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    Le età della vita 
    la figura dell'uomo

    Giuseppe Angelini


    I
    l tema delle età della vita non appartiene al numero di quelli che hanno una tradizione teologica definita. Eppure ad esso deve essere riconosciuta una pertinenza obiettiva e imprescindibile per rapporto alla riflessione di carattere antropologico. Di più, il tema ha oggi ragioni di particolare urgenza, connesse alle difficoltà consistenti che conoscono i processi di identificazione nell'esperienza occidentale presente, e dunque agli interrogativi teorici che tali processi propongono. Il tema delle età della vita d'altra parte - come è facile intuire - non può essere semplicemente aggiunto agli altri già trattati, mantenendo l'immagine che dell'uomo propone la tradizione dottrinale; impone invece un radicale rinnovamento del modello teorico.

    L'attenzione alla scansione delle età della vita appare di rilievo assolutamente decisivo, in particolare, per pensare il tema dell'educazione; anche questo tema è senza consistente tradizione nella teologia in genere, e nella stessa teologia morale; esso propone obiettivamente una sfida alla tradizione teologica tutta. Il ministero della Chiesa ha accordato da sempre un grande rilievo al compito educativo; l'insistenza è stata più forte nella stagione contemporanea, sullo sfondo della nascita di agenzie educative (la scuola in specie) che sono spesso parse in concorrenza con la famiglia e con la Chiesa. E tuttavia il tema è diventato solo molto sporadicamente oggetto di riflessione teorica. Anche quando questo eccezionalmente è accaduto, la riflessione è parsa come pregiudicata dal modello antropologico dal quale si procedeva. Appunto in ordine al rinnovamento di quel modello appare urgente la considerazione delle età della vita. Più precisamente, occorre considerare il concorso che la successione delle età offre alla configurazione del dramma della vita, e dunque della identità personale. Soltanto attraverso un dramma la persona realizza la propria identità.

    Le ragioni di un difetto

    Che il tema delle età della vita non sia stato di fatto affrontato dalla tradizione teologica in certo senso non sorprende. Vale anche a suo riguardo la considerazione che dev'essere fatta a proposito di tutti i temi della riflessione antropologico fondamentale. Mi riferisco a temi quali l'identità di genere, maschile e femminile, le figure del padre e della madre, il senso della generazione, e quindi dell'educazione, e molti altri temi di consistenza simile. Nelle società tradizionali tutti questi aspetti, di rilievo assolutamente fondamentale in ordine alla comprensione dell'essere umano, parevano trovare determinazione di senso attraverso le forme pratiche della tradizione civile. Tale tradizione, d'altra parte, era connotata in senso cristiano; in tal senso poteva apparire meno urgente proporre una riflessione teologica esplicita a loro riguardo.
    La riflessione a proposito delle età della vita, e quindi a proposito del concorso che tale considerazione offre all'intelligenza della "cosa" umana, appariva non soltanto inattuale, ma addirittura impossibile; era impedita dagli schemi concettuali ai quali si affidava l'intelligenza della realtà dell'uomo in genere. Mi riferisco, più precisamente, a quegli schemi che possono essere efficacemente riassunti mediante l'espressione "antropologia delle facoltà". L'uomo era inteso a procedere da un preciso modello concettuale di base, la substantia, ossia la cosa qualificata. Il divenire della persona era inteso a procedere appunto da una consistenza che la "cosa" umana avrebbe in forza della sua stessa nascita, o della sua natura. Il divenire propriamente umano (l'agere dunque) era pensato a procedere dall'idea cosmologica del movere. L'agire è specificato quale movere seipsum, e più precisamente in finem; l'intenzionalità del movimento, strettamente legata alla ragione, e dunque alla facoltà dell'universale, ne definiva la qualità specifica. Tale movere era pensato a procedere dalla considerazione delle molteplici facoltà dell'uomo, disposte secondo il modello ternario: ragione, volontà e appetiti sensitivi.Il tratto che qui ci preme sottolineare è che l'agire umano - come ogni movimento - era pensato secondo il modello concettuale dell'attuazione di una potenza; la potenza d'altra parte sarebbe iscritta nella natura stessa della sostanza umana. In tale prospettiva appariva a priori esclusa [1] l'eventualità che l'uomo possa giungere attualmente alla propria identità di soggetto unicamente attraverso le risorse che a lui sono offerte dall'accadere effettivo, della sua storia dunque, e rispettivamente dalle forme del suo comportamento. Per accedere alla propria identità, l'uomo dipende dall'accadere; dipende, più precisamente, da un'esperienza che è sua e insieme non è sua; per rendere ragione di tale circostanza occorre riconoscere una prima figura della vita caratterizzata da questa circostanza: in quella prima figura la vita è del soggetto in quanto a lui accade, non invece in quanto è da lui intesa e voluta.
    Andando più alla radice della questione, occorre francamente riconoscere che nella tradizione scolastica del pensiero antropologico l'interrogativo circa l'identità del soggetto non era in alcun modo posto. L'identità pareva andare da sé. Nel clima culturale della tarda modernità, o del postmoderno, l'identità è diventata invece una questione di urgenza estrema. Così è nella pratica della vita; e così è anche nel pensiero. Appunto per poter istruire la questione dell'identità è necessario superare quello schema naturalista di rappresentazione dell'umano, che è proprio della "antropologia delle facoltà".
    Merita di notare, almeno per inciso, come in realtà già nel passato sussistessero per la coscienza cristiana, e dunque per la teologia, circostanze tali da suggerire l'interrogativo a proposito dell'identità come interrogativo in linea di principio inevitabile. Mi riferisco anzi tutto alla concezione della vita quale risposta a una vocazione, che senza ombra di dubbio è concezione irrinunciabile per la coscienza credente. Vale a proposito di ogni uomo ciò che inizialmente è detto del profeta (Geremia):

    Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, 
    prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; 
    ti ho stabilito profeta delle nazioni (Ger 1,5) [2].

    Prima ancora che per riferimento al singolo, il tema della vocazione appare qualificante per rapporto all'identità del popolo di Dio; in quel caso si parla di solito di elezione anziché di vocazione; in ogni caso, il popolo giunge alla coscienza di sé soltanto grazie all'esperienza originaria e sorprendente dei benefici di Dio che lo precedono; la memoria di quei benefici è il cespite indispensabile, al quale occorre sempre da capo fare riferimento, per comprendere la promessa che illumina la vita del popolo, rispettivamente il comandamento che lo istruisce a proposito del cammino. Quello che è detto in prima battuta del popolo vale anche per il singolo; meglio, solo nella vita del singolo trova la sua compiuta verità. Il soggetto viene a coscienza di sé solo attraverso la voce che lo chiama; da quella voce egli è subito rimandato a un cammino. Soltanto attraverso il cammino effettivo egli potrà entrare nella verità del nome, che pure fin dall'inizio gli è assegnato.
    Al tema dell'identità e della sua necessaria mediazione pratica la riflessione teologica è giunta soltanto nella stagione più recente. Essa è sollecitata in tal senso per un lato dalla frequentazione del testo biblico, e per altro lato (il più determinante) dalla riflessione sull'uomo proposta dalla filosofia postmoderna. Notevole successo ha incontrato l'idea di "identità narrativa" proposta in particolare da P. Ricoeur [3]: per dire chi io sono è indispensabile una ripresa del passato che mi costituisce; al soggetto che io sono è data figura soltanto mediante il racconto, che configura quel passato. Successo ancor più diffuso ha avuto la concezione ermeneutica del sapere umano tutto; in forza di tale concezione la percezione significativa del reale avrebbe la forma fondamentale della ripresa interpretante di un'eredità culturale assegnata. Gli stessi sviluppi teologici recenti del teorema dell'identità narrativa [4], applicata per altro alla cristologia assai più che alla generale riflessione antropologica, ignorano la riflessione sulle età della vita. Ignorano più in generale il compito di pensare la distensione temporale della vita nei suoi tratti generali.
    La nostra ipotesi è invece proprio questa: la riflessione generale sulla distensione temporale della vita è condizione necessaria per istruire la comprensione teologica della vocazione quale forma dell'identità, per pensare quindi l'identità umana come fissata dal nome col quale Dio stesso ci chiama, e ci chiama attraverso i segni del tempo. La tradizione simbolica del cristianesimo, quella rappresentata anzi tutto dei testi sacri, offre elementi assolutamente decisivi per istruire il tema della distensione temporale della coscienza, e rispettivamente della libertà. La libertà d'altra parte è tema di rilievo fondamentale per la dottrina antropologica; esso è spesso proposto con toni enfatici nella letteratura; la libertà non può essere in alcun modo compresa a procedere dal modello concettuale suggerito dall'idea di "facoltà" umana, in ipotesi fissata dalla natura stessa dell'uomo; la possibilità della libertà, il suo senso e rispettivamente la sua necessità - alla libertà è infatti necessario che si consenta, perché diventi effettiva [5] -, divengono comprensibili unicamente a procedere dalla considerazione dei tempi successivi della vita. Per essere appena un poco più espliciti, per intendere la libertà occorre procedere dal riconoscimento di questo fatto: i tempi della vita configurano progressivamente per il soggetto il compito di decidere di sé; tanto alto è il prezzo per non perdere il proprio passato, e dunque l'identità che proprio quel passato virtualmente gli assegna.

    Il compito della teologia

    L'intento di questo contributo, di necessità assai limitato, non è, né potrebbe essere, quello di tracciare una precisa descrizione tipologica delle diverse età della vita [6]; ad esse dedicherò uno schizzo sommario nella seconda parte del presente contributo; ma anche quello schizzo mirerà all'obiettivo preminente di delineare i contorni generali della riflessione sulle età della vita e i motivi per i quali essa - in ogni caso necessaria all'antropologia cristiana - appare particolarmente urgente nella situazione storica presente. Eintento dunque è quello di istruire le linee di fondo che deve assumere l'istruzione del tema delle età della vita, perché la riflessione su di esso produca il concorso che deve produrre, essenziale, alla definizione della figura di un'antropologia drammatica.
    La letteratura disponibile aiuta poco. Il tema delle diverse età della vita è trattato con qualche frequenza nella prospettiva pastorale [7], o nella prospettiva spirituale [8]. È trattato talora anche per riferimento al testo biblico [9], ma soltanto con attenzione immediata alle singole età, e non invece al senso sintetico della loro successione. In ogni caso la trattazione appare immediatamente rivolta a intenti pratici o edificanti; l'obiettivo è quello di individuare le forme nelle quale la verità cristiana, che si suppone già nota, deve essere proposta per riferimento alle singole età. Assai più rari sono in contributi dedicati alla considerazione dell'apporto che le singole età offrono alla configurazione complessiva della vita umana, e rispettivamente alla configurazione della stessa verità del vangelo.
    Il tentativo più elaborato di ripensare la figura complessiva dell'umano a procedere dalla considerazione della successione delle singole età rimane probabilmente quello proposto da E. Erikson; egli connette espressamente la sua riflessione sulle diverse età con il compito educativo; più precisamente, con il compito di definire la figura paradigmatica dell'umano, che è quella dell'adulto. La cultura del Novecento ha dedicato prima un interesse spiccato al bambino, poi all'adolescente; ma la comprensione di queste età della vita è destinata a rimanere incompiuta fino a che non ci si interessi dell'età adulta [10]. La riflessione di Erikson appare virtualmente feconda di spunti per la stessa istruzione filosofica e teologica del tema delle età della vita; e tuttavia non mira a un profilo tanto ambizioso. [11]

    Il contributo di Guardini

    L'eccezione più notevole alla generale omissione del tema delle età della vita nel pensiero cristiano è certo la riflessione di R. Guardini, il quale ha dedicato al tema un saggio sempre da capo citato; esso per altro non è l'unico suo contributo sull'argomento, al quale ha invece dedicato una prolungata riflessione [12]. Essa è attraversata da una fine attenzione fenomenologica e da una trasparente preoccupazione educativa; la delineazione descrittiva delle diverse età della vita è proposta in termini del tutto pertinenti e da tale descrizione l'autore trae preziose indicazioni di carattere sapienziale. E tuttavia, in coerenza con il tratto pedagogico di tutta la sua riflessione, egli non si spinge fino al livello di una rinnovata teoria generale dell'umano. All'opera di Guardini è stata dedicata una letteratura secondaria relativamente abbondante; per la gran parte essa non pare però all'altezza degli intenti di fondo obiettivamente sottesi alla sua riflessione; in ogni caso, tale letteratura non affronta i nodi teorici, che la sua riflessione di carattere sapienziale propone [13].
    L'intento di fondo di Guardini è proprio quello di raccomandare l'apporto assolutamente imprescindibile che la considerazione delle età della vita, e rispettivamente della loro correlazione, offre alla comprensione della vita umana nel suo insieme, e dunque alla comprensione della stessa persona umana. Possiamo individuare nella sua riflessione due tesi distinte, che appaiono in prima battuta in tensione reciproca, una sorta di «opposizione polare» [14]; esse possono invece essere comprese soltanto nella correlazione reciproca, e insieme danno figura alla sua visione delle età della vita. La prima tesi afferma la stretta compenetrazione reciproca tra le diverse età della vita; la singola età non può essere compresa altrimenti che per correlazione alle altre. La seconda tesi afferma invece che ciascuna delle età ha una sua specificità, e quindi anche una sua peculiare ragione di perfezione o di valore, la quale non può essere in alcun modo apprezzata quando la singola età sia compresa in maniera troppo precipitosa come un momento di passaggio verso l'età successiva.

    Ogni fase è qualche cosa di peculiare e non può essere derivata da ciò che l'ha preceduta e nemmeno dissolta in ciò che le subentrerà. D'altra parte, tuttavia, ogni fase della vita è inserita nell'ordine della vita nella sua interezza e consegue un suo pieno significato solo se ànche esercita la sua influenza in essa. Abbiamo qui uno dei problemi fondamentali che determinano il processo educativo... [15].

    E per riferimento più preciso all'infanzia:

    ... il bambino, qualora sia visto solo nella prospettiva del diventare adulto e venga influenzato in tal senso, non può neppure diventare un vero adulto, giacché il fatto di avere autenticamente vissuto la propria infanzia non solo costituisce una delle tappe che cronologicamente precedono l'età adulta, ma rimane anche un elemento durevole in tutto l'ulteriore cammino dell'esistenza [16].

    La denuncia di questo rischio - di pensare cioè subito la singola età per rapporto a quelle successive, e solo per rapporto ad esse, quasi essa fosse soltanto un ponte verso il futuro - è ripetuta più volte da Guardini, e con grande forza'''. La denuncia appare convincente; per portarne a chiarezza concettuale la verità sarebbe tuttavia necessario correggere profondamente gli schemi abituali del pensiero antropologico. Sarebbe necessario correggere in particolare lo schema secondo il quale è intesa la distensione temporale della vita; le singole età non si succedono in maniera tale che la nuova decreti la decadenza della precedente; essa porta invece a manifestazione, e insieme anche realizza, una verità che già dall'età precedente era annunciata. In tal senso, soltanto la memoria di ciò che appartiene a un'età precedente, e tuttavia non è stato ancora detto e né pensato in essa, consente di apprendere il senso dell'età successiva. La verità di ciascuna età ha la forma di una ripresa.

    Un'urgenza, rivedere la teoria dell'agire

    Questa figura del rapporto tra le singole età è suggerita da Guardini in termini soltanto descrittivi; essa diverrebbe concettualmente più chiara quando si procedesse da un diverso modello concettuale per ciò che si riferisce alla comprensione dell'agire. Il principio che la singola età è gravida di una verità per sempre, alla quale essa obiettivamente rimanda, non vale soltanto per le singole età della vita; vale anche per le singole azioni. Senso e valore di ogni azione non possono essere apprezzati per riferimento a un preteso "fine", in ipotesi trascendente rispetto all'azione stessa e noto a monte rispetto ad essa; occorre invece riconoscere come ogni azione sia in se stessa gravida di un senso, il quale in prima battuta sfugge alla consapevolezza del soggetto agente; quel senso può essere appreso unicamente attraverso le risorse offerte dalla pratica effettiva. Il primo significante del "fine", o forse meglio del "bene" che motiva l'agire, è l'azione stessa; ci riferiamo all'azione non deliberata, in prima battuta resa possibile da una spontaneità arcana e gravida di una promessa. Alla luce di questa figura è possibile intendere come l'azione, prima d'essere attestazione di una volontà libera, è la forma nella quale soltanto può articolarsi l'interrogazione che il soggetto rivolge al reale tutto.
    La distensione temporale dell'azione non può essere intesa dunque quasi essa fosse la progressiva approssimazione a un fine noto; deve invece essere intesa a procedere da uno schema drammatico. In un primo tempo, il soggetto, assistito dalla sua spontaneità vitale, realizza atti che propiziano il suo accesso alla coscienza, e per altro lato dispongono le condizioni necessarie perché egli possa anche volere, e rispettivamente debba volere. In tal senso appunto l'azione spontanea pone il fondamento della legge morale. La legge è un imperativo imposto al soggetto dalla fedeltà a quel passato grato che ha propiziato l'emergenza della sua coscienza. L'istanza dell'autonomia non deve essere pensata in tal senso per rapporto ad un autòs che sarebbe in ipotesi soggetto determinato nella sua identità a monte rispetto all'agire effettivo; deve essere pensata invece per rapporto a un'identità la quale in prima battuta assume la figura di una promessa.
    In questa luce appunto occorre intendere la verità dell'affermazione di Guardini, che riconosce a ciascuna età una verità indimenticabile. Occorre evitare un intempestivo adultismo, il quale, ignorando la verità propria dell'età infantile o rispettivamente adolescente, subito impone ad esse un modello che non è il loro. Sarebbe per altro altrettanto sba-
    gliato ignorare la gravitazione obiettiva di ciascuna età verso la successiva; una tale gravitazione dà ragione del rischio correlativo all'adultismo, una protezione cioè del minore che induce all'infantilismo.

    Una verità teologale delle singole età?

    Ciascuna età della vita concorre dunque alla configurazione complessiva della vicenda umana. Per riferimento a tale configurazione realizzata in un tempo disteso, la vita tutta assume la figura di Bildung, di processo di formazione della persona [18]. Occorre per altro considerare un altro aspetto del dramma: quello per il quale ciascuna età attesta a suo modo la verità ultima della vita umana, destinata a rimanere per sempre. Essa è verità dello spirito, è addirittura opera dello Spirito Santo. Appunto per riferimento a tale profilo è possibile, anzi necessario, dire di ogni singola età quello che è detto a proposito dell'infanzia: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso (Mc 10,15). Neppure potrà entrare chi non diventi vecchio e non accetti di staccarsi dall'età giovanile, secondo quanto è espressamente segnalato a Pietro: Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi (Gv 21,18).
    Quasi a conferma di tale destino, e insieme a interpretazione di esso, Gesù rivolge poi a Pietro il preciso imperativo, Seguimi (cfr. Gv 21,19); esso gli era stato rivolto fin dall'inizio del cammino, quando appunto era ancora giovane; la verità di quel primo cammino viene però alla luce soltanto nel momento in cui la prima sequela, di fatto già realizzata, assume la forma della necessaria resa alla prepotenza di altri. Questa resa rivela la verità di quella prima obbedienza e insieme la realizza.
    Tento qui, sia pure in forma assai rapida e solo allusiva, di suggerire che e come le singole età rimandino alla verità spirituale sintetica della vita umana tutta; l'intento che mi guida è appunto quello di illustrare il rilievo che le singole età assumono in ordine alla determinazione della verità sintetica del dramma umano, e dunque alla configurazione effettiva del dramma.

    Infanzia

    La verità più qualificante dell'età infantile è la meraviglia. Un sentimento simile a quello del bambino è vissuto con grande evidenza da coloro che lo accolgono nella vita. Essi lo accolgono in una casa da essi stessi predisposta, e in un mondo che ha di che apparire ai loro occhi ben noto. Davvero essi possono predispone la casa, e addirittura il mondo intero, in modo che esso appaia effettivamente come accogliente per il bambino? Certamente non è così. La casa comune dell'uomo e della donna assume davvero la consistenza di una casa in grado di rappresentare l'ordine cosmico e insieme raccomandarlo come accogliente agli occhi del bambino soltanto nel momento in cui la casa è effettivamente occupata dal bambino; la sua presenza porta ad evidenza aspetti della casa che ancora non conoscevano coloro pure l'avevano accuratamente predisposta. Il mondo intero torna ad essere quello che esso era fin dall'origine per l'adulto soltanto nel momento in cui il figlio viene ad abitarlo; solo allora ne diventano da capo evidenti i tratti che ne fanno non un'orrida regione, ma una terra plasmata perché fosse abitata (cfr. Is 45,18). Soltanto sollecitata dall'attesa del figlio la madre trova la persuasione necessaria per porre nei suoi confronti quei gesti rassicuranti, che di fatto essa pone; quei gesti sono assai impegnativi, attestano infatti un ordine morale del mondo; in un tale ordine la madre faticava a credere finché si trattava soltanto di se stessa; ma la presenza del figlio la induce a porre come ovvia una testimonianza tanto impegnativa.
    Abbozzo un'illustrazione concreta. Il bambino piccolo trotterella incerto sulle sue gambe inesperte; inciampa e cade; batte la testa contro il tavolo; scoppia in pianto. La madre immediatamente lo abbraccia e lo bacia; accompagna il suo gesto con parole e con una mimica complessiva, la quale conferisce al suo bacio la fisionomia di una medicina. Magari addirittura picchia il tavolo cattivo; il suo gesto suppone appunto una visione del mondo grandiosa e assai impegnativa. "Non temere, figlio mio - così possiamo parafrasare il senso di quella visione -, non sei solo in questa rischiosa avventura della vita; tutti saranno buoni con te, tutte le cose ti saranno propizie, se tu stesso sarai fedele all'alleanza con loro". Il gesto della mamma ha obiettivamente una verità cosmica; la mamma solo a stento riesce a riconoscerla; il bambino invece la riconosce subito, e molto bene. In tal modo, la mamma diventa interprete di una verità elementare della vita, che per altro ella stessa apprende - può e deve apprendere - solo attraverso la fiducia del figlio. La verità di cui si dice è questa: la vita è possibile unicamente a una condizione, che essa sia preceduta dall'attesa di al- 163
    tri nei nostri confronti. La fiducia del figlio rigenera nella madre quella fiducia, che ella pareva aver dimenticato. Insieme, la fiducia del figlio attende dal gesto e dalla parola della madre le risorse necessarie perché essa possa articolarsi quale visione del mondo.
    I gesti, che la madre in prima battuta compie assistita dalla spontaneità dei suoi modi di sentire, impegnano il suo agire successivo; tale agire successivo, per essere effettivamente realizzato, avrà per altro essenziale bisogno della sua scelta, ossia della sua fede.
    Come riconoscevano già i filosofi classici [19], all'inizio della conoscenza è la meraviglia. La verità di una tale affermazione è illustrata con grande chiarezza dall'interrogativo che il bambino propone in maniera quasi ossessiva, "che cos'è?"; esso nasce appunto dalla meraviglia e sta all'inizio di ogni sapere. Conoscere il mondo non è possibile altrimenti che in questo modo, a procedere da un interesse generato dallo stupore grato che suscita la prima esperienza di tutte le cose; prima che sia possibile dare un nome alle cose, appare certa la loro prossimità. Rispondere all'interrogativo del bambino e così dare nome a tutte le cose, sanzionandone in tal modo il carattere domestico, suppone che si assuma insieme un impegno. Dare nome a tutte le cose equivale a rendersi testimoni del loro senso, dunque equivale a dare la propria parola, a promettere. In nessun'altra esperienza appare così evidente l'equivalenza tra il dire la parola e il dare la parola quanto nel caso delle parole che sono dette ai bambini.
    Proprio tale nesso tra dare un nome e promettere mostra come la meraviglia sia il fondamento, oltre che della parola, della legge stessa. Così suggerisce espressamente il racconto del Sinai, il quale suggerisce un legame stretto tra la legge data sul monte e la grazia conosciuta in precedenza attraverso il passaggio del mare: Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all'Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me (Es 19,4).
    L'immagine dell'aquila che porta l'aquilotto sulle proprie ali è del tutto simile a quella di ogni madre che porta in braccio il figlio (cfr. Os 11,3-4). Per descrivere l'esperienza della rivelazione di Dio nella storia i testi biblici ricorrono sempre, con tutta naturalezza, alle immagini proposte dalle esperienze umane fondamentali; in questo caso, ricorrono all'immagine dell'esperienza infantile. Questo è possibile in forza dell'obiettivo rimando che quelle esperienze elementari istituiscono alla verità stessa di Dio. La rivelazione di Dio nella storia, attingendo a queste immagini, concorre insieme a dare figura all'originaria verità religiosa di quelle esperienze.
    Si realizza a proposito dell'infanzia e del rapporto parentale un processo del tutto simile a quello che si realizza a proposito del rapporto sponsale; questo secondo processo, diversamente dal primo, è comunemente riconosciuto dalla letteratura. Mi riferisco più precisamente a questo processo: l'utilizzo profetico della metafora sponsale per dire dell'alleanza sortisce un esito per così dire preterintenzionale, quello di rendere l'immagine stessa dell'alleanza operante in ordine alla rinnovata comprensione della relazione sponsale.

    Fanciullezza

    La meraviglia è il tratto più caratterizzante anche per rapporto all'età della fanciullezza; in tal caso essa assume per altro fisionomia diversa; la meraviglia non più quella dell'essere semplicemente anticipati dalla realtà, ma quella che accompagna la scoperta, l'attiva presa di possesso del reale. Il fanciullo conosce la meraviglia della corrispondenza quasi magica della realtà alla sua iniziativa; essa genera una sorta di euforia.
    Proprio la correlazione tra esplorazione e scoperta dispone le condizioni per la tentazione caratteristica della fanciullezza, quella della dispersione. Per riferimento all'età della fanciullezza pare eccessivo parlare di una vera e propria tentazione in accezione morale; e tuttavia il rischio della dispersione è obiettivo; il rimedio ad esso deve essere disposto ad opera dell'adulto.
    La retorica pedagogica corrente, spiccatamente puerocentrica, rimuove la considerazione del rilievo che assume - in ordine alla comprensione della esperienza infantile - la testimonianza realizzata dall'adulto mediante la sua vita complessiva; proprio tale rimozione dispone lo sfondo che rende alla fine inesorabile la censura del compito educativo in generale nella nostra cultura. Appunto tale rimozione minaccia di produrre un positivo incoraggiamento all'inclinazione dispersiva propria della fanciullezza. Nel testo di Osea da noi sopra già richiamato, che descrive il tradimento di Israele ricorrendo all'immagine del giovinetto, è suggerita un'antitesi tra la chiamata del figlio e le pratiche religiose superstiziose della religione della gente di Canaan:

    Quando Israele era giovinetto,
    io l'ho amato
    e dall'Egitto ho chiamato mio figlio. 
    Ma più li chiamavo,
    più si allontanavano da me;
    immolavano vittime ai Baal,
    agli idoli bruciavano incensi.
    Ad Efraim io insegnavo a camminare 
    tenendolo per mano,
    ma essi non compresero
    che avevo cura di loro (Os 11,1-3).

    Essi non compresero, sedotti dal fascino esuberante dei beni della terra; rispettivamente, sedotti dall'illusione che quei beni fossero accessibili mediante le pratiche magiche della gente della terra (le vittime ai Baal), senza dover disporre di sé. Appunto il profilo facile, che proprio nell'età della fanciullezza assume la scoperta dei beni della terra, alimenta il feticismo. La dissipazione dei fanciulli euforici avrebbe di che istruire a proposito di una tentazione, che certo non è esclusiva della fanciullezza; anzi, un profilo propriamente morale la tentazione assume soltanto nell'età adulta. Il rimedio tipico a tale tentazione è la disciplina, dunque la regola della vita. Appunto nell'età della fanciullezza si produce - o quanto meno, dovrebbe prodursi - l'apprendimento della legge, intesa nel suo profilo di regola di vita; è questo un profilo solo parziale, a tuttavia imprescindibile. L'apprendimento della legge, d'altra parte, non si produce certo attraverso le risorse dell'insegnamento verbale, ma solo attraverso l'iscrizione pratica effettiva di essa nella vita degli adulti, e quindi nel loro rapporto con i figli fanciulli.

    Adolescenza

    L'età dell'adolescenza è quella nella quale si manifesta con la massima evidenza il profilo più radicale della libertà, che è insieme il profilo più facilmente ignorato nei discorsi pubblici e soprattutto nella pratica corrente della vita. Nonostante il gran parlare che si fa di libertà e gli apprezzamenti enfatici che ne vengono proposti, il senso profondo della libertà appare oggi dimenticato. Mi riferisco al profilo per il quale la libertà comporta la disposizione di sé; una scelta tanto radicale è la condizione necessaria perché il singolo possa accedere alla propria identità. L'adolescenza è appunto l'età nella quale il soggetto deve decidere di sé. Il passaggio dall'età minorile a quella adulta non è certo possibile nella forma di una crescita progressiva, che risulti in ipotesi dallo sviluppo di tutte le facoltà; quel passaggio esige invece una decisione a proposito di sé. In nessun altro tempo della vita come in questa età dell'adolescenza la decisione appare come un taglio, un passaggio netto e puntuale. Non a caso, l'adolescenza appare oggi assai distesa nel tempo, e anzi minaccia di divenire addirittura interminabile. Così accade, perché mai sembrano maturi i tempi per decisioni irrevocabili.
    Il carattere interminabile dell'adolescenza è il tratto forse più qualificante della stagione postmoderna; ed è tratto assai preoccupante. Nelle stagioni civili precedenti l'adolescenza aveva la fisionomia di un momento concentratissimo di passaggio; oggi essa assume invece la fisionomia di un tempo disteso, che assegna addirittura una condizione sociale. Tale condizione è, più precisamente, quella di marginalità sociale; l'adolescente mantiene una riserva nei confronti dell'alleanza che tiene insieme la società degli adulti.
    L'adolescente fatica a diventare adulto. Più radicalmente, non desidera affatto diventarlo. La prospettiva appare ai suoi occhi come un destino che certo alla fine sarà inevitabile, ma non è affatto attraente. La cultura moderna era caratterizzata dall'ideale dell'età adulta; quella postmoderna pare segnata invece dal principio "adulto è brutto". Le decisioni, che dovrebbero sancire la fine del tempo dell'adolescenza, sollevano obiezioni senza fine. Pensiamo anzitutto alla decisione matrimoniale; il rapporto affettivo tra ragazzo e ragazza è vissuto oggi già in età assai precoce, ma è vissuto senza essere accompagnato dal desiderio di matrimonio; è vissuto invece come auspicato rimedio alla necessaria provvisorietà del presente. Sempre più frequente è la scelta della convivenza; essa appare la scelta più ovvia, l'unica ragionevolmente praticabile, per il momento. Poi, si vedrà. Anche la scelta della professione interviene oggi soltanto dopo molte scelte preliminari, le quali sono fatte a semplice titolo di esperimento; soltanto dalle imprevedibili occasioni della vita si attende quel futuro professionale persuasivo, che non si saprebbe in alcun modo immaginare e perseguire.
    Sullo sfondo del rifiuto dell'età adulta da parte dell'adolescente stanno ragioni complesse, legate ai tratti generali della vita: penso alla sua quasi ingovernabile complessità, alla necessità prolungata della scuola, ai lunghi tirocini che impone lo stesso apprendimento di un mestiere. Stanno però anche ragioni di carattere propriamente culturale, legate alla figura che la cultura pubblica propone della vita riuscita. Essa propone infatti modelli sperimentalistici, che sono assai simili a quelli un tempo propri dell'adolescente. In tal senso, mancano agli adolescenti modelli di identificazione per passare all'età adulta.
    Per scelte irrevocabili, nel caso degli adolescenti manca la persuasione; nel caso degli adulti manca una giustificazione di principio. Perché mai dovrebbero essere fatte scelte irrevocabili? La risposta alla domanda dovrebbe apparire subito chiara: la vita è una sola, e finisce; per non perderla occorre che tu ne disponga prima che il tempo te la porti via. Questa risposta, per sé ovvia, non appare affatto tale nel nostro tempo. La vita è pensata, e quindi poi anche vissuta, come una possibilità sempre aperta e senza scadenze, senza morte.
    Nel caso degli adolescenti, la scelta di affidarsi a modelli di vita apprezzati soltanto in forma estetica, affidandosi dunque all'immaginazione e alla sensazione, appare come una necessità fisiologica; quella età infatti è per sua natura un'età patologica, informata cioè al logos che è figlio del pathos. Il modello di una vita estetica è però proposto oggi a tutti, anche a coloro che non sono più adolescenti, dall'industria dell'immagine; e in forme assai efficaci. Nel caso degli adolescenti è in qualche modo una necessità anche questa, che attraverso il proprio agire il singolo si cerchi piuttosto che spendersi. Anche questo modo di pensare e di vivere l'agire appare però oggi tendenzialmente comune agli adulti tutti. Attraverso la prova dell'agire, attraverso un agire vissuto solo come prova, è cercata una persuasione che a priori pare mancare. Nel caso degli adolescenti, è in qualche modo ineluttabile che i nuovi modelli di vita adottati per uscire dall'infanzia siano quelli appresi in forma mimica all'interno del gruppo dei pari, e non invece nella forma della tradizione che passa da una generazione all'altra. Questi modelli appaiano non sostenuti da alcuna autorità; essi attendono solo dalla sperimentazione effettiva criteri per essere apprezzati. Nella società contemporanea la retorica libertaria comune impone anche agli adulti di non proporre mai modelli di vita normativi, di rinunciare all'esercizio di ogni autorità. Chi è adulto - così si dice - può al massimo proporre una testimonianza; i figli stessi dovranno poi scegliere. Anche sotto tale profilo il difetto di modelli adulti rende il passaggio a tale età anzitutto impreciso, poi anche poco apprezzato.
    I brevi cenni descrittivi sul fenomeno dell'adolescenza interminabile illustrano in maniera più concreta il senso dell'affermazione sopra fatta: la riflessione sull'età della vita è indispensabile alla comprensione critica della nostra epoca, e insieme alla determinazione della figura cristiana della vita matura. Considerare questa emergenza dell'adolescenza interminabile permette di istruire in forma più determinata l'interrogazione teorica, e la stessa interrogazione del testo biblico su questa materia.
    La resistenza dell'adolescente alla scelta è di sempre, non solo di oggi. Essa è illustrata dalla obiezione che Geremia eleva nei confronti della propria vocazione: Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane (Ger 1,6). Ad essa Dio risponde: Non dire: Sono giovane, ma và da coloro a cui ti manderò e annunzia ciò che io ti ordinerò. Non temerli, perché io sono con te per proteggerti (Ger 1,7-8).
    Vediamo qui illustrato il principio radicale, che solo può autorizzare la decisione che segna il passaggio all'età adulta: per operare quella scelta occorre affidarsi ad un'autorità, dunque a una parola più che umana. La minaccia massima alla nostra libertà non viene certo oggi nei paesi occidentali dalla miseria o dalla costrizione; viene invece dal difetto di evidenza dell'autorità, che sola consente il dono della vita.

    Giovinezza

    Connessa alla sindrome sopra segnalata, e cioè il prolungamento innaturale dell'adolescenza, è la spiccata compressione che conosce nell'esperienza presente dell'uomo occidentale l'età giovanile; per molti aspetti essa pare addirittura tendenzialmente cancellata. Precisarne i limiti cronologici è arduo; l'arco di vita un tempo assegnato a questa stagione della vita (tra i 18 e i 25 anni) appare oggi occupato ancora dall'adolescenza. Non è facile neppure descrivere i tratti psicologici di tale età. Ad essa poi pare sostanzialmente negato ogni profilo di figura di valore, quando si considerino le figure di valore proposte dalla letteratura contemporanea.
    La virtù caratteristica della giovinezza è la fortezza. Più precisamente, è il coraggio, dunque un atteggiamento quasi di sfida nei confronti del reale. Offrono una persuasiva immagine della giovinezza dello spirito le parole di esortazione che Dio stesso rivolge a Giosuè nel libro omonimo:

    Sii coraggioso e forte, poiché tu dovrai mettere questo popolo in possesso della terra che ho giurato ai loro padri di dare loro. Solo sii forte e molto coraggioso, cercando di agire secondo tutta la legge che ti ha prescritta Mosè, mio servo. Non deviare da essa né a destra né a sinistra, perché tu abbia successo in qualunque tua impresa. Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma mèditalo giorno e notte, perché tu cerchi di agire secondo quanto vi è scritto; poiché allora tu porterai a buon fine le tue imprese e avrai successo. Non ti ho io comandato: Sii forte e coraggioso? Non temere dunque e non spaventarti, perché è con te il Signore tuo Dio, dovunque tu vada (Gs 1,6-9).

    L'associazione tra giovinezza e fortezza trova riscontro preciso nella sintesi breve che la l' Giovanni propone delle tre età della vita (figlioli, padri e giovani); appunto la fortezza è il privilegio riconosciuto a questa età, e la sorgente della fortezza è indicata nell'obbedienza alla parola di Dio: Scrivo a voi, giovani, perché avete vinto il maligno (1 Gv 2,13b); Ho scritto a voi, giovani, perché siete forti, e la parola di Dio dimora in voi e avete vinto il maligno (1Gv 2,14c) [20].
    Il tipo ideale del giovane è appunto quello del soggetto che sfida la vita. Volendo cercare un modello negli stereotipi letterari recenti, viene ovvio pensare alla figura del cow boy, che parte per una terra sconosciuta; che quella terra sia sconosciuta non appare affatto come una ragione sufficiente per scoraggiare la partenza. Il giovane è idealista; l'ideale che lo sostiene - occorre subito precisare - non ha in realtà la consistenza di un'idea, ma è quella raccomandata dalla memoria epica, dunque dalla testimonianza dei padri. Anche in tal senso appare illuminante la figura di Giosuè, strettamente legata all'eredità di Mosè. Il nesso stretto che lega la fortezza prescritta a Giosuè con il testamento di Mosè ci consente di riconoscere l'apporto che offrono alla delineazione dello spirito della giovinezza le parole mediante le quali Gesù stesso affida ai suoi discepoli il proprio testamento. Pensiamo in particolare alle istruzioni proposte nei discorsi di missione; esse descrivono efficacemente l'aspetto per il quale il cammino dei discepoli non dovrà fare affidamento su ciò che li precede, né sui rapporti di familiarità garantiti da una precedente conoscenza, né su alcun presidio che potrebbe essere garantito in ipotesi dagli averi; dovranno affidarsi invece soltanto alla promessa di colui che li manda: Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa (Lc 10,3-5).

    Le parole di Gesù offrono un'efficace interpretazione dell'idealismo giovanile; esso non dev'essere inteso troppo precipitosamente come fedeltà a un ideale, deve invece essere inteso quale riflesso della fede in una promessa, istituita appunto dalla testimonianza del Maestro. Altrettanto eloquenti appaiono le parole con le quali Gesù istruisce i discepoli circa il tempo successivo alla sua morte: Mettetevi bene in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò lingua e sapienza, a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere, né controbattere (Lc 21,14-15).
    Appunto la rinuncia a preparare prima la difesa definisce la figura del coraggio chiesto dalla missione. Essa certo esige anche che i discepoli si procurino una spada, ma è spada diversa rispetto a quella a cui subito pensa la sapienza umana:
    Poi disse: «Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?». Risposero: «Nulla». Ed egli soggiunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine». Ed essi dissero: «Signore, ecco qui due spade». Ma egli rispose «Basta!» (Lc 22,35-38).
    La vita umana assume anche, e certo non marginalmente, la forma di una sfida al mondo e alle sue potenze. La fortezza che tale sfida richiede, prima d'essere conquista laboriosa realizzata attraverso una lunga disciplina, è una disposizione per così dire spontanea; quanto meno, dovrebbe essere una disposizione spontanea, e la stagione della vita nella quale questa disposizione appare più evidente è appunto la giovinezza. Di fatto, appare oggi sempre più difficile riconoscere documenti di questa fortezza spontanea del giovane; appare sempre più difficile riconoscere la figura di questa età. Nell'età che dovrebbe essere riconosciuta come quella propria della giovinezza sotto il profilo anagrafico pare invece che le persone cerchino soprattutto spazi definiti e rassicuranti; cerchino precocemente un rifugio. Mi pare che questo sia uno degli aspetti più appariscenti e preoccupanti delle
    grandi difficoltà incontrate oggi dai processi di identificazione.

    Maturità

    La fortezza è virtù caratteristica anche della successiva età adulta o matura [21]; si tratta però in tal caso della fortezza intesa come costanza, piuttosto che come coraggio. La prova tipica, con la quale deve cimentarsi la persona nell'età matura, è quella costituita dal cimento con la complessità del reale. Sotto il profilo psicologico, è facile rilevare un'attenuazione di quell'appariscente slancio idealistico proprio dell'età precedente. Tale attenuazione dispone le condizioni per una tentazione, accontentarsi di poco. La figura di tale tentazione è bene illustrata dalla sentenza cinica del maestro di tavola a Cana: Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un pò brilli, quello meno buono. Egli appare in tal senso fedele interprete del modo di giudicare della gente di mondo; pare infatti a questa gente che sia legge inesorabile quella per la quale la generosità del vivere svanisca con il prolungarsi dei tempi. Lo sposo di Cana però smentisce una tale legge: tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono (cfr. Gv 2,10). Per rapporto a questa tentazione, la fortezza dell'età matura assume il tratto caratteristico della perseveranza. Essa non è da intendere certo come una costanza ottusa e spenta; deve infatti garantire il vino buono, e dunque la gioia del vivere, fino all'ultima ora della vita.
    È possibile riconoscere qualche ragione di congruenza tra questa immagine della maturità e quella espressa dalla metafora della maggiore età usata per definire l'ideale dell'uomo moderno; ma maggiori sono le differenze. La metafora della maggiore età privilegia il profilo dell'autonomia dell'adulto; intende per altro tale autonomia solo per negazione; negata è - più precisamente - la dipendenza dalla guida di altri; affermata è dunque l'emancipazione dalla tradizione grazie alle risorse offerte dalla propria ragione [22]. In realtà, l'autonomia dell'età adulta appare invece legata alla capacità di appropriarsi della tradizione, di trovare dunque attraverso la tradizione ciò che è più proprio.
    Questa appropriazione può essere realizzata unicamente a prezzo di scorgere attraverso la tradizione, e al di là di essa, la verità religiosa alla quale essa obiettivamente rimanda. Immagine paradigmatica dell'adulto è in tal senso il padre; per diventare tale, egli deve non dipendere più da un altro padre sulla terra, ma da Colui che è padre fin dall'origine: Scrivo a voi, padri, perché avete conosciuto colui che è fin dal principio (1Gv 2,13).
    La fortezza dell'età matura nel modo di vedere comune è connotata, diversamente da quella giovanile, dalla conoscenza esperta del mondo; appunto una tale conoscenza dovrebbe consentire di non essere più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l'inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell'errore (Ef 4,14). Con queste parole la lettera agli Efesini intende descrivere precisamente la maturità del cristiano, e cioè lo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo (Ef 4,13). Nella prospettiva della fede cristiana, coerente con tutta la tradizione biblica, la sapienza non è però frutto automatico dell'esperienza, esige invece più in radice il timore del Signore.

    Vecchiaia

    La fortezza appare infine la virtù caratteristica anche dell'età estrema della vita. Non deve troppo sorprendere che la stessa virtù, la fortezza, caratterizzi tutte le età successive all'adolescenza; proprio la fortezza infatti è la virtù propria della libertà. Ma che cosa sia libertà può essere detto soltanto attraverso il dramma; come già accade per le età precedenti, per ogni stazione del cammino della libertà [23], anche nel caso della stazione suprema la libertà non può essere intesa quasi consistesse nella mera conferma di una figura definita in termini universali. La fortezza chiesta nell'età della vecchiaia concorre invece a determinare l'idea di fortezza in generale, e la stessa idea sintetica di libertà, che in ogni suo singolo stadio appare incompiuta e sfuggente.
    Il tratto della fortezza reso manifesto dalla vecchiaia è quello per il quale essa chiede simultaneamente distacco e attaccamento, resistenza e resa.
    Il distacco chiesto è quello supremo, quello dunque dalla vita stessa. Subito occorre precisare, dalla vita presente. La vita è per sua natura cosa futura e non presente; è cosa che può e deve essere attesa soltanto dall'alto; la sua grazia infatti è la verità della vita; in tal senso il Salmo afferma che la tua grazia vale più della vita (Sal 63,4). Il distacco supremo manifesta la verità compiuta del distacco che è tratto intrinseco di ogni atto libero; non a caso decidere si dice con un verbo che nella lingua latina significa anche tagliare. Illustra con efficacia il senso del distacco intrinseco ad ogni atto libero l'immagine evangelica del contadino che getta il seme: Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga (Mc 4,26-28).
    La figura del distacco, richiesto in ogni caso dalla decisione, è diversa nelle diverse età. In quella decisione, che segna il passaggio dall'età minorile all'età adulta, dunque dalla casa in cui siamo nati a quella della quale dovremo in certo modo essere artefici noi stessi (il caso tipico è la decisione matrimoniale), il taglio è propiziato da un'evidenza sensibile del futuro, di cui il giovane stesso è artefice. Nella decisione prospettata dal passaggio della vecchiaia, prospettata dunque dal passaggio della morte, il soggetto non appare in alcun modo artefice del proprio futuro; al suo futuro deve semplicemente consegnarsi, come a una promessa. Bene interpretano la verità spirituale dell'età senile le parole del vecchio Simeone: Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza (Lc 2,29-30).
    Proprio queste parole mostrano, per altro, come il distacco non possa essere inteso quasi fosse un'interruzione; esso assume piuttosto la forma di un compimento. Solo perché i miei occhi hanno visto la sua grazia, posso camminare con fiducia verso ciò che sta oltre la portata degli occhi. Il compito della vecchiaia è la definitiva adozione della vita già vissuta - se così possiamo paradossalmente esprimerci; il compito non è invece quello, patetico e addirittura tragico, di aggiungere altro alla vita già vissuta. L'adozione di cui si dice certo comporta anche la confessione del proprio peccato, oltre che la confessione la confessione della sua grazia. Il compito è in ogni caso la confessione, e non l'azione. La confessione porta alla luce un tratto che era proprio dell'azione fin dall'inizio. L'agire umano è attestazione della grazia di Dio che ci precede; tale attestazione trova la sua forma compiuta soltanto quando le mani sono ferme, le potenze attive cioè sono ormai sospese, e la libertà si esprime appunto nella forma dell'attestazione. Bene riassumono questo compito della vecchiaia le parole della 2' Timoteo, che articolano una sorta di testamento di Paolo:
    Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione (2 Tm 4,6-8).
    Esse offrono una chiave per riconsiderare le parole del testamento stesso di Gesù, in specie nella elaborazione diffusa che esse trovano nei discorsi di addio del vangelo di Giovanni.
    Al vangelo stesso di Gesù dobbiamo riferirci in ultima istanza per comprendere il senso delle diverse età della vita; e tuttavia è vero insieme che la comprensione piena di quel vangelo ha essenziale bisogno di essere istruita attraverso l'elaborazione degli interrogativi che la stessa successione delle età obiettivamente propone nell'esperienza di tutti i figli di Adamo.

    * * *

    La cultura del nostro tempo - soprattutto quella espressa dai modelli di vita proposti dall'immaginario pubblico, dalle chiacchiere fatte sulle pubbliche piazze, dalle sue rappresentazioni futili, "democratiche" e ammiccanti - alimenta una rappresentazione della vita che privilegia il modello dell'adolescenza. Il soggetto cercherebbe se stesso attraverso un interminabile esperimento. Egli respinge il presunto dispotismo della legge, e insieme le incongrue catene della promessa che lega per sempre. La cultura del nostro tempo pare alimentare una visione decisamente estetica della vita, intesa come la visione in forza della quale il soggetto sarebbe condannato a cercare attraverso la sempre rinnovata sensazione (aistehesis), attraverso la sempre rinnovata esperienza passiva della gratificazione, la conferma di un cammino senza meta precisa.
    Il rimedio a tale visione adolescenziale della vita esige che si chiarisca la figura del tempo pieno, di un ultimo tempo (escatologico) dunque nel quale soltanto è concesso alla vita umana di trovare la propria verità. La vita umana gravita verso un tempo compiuto. Esso è in ultima istanza il tempo della salvezza, certo; quello però solo a stento può essere qualificato come un tempo della vita. Prima ancora della salvezza, tempo pieno della vita umana è quello nel quale soltanto è possibile la decisione. La figura di questo tempo pieno è efficacemente espressa dalla famosa formula del vangelo di Marco: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo (Mc 1,15). Soltanto la pienezza del tempo consente la fede e la conversione. E la pienezza del tempo è certo solo quella realizzata grazie alla presenza del Figlio di Maria tra gli uomini.
    Per intendere tale figura del tempo pieno è per altro necessario riconoscere le prefigurazioni che ne vengono offerte nelle forme della vita di ogni nato di donna; la configurazione dell'identità del soggetto si produce sempre in un tempo disteso, che è insieme un tempo raccolto, che può e rispettivamente deve essere raccolto mediante l'atto libero; ma può essere raccolto soltanto quando maturino le condizioni per l'atto libero. Chiarire questo intreccio è condizione essenziale per comprendere il mistero del Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli (Gal 4,4-5). È insieme condizione essenziale perché la fede nel mistero del Figlio diventi feconda in ordine alla comprensione del mistero operante nel dramma di ogni nato di donna, di ogni figlio dunque che diventa uomo.

    NOTE

    * Questo saggio ha origine da un contributo dell'autore al VII Colloquio di Teologia Morale (Roma, 10-11 novembre 2006) organizzato dal Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, con il titolo «Cammino della vita. L'educazione, una sfida per la morale», e comparirà in forma sostanzialmente identica anche sugli Atti di quel Colloquio.
    1 L'esclusione di cui si dice è quella implicita nelle forme del discorso teorico; essa era per altro smentita dalla concezione della vita umana iscritta nelle forme effettive della cultura, e dunque anche nelle forme della coscienza stessa; si realizzava in tal caso, come in molti altri casi, un difetto della teoria per rapporto alle evidenze proprie della coscienza.
    2 L'esperienza di Geremia (vedi però anche ciò che è detto del servo sofferente, Is 49,1) è all'origine di una tradizione spirituale, alla quale daranno espressione cospicua i Salmi (vedi in particolare Sal 139), e che troverà riscontro negli stessi scritti del Nuovo Testamento (vedi in particolare le formule usate da Paolo per dire della propria vocazione in Gal 1,15).
    3 Mi riferisco più precisamente al Quinto Studio di P. RICOEUR, Sé come un altro (1990), Jaca Book, Milano 1993, 201-262; il tema dell'identità narrativa era già stato proposto dall'autore in ID., Tempo e racconto, Vol. 3: Il tempo raccontato (1985), Jaca Book, Milano 1988, ma in una prospettiva diversa, di teoria letteraria piuttosto che di teoria dell'identità del soggetto, come espressamente dichiarato in ID., Sé come un altro, 202, alla n. 1 in particolare.
    4 La proposta della narrazione quale forma complessiva della teologia precede certo il contributo di Ricoeur; essa risale a due contributi apparsi sulla rivista «Concilium» nel 1973: H. WEINRICH, Teologia narrativa, e J.B. METZ, Breve apologia del narrare, «Concilium» 9 (1973) 846-859; 860-878; sul tema ritorna poi il saggio di H. WEINRICH, Lete. Arte e critica dell'oblio (1997), Il Mulino, Bologna 1999; la proposta della teologia narrativa appare però segnata da un interesse preminente per l'idea di rivelazione; è assai meno interessata alla riflessione antropologica; vedi tra gli altri J. NAVONE, L'amore evangelico. Una teologia narrativa, Borla, Roma 1986; J. NAVONE - Th. COOPER, Narratori della parola, Piemme, Casale Monferrato 1986; J. NAVONE, Il modello di teologia narrativa narrato, «Salesianum» 49 (1987) 674683; C. ROCCHETTA, La teologia narrativa. Una nuova figura di teologia?, «Ricerche Teologiche» 2 (1991) 153-180.
    5 La libertà è tema decisamente poco frequentato dalla riflessione antropologica fondamentale recente; esso è trattato assai più nell'ottica - superficiale - della riflessione giuridica e politica; la censura del tema è il riflesso di una fuga dalla libertà, che si realizza nella vita stessa; pertinente è in tal senso la denuncia di E. FROMM, Fuga dalla libertà (1941), Mondatori, Milano 1994, la quale per altro pare pregiudicata da una concezione ingenua della libertà quale spontaneità dei sentimenti, sottratti alla pressione della civiltà.
    6 Qualche indicazione più esplicita in tal senso suggerisco nel contributo sintetico G. ANGELINI, Ripensare l'uomo a procedere dalla relazione tra genitori e figli, in Genitori e figli nella famiglia affettiva, Glossa, Milano 2002, 259-294, e soprattutto nel saggio G. ANGELINI, Educare si deve, ma si può?, Vita e Pensiero, Milano 2002, 37-161.
    7 Vedi ad esempio i fascicoli monografici Le età della vita, «Credere oggi» 109 (gennaio/febbraio 1999); Le età della vita, «Parola Spirito Vita» 49 (2004); come anche la raccolta curata da P. ROTA SCALABRINI (ed.), Attraversare il tempo. Le età della vita, Litostampa Istituto Grafico, Bergamo 2005.
    8 P. EVDOKIMOV, Le età della vita spirituale (1964), Prefazione di O. CLEMENT, EDB, Bologna 1981; G. DANNEELS, Le stagioni della vita, Queriniana, Brescia 1998; PH. SCHÄFER, Spiritualità della terza età (1999), Queriniana, Brescia 2001.
    9 Prevedibilmente, relativamente numerosi sono i contributi sull'infanzia, un'età della vita che nel vangelo è indicata espressamente da Gesù come figura della fede che sola consente l'ingresso nel regno dei cieli (indichiamo a titolo di esempio S. LEGASSE, Jésus et l'enfant. Enfants, petits, et simplex, dans la tradition synoptique, J. Gabalda, Paris 1969; G. KRAUSE, Kinder im Evangelium, Klotz Verlag, Stuttgart 1973; R. VOELTZEL,
    L'enfant et son éducation dans la Bible, Beauchesne, Paris 1977; H.R. WEBER, Gesu e i bambini: sussidi biblici per lo studio e la predicazione, Paoline, Roma 1981); espressamente valorizzata nel suo significato religioso è anche la figura del vecchio, illustrata da molti personaggi biblici (vedi ad esempio P. TREMOLADA, Zaccaria, Elisabetta, Simeone e Anna: la vecchiaia benedetta da Dio, in Le età della vita, «Parola Spirito Vita» 49
    [2004] 125-139; P. ROTA SCALABRINI, La sazietà dei giorni. L'anziano nella visione biblica, in ID. (ed.), Attraversare il tempo. Le età della vita, 101-125; numerosi riferimenti a personaggi biblici si trovano nel "manifesto" dello psicanalista R. DADOUN, Manifeste pour une vieillesse ardente, Editions Zulma, Paris 2005) e oggetto di attenzione esplicita in Qoèlet 12 (si può vedere in proposito P. MANIVIT, La vieillesse dans la Bible, «Évangile et liberté» 195 [Janvier 2006]); decisamente meno significativi ci paiono i contributi dedicati all'età dell'adolescenza e della maturità.
    10 «Quando ero più giovane si parlava molto del secolo del bambino. E forse finito? Speriamo che abbia fatto tranquillamente il suo tempo. Da allora abbiamo avuto qualche cosa di simile ad un secolo del giovane. Ma, ditemi, quando comincerà il secolo dell'adulto? Qui, mi sembra, alcune domande rimangono senza risposta. E tuttavia la nostra conoscenza dei bambini oltre che dei giovani rimarrà alquanto frammentaria (per essi come per noi) se non sappiamo cosa vogliamo che essi diventino, o persino che cosa vogliamo essere - oppure, essere stati - noi stessi. Senza questa conoscenza ci sentiamo vagamente colpevoli, sia che siamo permissivi o invece punitivi. Sentendoci colpevoli, eccederemo in entrambi i sensi. E, diciamolo chiaramente, nessuna prova statistica e nessuna tabella delle componenti buone e cattive per i bambini e per i giovani ci dirà mai come essere noi stessi - cosa questa che ad essi pare essere la più importante», E.H. ERIKSON, Aspetti di una nuova identità (1973), Armando, Roma 1975, 129; le opere maggiori rilevanti per il tema sono ID., Infanzia e società (1950), Armando, Roma 1976; Gioventù e crisi di identità (1968), Armando, Roma 1974, 1995.
    11 Un tentativo analogo, ma certo assai meno attento al contesto antropologico culturale presente, è proposto nell'opera più volte riedita di A. PETZELT, Kindheit - Jugend - Reifezeit. Grundriss der Phasen psychischer Entwicklung, Caritasverlag, Freiburg im Breisgau 1951, 1965'.

    I2 La sua opera maggiore è R. GUARDINI, Le età della vita. Loro significato educativo e morale (1953), Vita e Pensiero, Milano 1986; del tema si occupa per altro anche ID., Etica. Lezioni all'Università di Monaco (1993), Morcelliana, Brescia 2001, nel capitolo «Le età della vita e il suo corso intero», 565-629.
    13 Sul pensiero pedagogico di Guardini vedi i contributi recenti: M. LOCHBRUNNER, Die Lebensalter nach Romano Guardini, in Berufung zur Liebe. Ehe - Familie - Ehelosigkeit, Theologische Sommerakademie - Gerhard Stumpf, Diessen - Landsberg 2001, 223-250; C. FEDELI, Pienezza e compimento. Alle radici della riflessione pedagogica di Romano Guardini, Vita e Pensiero, Milano 2003; delle età della vita si è occupato in Italia soprattutto S. ZUCAL, Romano Guardini e le età della vita, «Parola Spirito Vita» 49 (2004) 197-212; vedi anche, in F.L. MARCOLUNGO - S. ZUCAL (ed.), L'etica di Romano Guardini. Una sfida per il post-moderno, Morcelliana, Brescia 2005; utile anche la lettura della Prefazione di V. MELCHIORRE a R. GUARDINI, Le età della vita, 7-27.
    14 Come noto, proprio a tale opposizione polare è dedicata la precoce riflessione teorica di Guardini, che poi egli abbandonerà, per dedicarsi a interessi di carattere prevalentemente pedagogico; il suo saggio R. GUARDINI, Gegensatz. Versuche zu einer Philosophie des Lebendig.konkreten, del 1925 (ma rielaborazione di un precedente saggio del 1917) è stato dapprima pubblicato in traduzione italiana in ID., Scritti filosofici, I, Fabbri, Milano 1964, 133-272; è ora disponibile come volume distinto nella collana «Opere di Romano Guardini», ID., L'opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, Morcelliana, Brescia 1997; l'opposizione polare, alla quale Guardini si riferisce, è quella tra concetto e rappresentazione; tra astrazione formale del concetto e forma concreta oggetto della percezione sensibile; attraverso la riflessione teorica - per altro incompiuta - sul necessario rimando del concetto all'anschauen egli intende correggere il vizio del concettualismo, che tanto ostinatamente affetta la tradizione del pensiero filosofico e teologico occidentale; sul tema dell'opposizione polare esiste un'abbondante letteratura secondaria; ricordiamo S. ZUCAL, Silenzio e parola nella prospettiva filosofica del Gegensatz di Romano Guardini, in M. BALDINI - S. ZUCAL (ed.), Il silenzio e la parola da Eckhart a Jabés, Morcelliana, Brescia 1989, 181274; R. BENDEL, Zum Denken des Gegensatzes bei Romano Guardini und Joseph Bernhart, «Münchener Theologische Zeitschrift» 47 (1996) 231-252; A. GALLAS, Su un campo di rovine: Guardini di fronte alla crisi del primo dopoguerra e l'idea di opposizione polare, «Annali di scienze religiose» 3 (1998) 49-73; L. IANASCOLI, Condizione umana e opposizione polare nella filosofia di Romano Guardini. Genesi, fonti e sviluppo di un pensiero, Aracne, Roma 2005.
    15 R. GUARDINI, Etica, 569.
    16 R. GUARDINI, Le età della vita, 52.
    17 Egli cita a tale riguardo la sentenza suggestiva di Goethe: «non si cammina solo per arrivare, ma anche per vivere mentre si cammina», R. GUARDINI, Le età della vita, 51.
    18 La tesi è proposta con insistenza da M. FOUCAULT, L'ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (19811982) (2001), Feltrinelli, Milano 2003; alla concezione della vita come processo formativo e quindi alla concezione del sapere umano (filosofico) come momento della cura di se stessi alla maniera di Plutarco e Seneca, non corrisponde per altro alcun tentativo di delineare una figura idealtipica della successione delle età.
    19 Registrano tale nesso sia Platone che Aristotele: «Infatti, è proprio tipico del filosofo quello che tu provi, l'essere pieno di meraviglia: il principio della filosofia non è altro che questo, e chi ha detto che Iride è figlia di Taumante sembra che non abbia tracciato una cattiva genealogia» (PLATONE, Teeteto, 155D, in ID., Tutti gli scritti, Rusconi, Milano 1991); «Che poi essa [la scienza] non tenda a realizzare qualche cosa, risulta chiaramente anche dalle affermazioni di coloro che per primi hanno coltivato la filosofia. Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia [...]. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in un certo qual modo, filosofo; il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia» (ARISTOTELE, Metafisica, A 2, 982 b 12ss, in ID., Metafisica, Rusconi, Milano 1994); la citazione di questi due testi apre un saggio di S. PETROSINO, Platone e Aristotele: passione della vista (in ID., Lo stupore, Interlinea Edizioni, Novara 1997, 9-19), dedicato appunto al primato del vedere in ordine alla genealogia della conoscenza.
    20 Così bene sottolinea Agostino nel suo commento alla I Giovanni: «Scrivo a voi, giovani. Voi siete figli, siete padri, siete giovani; figli per effetto della nascita, padri perché riconoscete il principio. Ma perché giovani? Perché avete vinto il maligno. Nei figli troviamo la nascita; nei padri l'antichità, nei giovani la fortezza. Se il maligno viene vinto dai giovani, questo significa che egli lotta contro di noi. Lotta ma non vince. Perché? Perché siamo forti ma ancor più perché in noi è forte colui che abbiamo visto inerme nelle mani dei persecutori. È lui che ci fa forti, lui che non ha opposto resistenza ai persecutori. Crocifisso nella sua carne inferma, egli vive per virtù di Dio», AGOSTINO, Commento alla l Lettera di Giovanni, Omelia 2, 6, in Opere di sant'Agostino, Città Nuova, Roma 2004, 1675.
    21 Opportunamente O. Karrer ha intitolato appunto alla maturità cristiana una breve e bella antologia di scritti spirituali del cardinale J.H. NEWMAN, Maturita cristiana (1946), Vita e Pensiero, Milano 1956.
    22 È d'obbligo la citazione della famosa definizione che I. Kant dà dell'illuminismo: «L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile
    a se stesso è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidato da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! - è questo il motto dell' illuminismo», I. KANT, Risposta alla domanda: Che cos'è l'illuminismo?, in ID., Scritti politici e di filosofia della storia, con un saggio di CH. GARVE, Utet, Torino 1965, 141.
    23 In appendice alla raccolta delle lettere di D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, San Paolo, Cinisello Balsamo 1988, è pubblicata una composizione intitolata «Stazioni sulla via verso la libertà», una sorta di Via crucis; le due ultime stazioni bene definiscono il carisma dell'ultima stagione della vita; «Sofferenza. Straordinaria sformazione. Le tue forti, attive mani / sono legate. Impotente, solo, vedi la fine / della tua azione. Ma tu prendi fiato, e ciò che è giusto poni / silenzioso e consolato, in mani più forti, e sei contento. / Solo un istante attingi beato la felicità / e poi la consegni a Dio, che le dia splendido compimento. Morte. Vieni, ora, festa suprema sulla via verso la libertà / morte, rompi le gravose catene del nostro effimero corpo e della nostra anima accecata, / perché finalmente vediamo, ciò che qui c'è invidiato di vedere. / Libertà, a lungo ti cercammo nella di, 448-449.

    «Teologia» 32 (2007) 152-176


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