Eclissi della ragione
e pienezza etica
Armido Rizzi
Per chi, come il sottoscritto, si affatica da quasi un trentennio nel tentativo di pensare un'etica «personalista» come tertium tra l'etica della legge naturale e quella della pura progettualità, l'enciclica Veritatis splendor non è fonte di particolare consolazione. Il ribadire con decisione e una certa durezza l'impianto cattolico classico, relegando nel campo della deriva relativistica - che è indubbiamente una faccia dell'etica progettualista - i tentativi di teologi moralisti cattolici di muoversi verso un'attenzione alla persona (con l'introduzione dell'opzione fondamentale e del principio teleologico) non agevola il dialogo e l'atteggiamento argomentativo, e rischia di far franare l'esigenza razionale in autoritarismo, che è poi il suo contrario.
E tuttavia l'enciclica pone un problema che è, come forse nessun altro, alla base della crisi complessiva di civiltà dell'Occidente: il problema della verità, certo; ma, più esattamente, il problema del soggetto portatore della verità. Il documento pontificio presuppone un'elaborazione filosofico-teologica che può non riuscire convincente, ma che è la versione originale (medievale) di un paradigma che più tardi la modernità riprenderà, senza avvedersene, e a cui non abbiamo ancora trovato un'alternativa. Il paradigma è quello della distinzione tra un discorso di principio sul soggetto umano, e un discorso storico; segnato da un radicale ottimismo antropologico il primo, da un profondo pessimismo il secondo. Proviamo a ridisegnarlo.
L'uomo è dotato della ratio, che non solo gli permette di avere una conoscenza teorica della realtà, raggiungendone per inferenza causale il Principio primo, ma gli apre la strada della conoscenza pratico-esistenziale, la conoscenza del bene e delle sue articolazioni operative. La ratio è il più alto dono divino, che fa dell'uomo, unica fra tutte le creature mondane, l'immagine di Dio; e questa sua somiglianza con il Creatore gli conferisce una certa partecipazione della libertà divina, una relativa sovranità e autonomia: al punto da non aver bisogno di conoscere comandamenti divini, leggi morali codificate, perché la legge morale gli è scritta dentro, è espressione della stessa sua natura razionale. Kant non avrebbe detto meglio né di più.
Ma tutto questo vale per principio; o, se vogliamo, valeva nella condizione edenica, dove l'uomo era creatura innocente e integra, nel pieno possesso della propria identità. La storia umana è però segnata dal peccato, da quel peccato originale che, decisione di uno solo ma padre e rappresentante di tutti, corrode la natura umana non soltanto nel suo potere di adesione al bene conosciuto ma, prima ancora, nella sua capacità di conoscere il bene. Così che l'uomo ha storicamente bisogno di un'integrazione di conoscenza: di un'informazione che gli restituisca l'accesso alle nozioni re: ligiose ed etiche necessarie per la sua autorealizzazione. A questo provvede Dio con la rivelazione.
Il fine proprio della rivelazione, è vero, non è la reintegrazione della natura umana, dell'umana ragione, bensì la sua elevazione all'ordine soprannaturale, alla destinazione a vedere Dio facie ad faciem. Ma la sapienza divina ha voluto rivelare anche alcune fondamentali verità etiche e religiose, perché «potessero essere conosciute da tutti senza difficoltà, con una ferma certezza e senza possibilità di errore» (Vaticano I; ma la dottrina è già di Tommaso d'Aquino). Anche la rivelazione, come la grazia, è sanante oltre che elevante, guarisce la natura per poterla innalzare alla vocazione superiore. Senza questa azione risanatrice la natura umana è ferita; il cattolicesimo non giungerà mai a dire, a differenza del protestantesimo, che essa è radicalmente corrotta, ma coltiverà comunque la convinzione che, senza la correzione e l'integrazione della grazia-rivelazione, non approderebbe neppure al proprio fine e compimento naturale.
Ora, la rivelazione è affidata alla chiesa e, nella chiesa, ai pastori, al loro magistero. Su un piano formale, istituzionale, il magistero della chiesa ha autorità sui membri che la compongono, sui fedeli; e questo, se nello statuto della civitas christiana significava su tutti i membri della compagine sociale, nello statuto di una società e di uno Stato laici significa su quella parte che nella chiesa si riconosce perché accetta la fede cristiana (e specificamente cattolica). Ma al di là del piano istituzionale c'è un piano sostanziale, al di là dell'appartenenza o meno al corpo ecclesiale c'è l'appartenenza di ogni uomo a una natura umana che è insieme su misura della verità e inferiore ad essa, come un sovrano decaduto. Ed ecco allora che il magistero ecclesiastico, accanto alla specifica missione di guida dei credenti verso il fine soprannaturale, si sente investito del compito insostituibile di essere guida di ogni uomo, in quanto magistero morale, in quanto soggetto portatore della ragione, di quella ragione che, in una condizione di peccato, non inabita più integralmente in ogni individuo umano e ha dunque bisogno di un luogo privilegiato capace di esercitarne l'irrinunciabile supplenza. Così Giovanni Paolo II parla ai vescovi e al popolo cristiano, ma dietro di essi si profila l'interlocutore universale, l'umanità; che diventa sempre più spesso anche il suo interlocutore reale, attraverso la mediazione delle istituzioni internazionali cui il Papa - soprattutto di recente - si rivolge.
L'obiezione fin troppo facile a questa concezione e pratica è che essa ignora la raggiunta maturità della ragione nella concezione laica dell'uomo e dello Stato, il diritto ormai incontestato di scrollarsi di dosso ogni tutela, o, in termini oggi più comuni, la libertà di coscienza. Fin troppo facile, dicevo, questa obiezione; perché ignora sia i termini teoretici del problema che la sua piega storica effettiva. Cominciamo da quest'ultima.
Affermare la maturità della ragione contro tutele autoritarie e tradizionali è la definizione stessa dell'istanza illuminista: così rispondeva Kant a chi gli chiedeva appunto che cosa fosse l'Illuminismo. E proprio Kant ha dato a quest'istanza il profilo filosofico più alto e criticamente elaborato, che fa di ogni individuo il portatore della ragione etica, nella gloriosa circolarità di legislatore e di suddito della legge. Di ogni individuo? Teoricamente, sì. Ma l'illuminista sa bene che gli individui, di cui pure afferma l'uguaglianza di principio, uguali non sono di fatto; e, prima ancora che per ragioni economiche, per la stessa caratura della loro soggettività, della loro ragione. Accanto alla ragione illuminata, infatti, che è ancora appannaggio di pochi, permane l'amplissima zona d'ombra delle credenze irrazionali; accanto alle élites c'è il popolo con i suoi ritardi, le sue superstizioni, le sue dipendenze da preti e tiranni. Il popolo va istruito, va educato secondo quei criteri di razionalità dell'agire di cui sono detentori i philosophes, va modellato come si fa con una materia promettente ma informe.
Così lo schema della distinzione e opposizione tra principio e fatto ritorna, con le dovute mutazioni: non si tratta più di peccato originale (che è anzi la bestia nera degli illuministi, sebbene Kant abbia finito per riconoscere un «male radicale» quasi congenito all'uomo) ma di ritardo culturale; non c'è più la rivelazione dall'alto ma la ragione immanente (sebbene questa ragione potesse arrivare a essere la Dea Ragione); non c'è più il potere sacerdotale ma il sapere filosofico. La struttura del problema è comunque la stessa: chi è il soggetto portatore della luce morale? e strutturalmente identica è la risposta: la divisione tra il magistero interiore della ragione, che dovrebbe essere tesoro di tutti, e il necessario ricorso a un magistero esteriore, che è dotazione di pochi.
La tradizione marxista ripropone lo stesso schema. La convinzione di Marx, che «le idee dominanti in una società sono le idee della classe dominante» rappresenta la traduzione del peccato originale - come offuscamento della ragione etica - nei termini del materialismo storico. Infatti le idee della classe dominante (che trascendono il singolo borghese, il capitalista come individuo) sono «falsa coscienza» perché oscurano la situazione reale dandone una visione distorta, «ideologica», comandata dall'interesse di classe. Ma, se esse sono le idee dominanti nell'intera società, da dove partire per il rovesciamento e la liberazione? Il riferimento al proletariato naturaliter rivoluzionario è di significato incerto: il richiamo alle sue catene e alla sua oppressione presenta qualche suggestione messianica (il Servo dí Dio sofferente e liberatore); ma forse la logica è, più semplicemente, che l'esclusione totale dai vantaggi del sistema vigente non può non spingere i proletari, con irresistibile spontaneità, ad abbatterlo.
E se così non fosse? Se i proletari in carne e ossa fossero anch'essi imbevuti delle «idee dominanti»? Ecco spuntare anche qui l'esigenza di un soggetto detentore della ragione, nel caso nostro della ragione storico-dialettica: esigenza formalizzata da Lukks nella distinzione tra la «classe in sé» (i proletari effettivi) e la «classe per sé» (la coscienza autenticamente proletaria, rivoluzionaria), identificata quest'ultima con il Partito Comunista.
Conosciamo il seguito della storia: il fallimento dell'Est comunista; fallimento antropologico ancor più profondo di quello economico e politico. La promessa di produrre un uomo nuovo, maggiorenne come quello di Kant ma al tempo stesso solidale (perché la ragione è socialità: Gattungswesen) si è rovesciata nel parto abortivo di un uomo divaricato tra i fantasmi violenti del pre-moderno e i fantasmi consumistici del post-moderno. Leggevo di recente che la versione originaria del celebre detto «il sonno della ragione genera mostri» sarebbe spagnola: «el suerio de la razon produce monstruos»; dove suelìo vuol dire, oltre che «sonno», anche «sogno». Dunque, la parabola della modernità potrebbe essere ricondotta a questo gioco semantico: partita come riscossa contro il «sonno della ragione», finisce come devastazione operata dal «sogno della ragione».
Ed ecco allora l'altra storia, che dai fallimenti della ragione apprende la lezione della rinuncia alla ragione. Perché questa è l'essenza del post-moderno: la dichiarata contraddittorietà della ragione per mancanza di detentore credibile, e il suo sciogliersi in una pluralità di ragioni come strumenti operativi all'interno dei campi di ricerca. E alla base di tutte, invece della ragione, la volontà/libertà, di cui si può piangere la derelizione in un mondo senza incanto o sobriamente esaltare la produttività in un mondo vivaio di possibilità.
L'enciclica parte da qui: da questo che non è più l'offuscamento della ragione e della verità ma la proclamazione dell'eclissi definitiva dell'una e dell'altra: essa parla di un pensiero che finisce per «sradicare la libertà umana dal suo essenziale e costitutivo rapporto con la verità» (n. 4), di tendenze che «si ritrovano nel fatto di indebolire o addirittura negare la dipendenza della libertà dalla verità» (n. 34), di messa in discussione del «rapporto tra la libertà e la verità» (n. 84). Che la risposta data dall'enciclica porti i tratti di quella «rivincita di Dio» che è l'atteggiamento dei fondamentalisti di fronte alla crisi della modernità, è anche vero. Ma non è tutto.
Quella rivincita, infatti, non è proclamata contro la ragione ma in nome di essa; contro quella secolarizzazione della ragione che, volendo esserne l'esaltazione, ne è stata invece la riduzione e ha finito per prepararne, suo malgrado, lo svuotamento. Così che, nel dibattito tra le ragioni del moderno e quelle del post-moderno, la critica fatta dall'enciclica può avvalersi di quell'ermeneutica dei processi culturali che nel secondo vede il figlio del primo, anche se figlio ribelle e irridente; e rivendicare la primogenitura religiosa della ragione.
La secolarizzazione infatti si muove tra un primo momento in cui, rifiutata la tutela religiosa, la ragione conserva la pienezza etica, e un secondo momento in cui si libera anche di questa per diventare - si diceva - pura progettualità, «volontà di volontà». Ma già nella modernità c'è una profonda incertezza sullo statuto della ragione: la tendenza a identificare l'uomo con il cittadino, se svolge una funzione storica decisiva per una riscrittura laica della convivenza sociale, costituisce uno spazio di ambiguità che già Marx ha evidenziato. Sotto l'uguaglianza dei cittadini, diceva Marx, permane la disuguaglianza degli uomini; e questa è molto più vera di quella, perché disuguaglianza sostanziale, mentre l'uguaglianza dei cittadini è soltanto formale. Ora, secondo una versione della ragione moderna, proprio questa formalità è la sostanza dell'umano: l'uomo raggiunge la sua verità nello spazio pubblico della cittadinanza, mentre il privato (religione compresa) è lo spazio dell'opinione. Secondo un'altra versione, l'uguaglianza formale dei cittadini non fa che creare le condizioni per il libero sviluppo delle differenze, tra cui la proprietà e le idee.
Malgrado quest'ambiguità, la formula della coesistenza dell'uomo e del cittadino in ogni individuo ha funzionato, perché e finché anche sul piano dell'uomo vigeva una sostanziale identità di vedute etiche, una piattaforma di consenso a proposito dei valori, dei costumi e delle pratiche, anche se non più delle credenze; insomma, finché una verità etica comune presiedeva all'esistere di gruppo, facendo della collettività una comunità. La seconda secolarizzazione, svuotando di sostanza etica la ragione, la riduce sul piano sociale a capacità di formulare le regole del gioco; ma senza più sapere quale sia il gioco da giocare, né chi possa mai riinsegnarlo.
In questo senso l'enciclica è di un'attualità bruciante; e la scarsa eco da essa trovata potrebbe essere frutto di una rimozione, di una paura di guardare quanto sia nudo, sotto la foglia di fico del cittadino sovrano, l'uomo della post-modernità.
Forse il dibattito accesosi nella sinistra italiana dopo l'ennesima sconfitta è soltanto l'epifenomeno di quel dibattito radicale che l'enciclica affronta: che ne è della verità?
Beninteso: la contemplazione del suo «splendore» non è un modo convincente di entrare nel dibattito, se non viene accompagnata dalla coscienza del suo «nascondimento». Una verità in chiaroscuro, dunque; che non può avere un soggetto solare, sia esso la ragione illuminata dalla rivelazione, sia la ragione adulta di Kant, sia la coscienza storico-dialettica, o altro ancora. Né può, d'altro lato, restare senza soggetto. La discussione è aperta.
Cristianesimo come sfida sull'assoluto
(Testimonianze 367 (8-9/94)