Per un capitalismo

dal volto umano

Spunti di riflessione

Mario Sarcinelli

1. Migliorare l'organizzazione capitalistica, creare una maggiore sintonia tra gli attori del processo produttivo è stato l'obiettivo di pensatori, riformatori e politici innovatori negli ultimi due secoli. Si può dire realizzata l'aspirazione a un capitalismo dal volto umano? Forse sì, ma in modo limitato, territorialmente circoscritto, spesso episodico.
È bene prendere le mosse dal libro omonimo di Giacomo Becattini,[1] frutto di un'elaborazione che si è maturata negli anni attraverso i contributi a Il Ponte; esso mi offre il destro per ritornare su di un argomento da me toccato in passato, in modo impressionistico e senza alcun approfondimento. In un libro-intervista [2] di alcuni anni or sono affrontavo, con sbrigativa sintesi, le caratteristiche del capitalismo renano e di quello anglosassone e quindi il differente ruolo che nei due archetipi è riconosciuto alle banche e ai mercati nel finanziamento delle imprese e in particolare nel processo di industrializzazione. Non solo la contrapposizione è ben nota, ma essa sta perdendo sempre più di significato; persino nella sua patria, la Germania, il modello continentale si va restringendo e vieppiù contaminando, per la pervasiva influenza della globalizzazione sul piano economico e dell'egemonia americana su quello politico, in un mondo divenuto uni-polare. La crisi di rigetto dell'Europa, da parte degli elettorati francese ed olandese nei referendum sul Trattato costituzionale, è riconducibile, nella sua essenza, al timore che il modello europeo e il welfare state che ne è alla base siano destinati a scomparire sotto i colpi del liberismo anglosassone, più fautore della meritocrazia che della solidarietà.
Nel mio libro scrivevo: «Facendo tesoro delle lezioni molte volte amare impartiteci dalla storia del nostro continente, possiamo e dobbiamo lavorare alla costruzione di un capitalismo umanistico. Ci serve un modello che, traendo vantaggio da quanto di buono ci offre anche la globalizzazione, ne contemperi tuttavia le degenerazioni e i rischi, tra cui quelli del consumismo diffuso e dell'economicismo dilagante. Capitalismo umanistico, non mero capitale umano. Un nuovo equilibrio tra l'economico e il politico, tra il mercato e lo Stato, tra la responsabilità individuale e la solidarietà collettiva. In questa direzione si può ripensare e rivitalizzare il modello renano... È una difficile transizione che affida a noi europei la missione forse più delicata. Di fronte ad un nostro fallimento sarebbe difficile pensare a un dialogo diretto, immediato e costruttivo, tra le pulsioni globalizzanti del modello anglosassone e l'arroccamento difensivo segnato in tante parti del mondo dalle eruzioni di quei "vulcani sociali" che il professor Thurow individua nel fondamentalismo religioso e nel separatismo etnico. La rielaborazione del modello renano ... [è una sfida per] ... evitare che il confronto tra modelli di capitalismo degeneri nello scontro tra il paradigma anglosassone e quello balcanico o magrebino» (p. 20).
In effetti, il mio era un auspicio in favore di un capitalismo umanistico, cioè rispettoso dell'uomo e dei valori che ha elaborato dall'Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese in poi, più che un messaggio di riforma sociale, di trasformazione del sistema produttivo, di revisione del suo governamento. Tuttavia, avvertivo chiaramente che la pressione del modello anglosassone, resa ancora maggiore dalla liberalizzazione del movimento dei capitali e dalla rapida formazione di un capitalismo finanziario transnazionale, metteva in discussione la sopravvivenza di quello renano, spingeva quest'ultimo verso una nuova sintesi di valori e che il fondamentalismo religioso e la reviviscenza etnica o tribale sarebbero state le più probabili risposte all'omologazione di consumi, comportamenti e culture. A mettere ancor più in crisi il modello renano ha contribuito l'ottima performance economica della Cina, dell'India e del Sud-Est asiatico, la crescita sostenuta negli Stati Uniti e negli anni più recenti anche nell'America Latina, la incapacità di Francia, Germania e Italia di risalire con decisione sul treno dello sviluppo mondiale; la ripresa in corso è più una speranza che una promessa di crescita vigorosa. Tutti i medici internazionali hanno prescritto, in particolare a Eurolandia, massicce dosi di liberalizzazione, di riforma dello Stato sociale, di riduzione del debito pensionistico, di alleggerimento della tassazione, fermi rimanendo il mantenimento o il raggiungimento dell'equilibrio nel pubblico bilancio e un rapporto accettabile tra debito pubblico e Pil. Non v'è da meravigliarsi se i popoli chiamati ad esprimersi sul Trattato costituzionale hanno visto nell'Europa allargata sino alla Turchia, e forse oltre, più che un'opportunità per la pace, per la democrazia e per la comune prosperità, una fonte di nuovi problemi, di maggiori costi, di ulteriore perdita di identità. Già la Danimarca, in passato, aveva rifiutato l'euro per timore di mettere a repentaglio le conquiste sociali...

2. Come sottolinea Becattini in più punti del suo libro, il capitalismo è contraddistinto per tutte le scuole del pensiero economico (classica, marxista, neoclassica) dalla contrapposizione tra mondo del lavoro dipendente e mondo dell'imprenditorialità; in particolare, nella visione marxiana essa si manifesta come lotta di classe e genera lo scontro politico, in quella neo-classica il mercato provvede a risolverla attraverso la formazione di prezzi concorrenziali sia per i fattori produttivi sia per i diritti di proprietà. Poiché l'impresa per raggiungere i propri obiettivi di produzione, di vendita e di profitto ha bisogno di organizzarsi in strutture piramidali più o meno alte e spesso di dare vita a grappoli di piramidi o gruppi, ne segue che il lavoro subordinato, cioè dipendente dalla volontà e dalle decisioni dell'imprenditore, è quello di gran lunga prevalente al suo interno. La standardizzazione dei processi, fondamentale per assicurare non solo l'uniformità della produzione ma anche l'aumento della produttività, richiede che anche il lavoro umano sia sufficientemente omogeneo e relativamente sostituibile. La personalità di chi fornisce lavoro subordinato diventa, quindi, irrilevante nel processo, al pari della retro-azione dell'ambiente produttivo sul prestatore d'opera; è questa l'alienazione di marxiana memoria. Il lavoro diventa così una merce e tale viene considerato dalle diverse scuole del pensiero economico. Questa stilizzazione, che riflette abbastanza bene la fase del capitalismo fordista, non è interpretativa della realtà che ci circonda la quale è modificata continuamente da atti legislativi, regole amministrative, pronunce giurisprudenziali, accordi sindacali, soprattutto da sviluppi dell'ambiente produttivo e organizzativo per effetto dell'innovazione, della specializzazione, della delegazione. Tuttavia, la fondamentale contrapposizione tra il mondo del lavoro e quello dell'impresa continua ad essere valida e si manifesta vividamente nelle azioni di sciopero; nei conflitti sindacali più aspri o con forti ricadute negative sui cittadini, la loro composizione è facilitata da apposite norme e/o dall'intervento del governo e dei politici. L'essenza del capitalismo risiede quindi nella subordinazione del lavoratore all'imprenditore, a colui cioè che dispone del capitale fisico e della capacità di organizzare i fattori produttivi. La crescita del capitalismo, tuttavia, non presuppone affatto un'estensione senza limiti del grado o dell'area di subordinazione; per quanto concerne il primo basti pensare al crescente numero di occupazioni nel settore della ricerca che non può prosperare senza un adeguato grado di autonomia; con riferimento all'area, va notato che l'organizzazione imprenditoriale va estendendosi anche al mondo delle professioni liberali, il che comporta un qualche elemento di subordinazione. D'altra parte, la sopravvivenza del capitalismo è proprio dovuta alla sua capacità di adattamento alla sempre cangiante realtà economica, a nuovi paradigmi tecnologici e organizzativi, alle spinte provenienti non solo dalla dimensione sociale ma anche dalle diverse culture, trasformando ed ibridando in tal modo sistemi di valore.

3. Vi sono tendenze evolutive effettive o almeno auspicabili nel capitalismo odierno? Becattini risponde affermativamente e indica, oltre alla globalizzazione dei flussi e alla transnazionalizzazione delle imprese produttive, quella da lui positivamente valutata: la crescita autonoma di comunità di produzione che sviluppando il proprio genio particolare danno luogo ad una concorrenza globale di sistemi auto-riproduttivi. Per realizzare quest'ultimo modello di capitalismo, il primo presupposto è il passaggio dalla produzione in serie alla differenziazione e alla personalizzazione del prodotto, con mutamento dei luoghi simbolo nei quali essa si realizza (laboratorio neoartigianale) e viene venduta (negozio specializzato). Per rendere questo tipo di capitalismo più attento alla qualità che alla quantità, è necessario che la produzione sia al servizio del consumo, cioè che i consumatori siano non solo dotati di potere d'acquisto ma soprattutto di una capacità di valutazione e di discernimento che li metta al riparo dalle lusinghe di coloro che si autoproclamano realizzatori dei loro sogni. Infine, la rivoluzione più profonda riguarda il lavoro dove la subordinazione e l'obbedienza che ne conseguono devono cedere il passo alla collaborazione creativa dell'imprenditore, dei tecnici e delle maestranze e alla responsabilizzazione di tutti nel perseguimento del fine dell'impresa.
In tal modo si materializza un capitalismo dal volto umano in cui tutti i protagonisti sulla scena economica assumono ruoli molto diversi da quelli che oggi vediamo o percepiamo: il lavoratore diventa tendenzialmente autonomo e si colloca ai confini dell'imprenditorialità, l'imprenditore, abbandonati i panni del comandante, stimola la collaborazione e la creatività degli addetti, il consumatore guida con le proprie scelte responsabili il processo economico. L'ambiente sociale da conflittuale a causa dello sfruttamento operato o temuto dalla controparte diventa solidale verso ogni altro attore della società civile. Perché questo ideale possa diventare concreto, è necessario che esso vivifichi un territorio, chiamato distretto, dove si conserva e si esprime una cultura, dove il rapporto umano è improntato sia nella sfera economica sia in quella sociale allo stesso spirito di collaborazione e di solidarietà, dove il know-how produttivo e l'abilità commerciale non sono strumenti per massimizzare l'appropriazione, bensì il benessere collettivo, dove l'economia politica si trasforma da scienza delle scelte individuali a studio delle condizioni generali per realizzare quest'ultimo.
Ciò che più colpisce in questa visione di un capitalismo dal volto umano è il superamento della concezione del lavoro come merce, il che porta ad esaltare le capacità creative del lavoratore e il suo senso di responsabilità e ad annacquare fortemente o addirittura ad abbandonare il principio di subordinazione e il corollario dell'obbedienza.
In tal modo si porta un attacco non solo al capitalismo fordista, ma anche alle altre infinite varietà che si fondano su quel principio e su quel corollario. Come si può raggiungere questo risultato? Attraverso il recupero di un modello produttivo e organizzativo che probabilmente si esprimeva nella corporazione medievale e che si basava sulla collaborazione tra i suoi membri; la rivoluzione industriale prima e il fordismo dopo vi sostituirono il principio di subordinazione e resero il lavoro fondamentalmente una merce.
Rifacendoci agli insegnamenti di Jacques Derrida, almeno ad una lezione che si allontana dallo stereotipo che vuole la de-costruzione come meccanismo che libera il pensatore dalla tirannia degli opposti, si può dire che ogni struttura, in qualsiasi branca dell'umano sapere che organizza l'esperienza, si realizza e si perpetua attraverso processi di esclusione, sicché ogni qual volta si crea qualcosa, qualcos'altro viene perduto. Nel passaggio da un'organizzazione del lavoro basata sulla corporazione di mestiere e sulle sue regole ad una incentrata sulla capacità e sulla volontà dell'imprenditore andò perduto il contributo creativo del singolo lavoratore, anche se se ne avvantaggiò, attraverso l'impiego organizzato delle macchine, la quantità, l'uniformità e la rapidità di produzione. In questo processo di de-costruzione, gli elementi che vengono di volta in volta esclusi non scompaiono affatto ma tornano in gioco e si fanno sempre più virulenti quanto più le strutture che li hanno estromessi sono percepite come repressive.
Ad esempio, molte delle domande dei lavoratori e dei sindacati in Italia negli anni '60, '70 e '80 sono interpretabili alla luce di questo schema. Ciò che interessa qui sottolineare è che per attuare un capitalismo dal volto meno arcigno l'aumento dei vincoli alla subordinazione può comportare lo "sciopero degli investimenti", la delocalizzazione degli impianti, la ridistribuzione internazionale della produzione, come l'esperienza italiana di quei decenni ha mostrato. La reazione della struttura si è manifestata in questo caso attraverso l'aumento della disoccupazione, il contenimento dei salari, lo scarso aumento del reddito. Perciò, incrementare collaborazione e creatività laddove prevalgono subordinazione ed obbedienza non significa affatto sostituire una struttura che non produce esclusione ad altra che invece la presuppone; in entrambe gli elementi che vi hanno meno spazio tendono a riaffermare il loro ruolo a mano a mano che il contesto venga percepito come repressivo (o costrittivo) dal lavoratore o dall'imprenditore.

4. Tornando al distretto, come luogo vivificato da una cultura, da rapporti umani di collaborazione e di solidarietà e da obiettivi di massimizzazione del benessere collettivo, è lecito domandarsi se esso si pone come astratto ideale, una sorta di isola di Utopia o di Città del Sole; nel pensiero di Becattini il capitalismo dal volto umano resta sempre ancorato all'individualismo, alla proprietà privata, allo scambio, non certo alla struttura politico-sociale di Amaurote e delle altre città consorelle,[3] né alla visione iper-comunistica del frate di Stilo in cui «la mercatura ... poco serve».[4] L'idea del distretto, quale modello di produzione e di aggregazione socio-economica più rispettoso dell'Uomo, Becattini la mutua da Alfred Marshall il quale aveva notato come in alcune zone dell'Inghilterra industrializzata la specializzazione si accompagnasse ad un'"atmosfera" specifica, non rimovibile. Certamente, la Toscana ha offerto allo studioso le esperienze che, debitamente elaborate, hanno permesso non solo di individuare i connotati teorici ma di specificare le condizioni che permettono al nuovo modello produttivo di inverarsi. Tuttavia, poiché il mio interesse non riguarda tanto la sua intrinseca superiorità rispetto ad un generico paradigma capitalista, quanto la sua potenzialità di espandersi, diffondersi e radicarsi, è opportuno porsi alcune domande e tentare di darvi risposta.

4.1. Perché il modello distrettuale possa diffondersi, i suoi presupposti devono potersi realizzare senza troppe difficoltà; è questo il caso? Purtroppo no, soprattutto se si prende in considerazione uno di essi, la capacità discriminante del consumatore. La teoria economica continua a guardare a quest'ultimo come ad un agente che sceglie razionalmente beni e servizi per la soddisfazione dei propri bisogni, in qualche misura dati, sulla base della scheda di domanda, del rapporto prezzo-qualità e dell'elasticità rispetto al reddito. La teoria sociologica e il marketing si pongono il problema della dinamica dei consumi, che sino a qualche tempo fa si ritenevano fondati sulla regolazione o sulla stimolazione del desiderio. È appunto quest'ultimo che collega il consumo alla personalità, ai gusti che essa esprime, alla discriminazione che ne consegue. Il soggetto che viene in possesso di un bene desiderato si realizza proprio nell'averlo a disposizione ed eventualmente nell'ostentarlo.
Il modello capitalistico, però, ha bisogno di una continua crescita della produzione che si può collocare sul mercato creando un'obsolescenza accelerata, eccitando la domanda con campagne pubblicitarie ossessive e promozioni limitate nel tempo, stimolando in definitiva una nevrotica reazione da parte del consumatore; questi acquista non più per soddisfare un desiderio alimentato dalla vanità, dall'invidia o dall'affermazione di se stesso, ma per dare esecuzione ad un capriccio, a un impulso che spesso si esaurisce nell'atto dell'acquisto. Ovviamente, nella società moderna i nuovi consumi sono inizialmente stimolati dal desiderio e dall'emulazione, ma si moltiplicano a dismisura quando rispondono a un impulso; basti pensare all'uso dei telefonini che obbedisce sempre più allo stimolo a chiacchierare, anche quando il silenzio sarebbe più appropriato, e solo in parte soddisfa il bisogno di comunicare tempestivamente. Ne consegue che i luoghi in cui questa nevrosi consumistica si genera e si scarica sono sempre più gli aeroporti, gli empori, gli ipermercati (cioè i non luoghi, per dirla con Augé...), invece dei tradizionali negozi, oggi in progressiva diminuzione, nei quali si indugiava un tempo alla ricerca della stoffa, del monile o del regalo e dai quali spesso si usciva senza avere acquistato alcunché. Questa dimensione della vendita in enormi spazi che offrono un'ampia varietà di prodotti ha contagiato anche i grandi marchi della moda che oggi attirano i consumatori con gli outlet.

4.2. Dobbiamo guardare al distretto come ad un fenomeno "idiosincratico" e interstiziale oppure impiantabile ovunque e replicabile per una molteplicità di settori? In verità, non tutti i luoghi sono depositari di una cultura in grado di connotare una produzione economica che a sua volta può affermarsi sui mercati; una tribù primitiva esprime certamente la sua cultura con i propri, semplici manufatti, ma questi ultimi sono al massimo ricercati da antropologi ed etnografi. Al di là di questi casi limite, nelle fasi iniziali dello sviluppo industriale molta manodopera proviene dall'agricoltura ed è priva quasi sempre del know-how produttivo, cioè di quella sintesi tra sapere pratico distillato dall'esperienza locale e sapere scientifico che è causa ed effetto del progresso tecnico. Una continuità con l'ambiente agricolo di provenienza si può mantenere se il contadino che migra verso la manifattura continua a vivere nella sua vecchia casa e ad attendere nel tempo libero al proprio piccolo podere, ma chi si sposta verso l'industria e verso la città va incontro ad un trauma che comporta prima o poi la recisione delle radici e con esse, spesso, dei vincoli di solidarietà e dell'etica che li giustificava.
Certamente, se l'ambiente rurale viene modificato in modo progressivo, senza grandi scossoni in seguito all'arrivo dell'industria, i comportamenti sociali sono anch'essi destinati ad evolversi gradualmente, sicché la vecchia etica che connotava l'ambiente rurale continuerà ad informare i rapporti sociali. Sempre i sociologi hanno sviluppato una teoria del capitale sociale; secondo Robert Putnam,[5] che ne ha rintracciato le fondamenta nella "virtù civile" praticata nell'Italia settentrionale da molti secoli, esso è costituito in un'organizzazione sociale da tutte quelle caratteristiche, quali la fiducia, le norme di reciprocità, le reti di impegno civico, in grado di accrescerne l'efficienza e di facilitare il coordinamento delle azioni individuali. Un territorio che riesce ad attuare una consapevole e graduale transizione verso un distretto industriale è in grado di mantenere il capitale sociale accumulato nell'ambiente agricolo e di farne beneficiare le nuove attività manifatturiere. Tuttavia, non è affatto detto che ogni comunità abbia un capitale sociale in grado di promuovere o facilitare un processo di graduale industrializzazione. Basti pensare che proprio in Italia, alla fine degli anni '50, un altro sociologo, Edward Banfield,[6] argomentò che l'estrema povertà e l'arretratezza di una comunità nel Meridione d'Italia era da attribuire in larga misura, anche se non esclusivamente, all'incapacità dei suoi abitanti di unire i propri sforzi per raggiungere il bene comune; l'etica prevalente fu da lui denominata "familismo amorale", poiché comportava la massimizzazione dei vantaggi materiali e di breve periodo per il solo nucleo familiare, essendo comune convinzione che ogni altro abitante del villaggio si sarebbe comportato allo stesso modo. Se in Italia ancora oggi esistono realtà connotate da un così divergente grado di accumulazione sociale, è difficile pensare che la situazione in altre piaghe del mondo sia radicalmente diversa; d'altra parte, la storia dello sviluppo economico locale, dei suoi successi come dei suoi numerosi fallimenti, è probabilmente riconducibile in qualche misura alla diversa presenza di capitale sociale e alla path dependence che essa comporta. Inoltre, il capitale sociale non decade nemmeno per effetto di grandi rivolgimenti politici, ma allo stesso tempo il suo accrescimento richiede decenni o addirittura secoli.
Le istituzioni difficilmente possono sostituire il capitale sociale laddove esso si restringe al mero ambito familiare o tribale. La coazione, che è il privilegio dello Stato, non può rimpiazzare la fiducia e le convenzioni sociali che rendono l'agire individuale non solo accetto agli altri, ma anche fruttifero di risultati; laddove ciò è stato tentato, si è instaurata e perpetuata una tirannide. Tuttavia, le istituzioni sono in grado di tutelare il capitale sociale, ad esempio attraverso procedimenti giudiziari rapidi, ma anche di indebolirlo, ad esempio quando si dà eccessivo peso alle forme e alle prassi burocratiche. Un tessuto istituzionale ben equilibrato, con sufficiente presenza nel territorio e attento ad agire in modo coordinato, è certamente in grado di promuovere ed alimentare un processo di sviluppo, stimolando l'afflusso di capitali, merci e persone; tuttavia, se v'è un pregiudizio anti-istituzionale e si teme che l'aiuto di oggi dia luogo domani a intralci e pressioni, è possibile che l'azione di promozione pubblica sia vista con sospetto o addirittura con ostilità. In epoche passate, raccogliere e disseminare informazioni e nuove idee era spesso una responsabilità pubblica, ma oggi a tutto ciò provvedono Internet e gli altri mezzi di comunicazione. È nel campo della ricerca che le istituzioni devono mantenere un ruolo propulsivo, il quale per essere efficace ha bisogno del convinto e sostanzioso apporto dell'industria.
In definitiva, i distretti non sono da riguardare come eccezioni irripetibili al di fuori del contesto che li ha già prodotti. Tuttavia, le conoscenze, la cultura (nella quale può farsi rientrare il capitale sociale) e le istituzioni in grado di promuovere e fare sviluppare un distretto non sono facili da riunire. Perché si crei e si stabilizzi l'atmosfera di cui parlava Marshall è necessario parecchio tempo. Il modello resta di grande interesse, ma non può assurgere a paradigma per una politica di sviluppo industriale e sociale nella fase post-fordista, anche se è particolarmente adatto in Paesi in via di sviluppo per promuovere un'industrializzazione diffusa senza troppo danneggiare la struttura sociale.

4.3. Una volta che un distretto sia nato e si sia irrobustito affrontando il mercato e le sue alterne vicende, si può ritenere che possa convivere con la globalizzazione? Di quest'ultima è bene chiarire che vi sono varie accezioni. La prima si riferisce all'insieme di flussi, probabilmente in progressiva accelerazione, di merci, servizi, capitali e uomini. Una seconda considera la concentrazione di potere economico che si ha nelle grandi società transnazionali, in grado di influire con le loro decisioni di investimento e/o di rifornimento sulla direzione e sulla dimensione dei flussi internazionali di commercio. Una terza, infine, riguarda le società translocali, comprese quelle cosiddette tascabili, le quali attraverso l'outsourcing, la delocalizzazione degli impianti e il tele-lavoro possono sottrarsi al vincolo geografico che è proprio della realtà distrettuale.
Per brevità, mi limiterò a citare alcuni fatti e ad illustrare alcune tendenze. In primo luogo, le produzioni di massa e di semimanufatti si sono venute concentrando nell'Est e nel Sud-Est asiatico; la Cina ha dimostrato al mondo di poter crescere per oltre un decennio ad un tasso del 10%circa, di avere raggiunto, in grazia anche di un cambio mantenuto stabile in rapporto al dollaro, una quota del 17% nelle esportazioni mondiali, di contribuire con la propria domanda a spingere in alto i prezzi delle materie prime, in particolare del petrolio, di poter competere nel settore dell'alta tecnologia acquistando dalla IBM la divisione dei persona( computer. La scadenza dell'accordo multi-fibre, che permetteva all'Occidente di continuare a produrre tessili al riparo dalla concorrenza dei Paesi in via di sviluppo, ha rivelato pienamente la vulnerabilità di quel segmento industriale in Europa e in America. Lo scarso rispetto per i diritti di proprietà sui marchi da parte della Cina ha reso il "made in Italy" e il "made in Europe" soggetti ad ampia contraffazione; le Corti cinesi, però, hanno cominciato a riconoscere il buon diritto dei produttori europei.
La crescita nell'Europa continentale e particolarmente in Italia è stata bassa in questi anni; nonostante l'arrivo della moneta unica, il modello produttivo continua ad essere incardinato sulle esportazioni, invece che sulla domanda interna. Le prime, salvo che nei settori in cui vi è un vantaggio comparato, in particolare per la Germania, hanno risentito della forza dell'euro, spinto in alto dai disavanzi gemelli degli Stati Uniti e dall'ostinazione della Cina a non rivalutare adeguatamente lo yuan per evitare di destabilizzare il proprio sistema bancario. Infine, i differenziali nel costo del lavoro, non solo con l'Asia ma anche con l'Europa orientale, hanno influito negativamente sulla competitività delle merci europee.
In questa massificazione dei flussi produttivi e delle correnti di traffico, non sono soltanto i distretti a repentaglio; anzi, in grazia del loro richiamo qualitativo è probabile che, nel generale sommovimento, essi meglio si difendano rispetto al resto della struttura produttiva italiana ed europea. Tra gli strumenti di difesa vi sono certamente le clausole di salvaguardia previste dagli statuti dell'Organizzazione mondiale del commercio; la loro attivazione può dare luogo a momentanee pause nella pressione esercitata dall'Oriente, che devono servire per riorganizzare o abbandonare ordinatamente i segmenti industriali maggiormente esposti. Non è pensabile di esercitare una sorta di imperialismo economico, ad esempio costringendo sine die i cinesi o altri produttori ad accettare restrizioni volontarie alle loro esportazioni sia perché contrarie al credo liberoscambista di cui siamo portatori, sia perché manca la forza all'Europa per ottenere quelle concessioni. V'è chi pensa che l'evoluzione delle relazioni industriali in Cina e nel Sud-Est asiatico e la domanda di sicurezza sociale da parte di quei lavoratori possano accrescere i costi di produzione e peggiorare le loro ragioni di scambio; nell'attesa che ciò accada, qualcuno suggerisce di introdurre nel commercio internazionale la clausola sociale che non solo è politicamente inaccettabile per i Paesi in via di sviluppo, ma è anche eticamente discutibile poiché mira ad estendere protezioni sociali di livello occidentale a situazioni infinitamente meno prospere, permettendo così ai Paesi sviluppati di conseguire un inconfessato obiettivo protezionistico.
Il Vecchio Continente dovrà, perciò, finalmente investire, oltre che nella formazione degli uomini, nella ricerca, nello sviluppo e nell'innovazione non solo dei processi, ma anche dei prodotti, se vorrà evitare il destino di un malinconico declino... Soprattutto, dovrà difendere il mercato unico nei campi in cui è stato realizzato, perseguirlo con giudizio in quelli in cui ancora non c'è, dare un'attuazione realistica e controllata alla strategia di Lisbona. Dopo i negativi risultati referendari di Francia ed Olanda, è necessario preservare e consolidare ciò che è stato raggiunto nel campo economico, per poter rilanciare un progetto politico di grande respiro.

4.3.1. È bene chiedersi se ai distretti, oltre ai meriti, sono da riconoscere anche responsabilità per la situazione di scarsa crescita di cui soffre l'Italia da alcuni anni e se azioni correttive sono ipotizzabili. La diagnosi dei mali italiani li fa risalire alla riduzione dell'input di lavoro negli ultimi decenni e alla carente produttività totale dei fattori, a sua volta dovuta a insufficienti sforzi nei campi della ricerca, dello sviluppo e dell'innovazione a causa della piccola e micro dimensione delle imprese. I distretti industriali, perciò, possono essere visti come involontari corresponsabili della contenuta crescita del Paese per avere promosso la specializzazione nei beni tradizionali e la bassa dimensione dell'impresa. Sono queste
caratteristiche innegabili dei distretti, che il compianto Paolo Sylos Labini, il Cnel e la legge finanziaria per il 2006 hanno cercato di correggere attraverso incentivi. Infatti, una libera associazione di imprese distrettuali può essere considerata soggetto unico d'imposta, quasi fosse un gruppo dal bilancio fiscalmente consolidato, trattare con la Pubblica Amministrazione come un'unica entità, acquisire una capacità contrattuale autonoma, facilitare l'accesso indiretto delle associate al mercato dei capitali, beneficiare di crediti agevolati e della diffusione dell'innovazione tecnologica attraverso un'apposita agenzia. La strada è lunga, in verità, poiché prevede una commissione di studio di nomina ministeriale, una fase sperimentale limitata ad uno o più distretti, un accertamento della compatibilità di queste norme con le regole comunitarie sugli aiuti di Stato. Sulla fattibilità tecnica, i maggiori dubbi riguardano la tassazione consolidata. Infine, rispetto ad un gruppo, una libera associazione ha una capacità di resistenza di gran lunga minore in una fase congiunturale avversa; le più recenti analisi sul campo accreditano l'ipotesi che solo le più forti imprese nell'ambito distrettuale hanno capacità di difesa e di reazione.

4.4. Infine, ci si può chiedere se il modello distrettuale può adattarsi ad una possibile evoluzione della globalizzazione, non più o non soltanto spinta dalla libertà di commercio e dí comunicazione, ma da un nuovo spirito, anche guerresco, per allargare l'area della democrazia e della libertà. La seconda globalizzazione, quella che stiamo vivendo, si è materializzata, almeno in un primo tempo, in un ambiente che rendeva la guerra impossibile; caduto "l'impero del male", essa ha avuto modo di investire tutto il mondo. Il suo motore, sotto il profilo economico, è stata la caduta dei costi di trasporto e soprattutto di quelli di comunicazione; sotto quello politico, l'opera di deregolamentazione, l'apertura dei mercati, i round negoziali, la creazione dell'Organizzazione mondiale del commercio, l'azione delle società transnazionali. Questo ambiente si è deteriorato fortemente con l'attacco alle Torri gemelle dell'il settembre 2001, interpretato da alcuni come un atto di guerra non solo contro gli Stati Uniti, ma contro la globalizzazione accusata, a torto o a ragione, da comunità tradizionaliste e fondamentaliste di puntare alla mercificazione della vita, di attentare ai valori culturali e religiosi, di essere un veicolo per l'esportazione del modello americano.
L'irrisolto conflitto mediorientale, le guerre in Afghanistan e in Iraq tutt'altro che concluse, l'indebolimento dell'egemonia russa in Paesi che da qualche secolo erano ad essa soggetti (Ucraina, Georgia, in qualche misura le repubbliche centro-asiatiche che oggi ospitano basi americane), la tensione dell'Occidente con l'Iran teocratico e desideroso di avvalersi della tecnologia nucleare, l'affermazione di radicali e oltranzisti nei territori palestinesi e dei Fratelli musulmani in Egitto e altrove, i moti di piazza in molti Stati arabi e musulmani per la pubblicazione in Europa di vignette satiriche sul Profeta Maometto, la reazione spropositata ad una citazione di un imperatore bizantino fatta da Benedetto XVI a Ratisbona, lasciano immaginare che la strategia internazionale oggi orientata all'esportazione dei valori di "libertà e democrazia" si avvarrà di preferenza della politica, della diplomazia, della minaccia della forza, mentre in passato era maggiormente incentrata sullo sviluppo attraverso l'aiuto pubblico e la liberalizzazione del commercio (il negoziato lanciato a Doha è ormai fallito per la richiesta di un ruolo ben maggiore da parte dei grandi Paesi emergenti). Infine. per effetto di tutte queste tensioni (e della forte domanda di Cina ed India) è tornata prepotentemente alla ribalta la questione energetica nelle tre dimensioni del prezzo, della disponibilità e della diversificazione delle fonti e delle provenienze. La globalizzazione, infine, come ha rivelato il dibattito sviluppatosi in Cina nel recente passato, è spesso percepita come accettazione dei valori capitalistici per l'arricchimento dei pochi, invece che come scelta di libertà e di benessere per la collettività tutta intera.
Se l'evoluzione ora delineata si manifestasse pienamente, la forza degli Stati, degli eserciti e delle multinazionali tornerebbe a pesare fortemente nell'arena politica ed economica internazionale, mentre quella dei sistemi distrettuali nel confronto scomparirebbe... Non v'è dubbio che la loro presenza sia una grande risorsa del nostro sistema produttivo e un'appropriata forma organizzativa di tante piccole imprese e di molte aree. Per ridurre i rischi della navigazione nel mare della competizione globale è comunque necessaria una politica di aggregazione, di crescita per linee esterne delle imprese che richiede nel piccolo e micro capitalismo italiano in primo luogo un salto culturale, non solo agevolazioni fiscali per le consulenze... La forza di cui hanno dato prova sino ad oggi i distretti non deve farci dimenticare il rischio che essa si riveli impari nella nuova situazione internazionale per la scarsità di grandi imprese, in particolare di transnazionali con base in Italia, e per il limitato ruolo internazionale cui il nostro Paese può legittimamente aspirare. Ben diversa potrebbe essere la situazione se l'Europa riprendesse rapidamente il suo cammino verso l'integrazione politica...5. Per concludere, si delineano altri volti umani per il capitalismo? No, in verità. La storia del XIX e del XX secolo è ricca di scioperi, serrate ed interventi dei governi e dei politici, dapprima repressivi, poi mediatori, quindi volti a depotenziare il conflitto attraverso lo Stato sociale.
Lo scontro tra il capitalista-imprenditore e i lavoratori continua all'interno di un singolo ordinamento con minore asprezza, poiché il primo può optare di produrre là dove le condizioni sono particolarmente favorevoli, mentre i lavoratori sono legati al territorio, ai Paesi la cui produzione non è più competitiva; ne pagano il prezzo attraverso la disoccupazione, la "precarizzazione" del rapporto di lavoro, la riduzione del livello di sicurezza sociale. L'opzione facile per i governanti, già sbandierata da qualcuno nella precedente legislatura, è l'introduzione di dazi protettivi. Se non vogliamo tornare agli anni '30, ostacoli alla crescita delle importazioni sono ammissibili per un tempo limitato e solo nei settori che hanno bisogno e, soprattutto, possibilità di ristrutturarsi.
Un altro aspetto saliente del capitalismo odierno è quello finanziario. Per fare profitti il capitalista non ha bisogno di mantenere bassi i costi di produzione comprimendo i salari; gli è sufficiente sfruttare gli andamenti di Borsa, le scalate societarie e le quotazioni immobiliari, utilizzare la leva offerta a piene mani dagli strumenti derivati, attuare strategie non necessariamente ortodosse (Citibank sui titoli pubblici docet), promuovere lo spostamento del risparmio previdenziale dal settore pubblico a quello privato, rafforzare le autorità nel convincimento che l'inflazione nei prezzi degli asset è diversa da quella dei flussi di beni e servizi e che solo quest'ultima va combattuta con l'arma dei tassi. Il volto arcigno del capitalista-imprenditore lascia il posto perciò a un capitalista-finanziere senza volto che sulla roulette mondiale scommette su questo o quel titolo, su questa o quella classe di attività, su questa o quell'area geografica, con l'aiuto di società di comodo, hedge fund, centri off-shore. Cercasi altri capitalismi dal volto umano, disperatamente.

NOTE

1 BECATTINI G., Per un capitalismo dal volto umano: Critica dell'economia apolitica, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.
2 SARCINELLI M., Capitalismo, Mercati, Banche, a cura di Danilo Taino, Guerini e Associati, Milano, 1997.
3 MORE T., Utopia, Louvain, 1516 (Everyman's Library, 1992, p. 59 e segg.).
4 CAMPANELLA T., La città del Sole, 1602 (Feltrinelli, 1962, p. 28).
5 PUTNAM R., Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy, Princeton University Press, Princeton, N 1 , 1993.
6 BANFIELD E.C., The Moral Basis of a Backward Society, The Free Press, Glencoe, III., 1958