Coscienza, verità,

dialogo

Armido Rizzi

 

Non c'è coscienza senza verità: era questo il tema del nostro primo intervento (Rocca n. 23/1994), che delineava la situazione attuale di crisi dell'etica individuandone la radice proprio nel divorzio della coscienza dalla verità.
Ma un'etica per l'uomo d'oggi, che voglia assumere tutt'intera la problematicità della sua condizione, deve cogliere anche l'altra direzione del rapporto tra coscienza e verità: non c'è verità senza coscienza. E cioè: quella luce che deve guidare l'uomo nel suo agire non può che sorgere all'interno dell'uomo; quella voce che lo sollecita e lo orienta non può che parlargli da dentro, da quel luogo che è la stessa sua coscienza. Così che questa appare a un tempo come bocca che parla e orecchio che ascolta, come fonte di visione e occhio che vede, come comando e obbedienza.
Questo carattere paradossale della coscienza non dovrebbe fare difficoltà al cristiano. Erede a un tempo di Mosè e di Socrate, egli sa che le leggi scritte sono l'oggettivazione di leggi non scritte; ma soprattutto, erede dei testimoni della Risurrezione e della Pentecoste, egli sa che lo Spirito è stato donato come maestro interiore, in cui si realizza la promessa del profeta: «Porrò la mia legge in mezzo a loro, e sul loro cuore la scriverò... E non si ammaestreranno più l'un l'altro a vicenda, perché tutti mi riconosceranno, dal più piccolo fino al più grande di essi» (Ger 31,33 s.).

Il peccato rimosso

Il problema non è dunque quello di conciliare in linea di principio immanenza e trascendenza, comandamento divino e sapienza del cuore. Il problema è altrove: in quell'« altrove » che è il grande fondale dell'annuncio cristiano e il grande rimosso della ragione moderna: il «peccato originale».
Mi spiego. Tommaso d'Aquino, il maestro più influente della tradizione cattolica, sa benissimo che nella ragione umana in quanto partecipazione della mente divina è scritta la legge morale, e che di per sé non sono necessari comandamenti dati storicamente da Dio. Ma egli sa anche che questo «di per sé» è la possibilità irrealizzata: non per lo scarto inevitabile tra teoria e pratica, tra principi e applicazione, ma per quello scarto ben più profondo che ha slogato sin dagli inizi la storia umana, e che è la colpa di origine. La coscienza umana che riflette con trasparenza la legge eterna è l'uomo edenico; nella storia di peccato essa si è offuscata, e ha dunque bisogno - bisogno essenziale - di essere illuminata da fuori. Questo fuori è la rivelazione, ed è il magistero della chiesa che la custodisce e la amministra.
Quando ci si stupisce che il Pontefice romano pretenda di impartire lezioni morali universali, si ignora questo sfondo di legittimazione teorica, questa lettura di una natura umana ferita non solo nella sua capacità esecutiva (la debolezza della volontà) ma nella stessa sua attitudine cognitiva (l'ottenebramento della ragione), e reintegrata da una parola rivelata, di cui il magistero ecclesiastico è responsabile.
In tal modo, verità e coscienza mantengono un rapporto essenziale, ma a senso unico: c'è un luogo della verità, che ha diritto di parola, e un luogo dell'ascolto, che ha il dovere dell'accoglienza e dell'obbedienza. Nella storia di peccato, la coscienza morale è un orecchio che ascolta parole che vengono da fuori, dal momento che le parole che essa dice a se stessa sono menzognere. La soluzione cattolica può non convincere, ma il problema è di una serietà estrema.
Si tratta di trovare un luogo in cui la verità abiti senza essere manomessa, un luogo indenne dalle peripezie della ragione malata e custode della «sana ragione». Si tratta di trovare un soggetto portatore della verità, a cui la coscienza possa guardare per riceverne insegnamento e guida. In certo senso, il marxismo-leninismo ha trovato una soluzione analoga a quella cattolica quando, dopo aver affermato che tutta la classe operaia è detentrice della vera coscienza storica, ed è perciò naturaliter rivoluzionaria, ha dovuto constatare che i proletari in carne e ossa ne sono spesso privi perché hanno assimilato le idee della classe dominante; ha perciò fatto ricorso alla distinzione tra coscienza di classe in sé (quella dei proletari di fatto) e coscienza di classe pe r sé (quella proletaria di principio), attribuendo quest'ultima a un soggetto diverso ed elitario: il partito e i suoi organi. Se nella tradizione cattolica il magistero sostituisce l'uomo edenico, cioè la pienezza perduta, nella tradizione marxista il partito (e poi lo Stato socialista) anticipa l'uomo utopico, cioè la pienezza sperata e perseguita.
Il ripresentarsi della soluzione estrinseca (e, alla fine, verticistica) in una tradizione di matrice illuminista come il marxismo ci suggerisce ancora una volta di non sottovalutare il problema che sta alla base di queste posizioni ideologiche: la perdita della verità da parte della coscienza e, dunque, la necessità di un luogo dove essa torni ad attingerla. Leggere queste risposte in termini di pura volontà di potere mi pare insufficiente e semplicistico. Alle loro spalle, la millenaria storia delle culture non presenta coscienze autonome ma la concrezione autoritativa della verità morale nel luogo oggettivo del mito e della tradizione che lo trasmette.
Una conferma paradossale della difficoltà del problema ci viene proprio da Kant, il più deciso assertore dell'autonomia della coscienza nella forma di ragione morale insita in ogni individuo; anch'egli infatti si vedrà costretto a riconoscere l'esistenza di un «male radicale», che è l'alterazione dei principi su cui la coscienza si regge. Il proclamato «uomo maggiorenne», che «ha il coraggio di usare la propria ragione», risulterà un'affermazione di principio, cui non corrisponde storicamente lo stato effettivo della coscienza. In fondo, basterebbe riflettere sull'ambivalenza di una formula come «agire di testa propria» per riconoscere tutta l'ambiguità del progetto di morale autonoma in senso illuminista. La «testa» è di principio la ragione etica, luminosa e universale, ma di fatto è l'insieme delle opinioni individuali, quando non addirittura l'espressione dell'arbitrio.
Situazione disperata? Da un lato, la verità sembra poter essere solo esterna alla coscienza e assumere la forma di autorità; dall'altro, l'autorità appare affetta da una duplice impotenza: incapace ormai di imporsi, di farsi valere, ma, prima ancora, idonea ad ottenere un consenso esteriore, a disciplinare la condotta sociale, più che a sollecitare un agire autenticamente etico.
In realtà, lo schema d'autorità puntava ai comportamenti perché, dai miti religiosi al magistero ecclesiastico, si faceva carico non solo né tanto dell'eticità individuale quanto della tenuta del corpo sociale. Nella concezione moderna, questa tenuta è affidata al potere dello Stato; così che l'etica come ambito dell'agire secondo coscienza tende ad essere considerata e a diventare un fatto privato. Vedremo, nel prossimo intervento, come e perché neppure questa soluzione abbia, da sola, possibilità di riuscita.

L'esperienza etica

Qui voglio indicare il profilo sommario di una soluzione diversa; ed è la rinuncia all'alternativa tra etica d'autorità ed etica autonoma; in positivo: l'osservazione della coscienza etica come fatto vissuto, come esperienza etica.

1. La coscienza etica, nel suo darsi fattuale, è già portatrice di verità. Non la verità piena dell'uomo edenico o dell'uomo utopico o dell'uomo maggiorenne, ma certo la luce dell'aut-aut tra bene e male come orizzonte dell'agire, che lo sottrae all'innocenza dell'arbitrio e lo rende agire responsabile; e poi, frammenti di indicazioni oggettive di quale sia il bene-da-fare e il male-da-evitare: il non uccidere, il non ingannare, il non tradire...; la compassione, la fedeltà alla parola data, il rispetto di sé e degli altri... Frammenti, non il tutto; ma frammenti reali, presenti alla coscienza, non ipotizzati per principio.
Guardare così la coscienza vuol dire guardare alla sua realtà effettiva invece che teorizzare su cosa e come essa debba essere. Il dover essere della coscienza non è quelle che un magistero religioso o filosofico le mi. sura addosso; è quello che essa porta in sé come l'unico luogo in cui il dover essere pue spuntare. Da questo punto di vista, il filoso fo o lo scienziato che, in nome della «ragio ne», prescrivono alle coscienze un codice morale compiono un'operazione d'autoritì simile a quella del capo religioso, imponen dole un comandamento esterno; l'autono mia della ragione diventa qui eteronomi la coscienza (il rifiuto di accettare l'obieone di coscienza ne è un esempio eloquente).

Comunità planetaria di coscienze

2. Siamo passati quasi inavvertitamente dal singolare al plurale: dalla coscienza alle coscienze. Se il luogo della verità morale è la coscienza reale e non una sua proiezione ideale, quel luogo non può che essere comunitario. Stavo per scrivere: collettivo. Ma collettivo si oppone a individuale, perché l'io che ognuno è viene sostituito dal grande io del gruppo, comunque esso si chiami. Intendo invece per «comunità» quella in cui l'individuo non è assorbito dal collettivo ma, d'altra parte, non rimane chiuso o isolato in un'identità irrelata ma è individuo-inrelazione, e la comunità è insieme lo spazio e il risultato di queste relazioni.
Ecco: l'unica possibilità di pensare in maniéra non ideologica la coscienza mi pare quello di pensare la comunità di coscienze; oggi, l'umanità intera come comunità planetaria di coscienze.

La fatica del confronto

3. Ma in che modo si rapportano reciprocamente gli individui in quanto coscienze, in quanto soggetti etici? Attraverso il dialogo delle coscienze. Comprendo il carattere retorico di questo termine; ma non trovo in ciò una buona ragione per bandirlo. Tento invece di indicarne la legge di fondo.
C'è un dialogo a senso unico, ed è quello tra maestro e discepolo, dove l'unica reciprocità possibile è quella della domanda e risposta (1). Il dialogo tra coscienze non può essere di questo tipo, perché quando si tratta di esperienza - e l'etica è prima di tutto esperienza - nessuno può essere unicamente maestro e nessuno unicamente discepolo. Se la coscienza è il luogo della verità morale, ogni coscienza ha qualcosa da offrire nell'ambito di questa verità: se non sul piano delle pur necessarie formulazioni di principio, su quello delle condizioni di crescita reale, cioè di sapienza etica.
Ciò non significa introdurre nel dialogo etico un principio di democrazia, che non avrebbe qui alcun senso (i voti valgono tutti lo stesso, le coscienze no, a meno che non si faccia rientrare dalla finestra l'apriorismo buttato dalla porta); fa parte della coscienza morale accettare maestri e profeti, riconoscere la maggiore maturità di altre coscienze e lasciarsene istruire. Ma allora non è più il principio d'autorità a funziona-
re; è il principio di autorevolezza.
Le cose si fanno più difficili quando si varca il confine della propria comunità per dialogare con altre dove una storia secolare o millenaria ha sedimentato prospettive morali anche profondamente diverse. Ma, ancora una volta, sul piano propriamente etico non vi sono alternative alla fatica del confronto ai vari suoi livelli: culturale e istituzionale, psicologico e politico, filosofico e teologico.

Un cammino a rischio

4. Vorrei prevenire quella che è, da un versante una tentazione, dal versante opposto un'obiezione: che il dialogo diventi l'ennesima formula magica con cui illudersi di risolvere una volta per tutte il problema etico, quasi il luogo post-moderno della verità dentro la crisi dei luoghi classici, fossero essi l'autorità o la ragione. Ora, vi sono almeno due differenze tra il dialogo e questi luoghi.
La prima è che il dialogo non è un luogo ma un cammino: il cammino da una verità parziale ad un'altra che, pur senza la pretesa di totalità, presenti una misura più piena. Ma questo non basta. Si sarà notato che l'esito del cammino non è formulato all'indicativo ma al congiuntivo: una verità che presenti una misura più piena. Il congiuntivo dice la possibilità, l'eventualità, non la certezza; con la flessione ottativa dice il desiderio. Ecco: il dialogo non porta in sé la garanzia di riuscita ma soltanto il desiderio e la speranza della riuscita. Il dialogo non è improntato all'ottimismo della ragione ma all'ottimismo della volontà e di una fiducia umile ed esitante. Il dialogo può fallire, forse gli è congenita una qualche misura di fallimento. Il che significa che non solo la pratica morale ma lo stesso riconoscimento della verità morale resterà sempre imperfetto; a volte così imperfetto da non poter diventare la base sufficiente di una convivenza pacifica. Allora l'etica deve appellarsi a qualcosa che non è più la verità ma la forza. Deve appellarsi allo Stato. Ma di questo diremo la prossima volta.

NOTA

1) Anche il maestro può domandare, ma lo fa in funzione pedagogica, per portare il discepolo alla scoperta di quella verità che il maestro già possiede. È il caso del «dialogo socratico», nei più celebri tra i Dialoghi, quelli di Platone. Vedi la pagina molto fine di S.S. Averincev, Atene e Gerusalemme, Donzelli, Roma, 1994, 20s.