dell'etica laica che religiosa, così da diventare quasi sinonimo di «etica». Essa corrisponde, del resto, pienamente al disegno della rivelazione biblica, che presenta l'etica, inserita nel contesto di «alleanza», come «risposta» alla «chiamata» divina, come il «sì» responsabile dell'uomo al dono di Dio.
Il termine «responsabilità», che etimologicamente deriva dal latino rispondere (»dare risposta»), rinvia a tre «figure», che corrispondono ad altrettante sfaccettature del discorso morale: rispondere «in prima persona», rispondere «a qualcuno», rispondere «di qualcosa».
1. Rispondere «in prima persona». La responsabilità rinvia anzitutto alla libertà, che è la radice soggettiva dell'etica: l'agire umano assume infatti connotati etici laddove è agire libero e fin dove è tale: eticità e libertà sono grandezze direttamente proporzionali.
La categoria di «responsabilità» è dunque promotrice di una «etica della prima persona», che pone al centro il soggetto e assegna il primato alla coscienza, reagendo nei confronti della riduzione dell'etica a «etica normativa»; riduzione che ha contrassegnato il percorso della modernità e che è ancor oggi diffusa in ambito laico. Si pensi al modello della «casistica» (nato in ambito cattolico agli inizi dell'epoca moderna) che oggettivava e scotomizzava l'agire, prescindendo da ogni riferimento alla persona, e alla tentazione delle «etiche procedurali», di matrice utilitarista e contrattualista, di ricondurre l'eticità alla sola definizione di «regole» di comportamento, mettendo totalmente tra parentesi il mondo dei valori e rescindendo ogni legame con il soggetto umano e con la sua realizzazione personale. Nonostante l'apparente distanza, i due modelli convergono in una interpretazione radicalmente «materialista» dell'agire umano, scorporato dal mondo interiore del soggetto e dalla sua storia, e perciò rescisso dal dinamismo progettuale che lo contrassegna.
La responsabilità, intesa come «rispondere in prima persona», si collega, d'altronde, con quel filone dell'etica classica e medioevale, che ha posto al centro della riflessione sull'agire umano il tema della «virtù». È sufficiente ricordare qui l'impianto dell'etica aristotelica, ripreso e rielaborato, in una prospettiva teologica, da Tommaso d'Aquino; a decidere della moralità è per essi l'assimilazione in profondità di habitus virtuosi che spingono connaturalmente l'uomo a scegliere il bene. La virtù che più di ogni altra è chiamata in causa in questa scelta – è bene ricordarlo – è per Aristotele la phronesis («saggezza»), che consente di fare discernimento dell'agire, rapportando in modo del tutto personale il mondo dei valori alla complessità e varietà delle situazioni reali e alle potenzialità soggettive, fornendo perciò una risposta «situata» e «personalizzata»; e per Tommaso d'Aquino la prudentia («prudenza») in quanto retta ratio agibilium, che ha il compito di fare giudizio del «bene possibile» nel concreto delle situazioni.
Questa prospettiva si collega, d'altra parte, strettamente con il tema biblico della «vocazione», dove la «chiamata per nome» di Dio implica la «risposta» dell'uomo «in prima persona», e rende ragione della centralità alla coscienza, respingendo una «morale della legge» che finisce per deresponsabilizzare l'uomo. La moralità è la «mia» moralità, quella che appartiene al mio mondo interiore – il mondo delle intenzioni, degli atteggiamenti profondi e dei progetti di vita – e che si esprime sempre soltanto parzialmente negli «atti», se considerati nella sola «datità» oggettivo-materiale.
2. Rispondere «a qualcuno». La risposta, che si dà in prima persona, è sempre e necessariamente «risposta a qualcuno». La responsabilità morale è, di sua natura, responsabilità nei confronti dell'altro. La radice della moralità (e la sua struttura portante) sta infatti nella «relazione»: è come dire che l'etica nasce dall'interpellazione che l'altro mi rivolge e alla quale devo dare risposta. Questo carattere «relazionale» dell'etica costituisce una costante tanto dell'etica laica che ebraico-cristiana. È. sufficiente ricordare qui come Aristotele, che mette al centro – come si è detto – il tema della «virtù», conferisca di fatto il primato alla «giustizia», che è per definizione una virtù relazionale: iustitia est ad alterum. O come nel testamento ebraico l'«etica dei comandamenti» si identifichi – si allude qui ovviamente alla seconda tavola del Decalogo – con un'etica «relazionale», che mette chiaramente in evidenza, sia pure in un'ottica imperativo-negativa, i doveri dell'uomo verso il suo «simile»: le proibizioni sono infatti volte a tutelare valori fondamentali – la vita, il rispetto della sfera personale, la verità, la proprietà, ecc. – la cui violazione rende impossibile il corretto sviluppo delle relazioni interumane.
La questione che emerge tuttavia con forza e che occorre affrontare correttamente è la seguente: chi è il «qualcuno» che ci interpella e al quale dobbiamo rispondere? Il mondo globalizzato cui apparteniamo, caratterizzato da una stretta interdipendenza non solo tra i diversi settori della vita associata ma tra i popoli e i continenti – al punto che si può dire con MacLuhan che la terra è diventata un «piccolo villaggio» – ci obbliga a guardare all'altro in un'ottica universalistica, ad identificarlo con l'intera umanità presente e futura. È questa la lezione di Paul Ricoeur, che, superando (senza per questo rinnegarlo) il «personalismo classico», basato sul rapporto io-tu (il rapporto interpersonale), introduce la figura del «terzo», che non è l'anonimo ma è un essere umano con un volto e un nome precisi con il quale non entreremo mai in un rapporto diretto, ma del quale dobbiamo sentirci responsabili, tutelandone e promuovendone la dignità e i diritti mediante l'impegno a dare vita a «strutture giuste» per l'intera umanità [9]. L'universalità inoltre – è questo un dato da tenere in seria considerazione – non può più essere concepita in una prospettiva semplicemente sincronica; va estesa a livello «diacronico», considerando il bene delle generazioni che verranno alle quali è doveroso consegnare un mondo abitabile [10].
Ma l'aspetto di maggiore novità (e di maggiore interesse) è oggi rappresentato dal superamento della stessa categoria di «reciprocità» per fare spazio ad una concezione del dovere morale ispirata alla gratuità, dove il rapporto con l'altro si configura come rapporto «asimmetrico». A fare propria questa visione è stato soprattutto Lévinas, per il quale l'imperativo morale nasce dalla sola presenza dell'altro, che ci interpella incondizionatamente a partire dalla propria indigenza [11].
Universalità (fino a comprendere il creato e le generazioni future) e gratuità sono – non è difficile riconoscerlo – i tratti essenziali della carità cristiana: l'amore per l'altro (per ogni altro non escluso il nemico) è un amore senza attesa di contropartita, contrassegnato dalla logica del «dono», in quanto è risposta all'amore di un Dio, che si è donato a noi «quando eravamo ancora peccatori», cioè nemici: gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date.
La responsabilità come «rispondere a qualcuno» rappresenta il livello più alto della moralità: quello da cui attinge la sua sorgente, ma anche il criterio secondo il quale va vissuta, nel pieno riconoscimento che l'altro (ogni altro) è parte costitutiva di noi, perché solo attraverso di lui diveniamo consapevoli della nostra stessa alterità.
3. Rispondere «di qualcosa». La risposta all'altro si traduce necessariamente nel «dare qualcosa». La vita morale non è fatta di sole intenzioni ma di «azioni» mediante le quali l'altro viene effettivamente raggiunto, rispondendo ai suoi bisogni e promuovendo i suoi diritti. Esiste pertanto un peso oggettivo delle azioni, che conferisce spessore concreto al rapporto, concorrendo a conservarlo e ad arricchirlo. I valori – lo si è accennato parlando del Decalogo – delineano le basi sulle quali va costruita ogni relazione umana. Essi, tuttavia, non bastano; la loro consistenza reale viene dalla traduzione in normative che li rendano operabili qui e ora; che consentano, in altri termini, la loro applicazione al vissuto quotidiano. L'attenzione al «qualcosa», a ciò che di fatto l'azione produce in ordine allo sviluppo delle relazioni, non è dunque un elemento accessorio; appartiene costitutivamente alla definizione dell'eticità.
È questo il concetto di «etica della responsabilità» che Max Weber [12] contrappone (o almeno distingue nettamente da) a quello di «etica della convinzione» (o della «coscienza»). Contrariamente all'«etica della convinzione», propria del «santo» o del «martire» (il testimone per eccellenza), per la quale conta esclusivamente la rettitudine delle intenzioni e la fedeltà ai valori (o ai principi) «accada quello che può», l'«etica della responsabilità», propria del professionista e del politico, si preoccupa degli effetti delle azioni, delle ripercussioni che esse hanno sulla vita dei singoli e della collettività umana. Il criterio con il quale esse vengono valutate è allora un criterio «teleologico» (da telos, «fine»), incentrato sulla misurazione delle conseguenze positive e/o negative che da esse derivano (consequenzialismo) o sulla proporzionalità esistente tra la bontà del fine perseguito e le ricadute negative dovute al mezzo (mezzi) usato per perseguirlo (proporzionalismo) [13].
Questa interpretazione dell'agire, se correttamente applicata, non corre il rischio – come qualcuno paventa – della caduta nell'utilitarismoe non può neppure essere accusata di machiavellismo: la valutazione delle conseguenze delle azioni esige infatti il ricorso ai valori (e al loro ordine gerarchico); mentre non esiste alcuna «neutralità» del mezzo, al quale va riconosciuto un preciso spessore etico da commisurare alla bontà del fine. Quello a cui tale modello tende è la ricerca realistica del «bene possibile» (talora, più modestamente, del «male minore»), rinunciando alla pretesa di rincorrere il «bene assoluto» con il rischio della caduta in un'astrattezza improduttiva [14].
Il riconoscimento della condizione creaturale contrassegnata dal limite e, ancor più radicalmente, la consapevolezza della presenza, nella storia e nella natura, del «mistero del male» e del «peccato», perciò della necessità di fare realisticamente i conti con essi, senza indulgenze ed accomodamenti, ma anche senza illusorie evasioni, sono le ragioni teologiche che sorreggono tale posizione.
Il modella delineato offre un insieme di criteri che, se applicati con rigore, consentono di procedere a una valutazione globale dell'agire nel rispetto delle dimensioni etiche che lo qualificano: dal coinvolgimento del soggetto (»in prima persona»), all'attenzione alla portata sociale (l'«altro» come interlocutore), fino alla concreta verifica dello spessore oggettivo dell'azione (il «qualcosa» come elemento concreto di verifica). L superfluo segnalare che questo modello di etica, in quanto basato su argomentazioni razionali che trovano conferma e approfondimento nell'orizzonte della rivelazione ebraico-cristiana, costituisce la piattaforma attorno alla quale è possibile istituire l'incontro tra le confessioni religiose cristiane e suscitare, in senso più ampio, un fecondo dialogo con tutti gli uomini di buona volontà.
NOTE
1 Per questo aspetto ci permettiamo di rinviare a G. PIANA, Economia ed etica nel contesto della globalizzazione, Agrilavoro edizioni, Roma 2002.
2 Su questo tema esiste un ampio e aperto dibattito. Tra coloro che ritengono la globalizzazione un processo prevalentemente (e quasi esclusivamente) economico cf R. MANCINI, Senso e futuro della politica. Dalla globalizzazione a un mondo comune, Cittadella, Assisi 2002. Della stessa idea (ma con un giudizio opposto, cioè ottimistico) è l'opera. di J. BHAGNATI, Elogio della globalizzazione, Laterza, Roma 2005. Più allargato (pur nel riconoscimento dell'importanza fondamentale del fattore economico) è il quadro offerto da L. GALLINO, Globalizzazione, in Dizionario cli Sociologia, vol. 1, Editoriale L'Espresso, Novara 2006, pp. 595-609.
3 Sulla «debolezza» della politica cf S. STRANGE, The Declining Authority of States, in F. LECHNER - J. BOLI (a cura di), The Globalization Reader, Blackwell Publishing, 2000, pp. 219-224.
4 A.K. SEN, La libertà individuale come impegno sociale, in AA.Vv., La dimensione etica nelle società contemporanee, Ed. Fondazione Agnelli, Torino 1990.
5 Per un approccio puntuale ai problemi odierni della comunicazione/informazio-
ne, cf N. DELAI - A. PAPUZZI - G. PIANA, Informazione/comunicazione. Molti soggetti per un'etica massmediale, Cittadella, Assisi 1997.
6 Cf U. GALIMBERTI, Psiche e teche. L'uomo nell'età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999.
7 Per un approfondimento di questo aspetto rinviamo a G. PIANA, Bioetica. Alla ricerca di nuovi modelli, Garzanti, Milano 2002 (cf in particolare il primo capitolo dal titolo «Rivoluzione biotecnologica e domanda etica», pp. 13-20).
8 Cf Id., Etica scienza società. I nodi critici emergenti, Cittadella, Assisi 2005 (in particolare la terza parte dedicata alla «Manipolazione della vita umana», pp. 67102).
9 Cf P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Ed. du Seuil, Paris 1990, pp. 199-236. Cf anche A. DANESE, La struttura triadica dell'ethos della persona, in Id., L'io dell'altro, Marietti, Genova 1993.
10 Cf H. JONAS, Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990.
11 E. LEVINAS, Autrernent qu'être ou au-delà de l'essence, M. Nijhof, La Haye 1974. Cf anche E. LEVINAS - A. PEPERZAK, Etica come filosofia prima?, Guerini e associati, Milano 1989.
12l Cf M. WEBER, Scienza come vocazione e altri testi di etica e di scienza sociale, F. Angeli, Milano 1996.
13 Per un'analisi puntuale delle motivazioni che stanno alla base della teoria «teleologica» e del modo con cui procede nella fondazione delle norme morali, cf B. SCHÜLLER, La fondazione dei giudizi morali. Tipi di argomentazione etica nella teologia morale cattolica, Cittadella, Assisi 1965.
14 Cf Id., La moralité des moyens. La relation de moyen à fin dans une éthique normative de caractère théologique, in «Recherches de Sciences religieuses», 68 (1980), pp. 205-224.
(da: AA.VV., Chiamati alla fede, nei giorni della storia, Ancora 2007, pp. 94-103)