La ricchezza

come «benedizione»

nell'esperienza di Israele

Carmine Di Sante

Nel 1996 è stato pubblicato in Italia il libro dell'economista americano Michael Novak [1] le cui tesi, con evidente senso critico e disaccordo, sono state presentate e riassunte dal periodico quindicinale «Adista» sotto il titolo provocante: Alla base del Regno di Dio il capitale. La «teologia dell'impresa» nel segno di Novak. Per Novak, scrive «Adista»,

[...] il problema fondamentale nella costruzione del Regno di Dio [è] quello del «come poter produrre la ricchezza»; concetto, secondo l'economista, «instillato dal Creatore di tutte le cose in modo che le sue creature potessero per tentativi ed errori scoprirlo». Nel capitale, dunque, secondo Novak, il senso ultimo del progetto di Dio sull'uomo. Ed è «irresponsabile» chi finge di non saperlo. Novak trova «curioso» che, nonostante che nella Bibbia la povertà sia costantemente elogiata, gli uomini di chiesa e i teologi moderni sembrano considerarla «non tanto come una condizione lodevole, quanto piuttosto come una realtà che dovrebbe essere eliminata», come «uno scandalo, dovuto principalmente all'egoismo umano e allo sfruttamento da parte dei ricchi». A suo giudizio «essi utilizzano il concetto di povertà da un punto di vista ideologico, non empirico», non rendendosi conto che «l'uso ideologico della "povertà" è all'origine del "totalitarismo democratico". Il tentativo di giustificare lo stalinismo nel nome di una promessa di giustizia sociale futura è fin troppo comune». Se poi il Regno di Dio richiede che la povertà sia eliminata da questo mondo, esso dovrebbe anche pretendere - secondo Novak - una corrispondente crescita della ricchezza. La conclusione viene da sé: «Il problema più importante non è tanto la povertà che è esistita da tempo immemorabile, ma come poter produrre la ricchezza». Sul tema però i teologi «hanno ben poco da dire», perché quasi mai hanno mostrato interesse per le questioni economiche: «La teologia dell'economia è la branca attualmente meno approfondita della ricerca teologica». Un errore imperdonabile. Perché qualsiasi articolo prodotto dalle imprese «per quanto frivolo possa essere», contribuisce alla liberazione del genere umano. In quanto «essere al servizio dei bisogni umani, dei desideri e degli interessi razionali vuol dire anche servire la libertà umana, la coscienza e Dio». E chi dubita è in mala fede: «solo se riusciremo a crearci un giudizio teologico positivo sul capitalismo democratico saremo in grado di sviluppare una teologia plausibile del mondo laico e una teologia del lavoro. Senza tale convincimento nessuno è in buona fede». La responsabilità etica del cristiano nell'impresa commerciale è allora quella di riconoscere «una doppia importanza per il mondo intero: l'importanza spirituale delle idee, e quella materiale di mostrare a tutte le nazioni un modo per evitare fame e miseria. Ora che conosciamo i segreti per produrre la ricchezza, è evidente che fame e miseria non nascono dal volere divino ma da quello umano» [2].

Senza entrare nel merito di questo libro e nel dibattito critico da esso suscitato (non perché non sia importante ma perché una valutazione di questo tipo non rientra nei fini di questo articolo), una cosa comunque va riconosciuta a Novak: di segnalare e portare allo scoperto una aporia che, da sempre, attraversa e lacera la coscienza cristiana, la sua spiritualità, la sua teologia e i suoi linguaggi, e che consiste da una parte nel denunciare la ricchezza come male e fonte di ogni male, per annunciare, al suo posto, la beatitudine della povertà; dall'altra nel volere, per i poveri, la fine della povertà, promuovendo il loro accesso ai beni necessari per l'esistenza e dignità umane. Questa aporia che attraversa il discorso cristiano sulla ricchezza è speculare a quella riguardante la povertà e che Rizzi nel suo bellissimo libro Scandalo e beatitudine della povertà, formula così lucidamente:

Le affermazioni bibliche sulla povertà non sono facilmente conciliabili tra di loro. Una aporia fondamentale percorre il discorso biblico sulla povertà: quella tra la necessità di una promozione umana del povero (quindi la lotta contro la povertà, presente in tutto l'arco della rivelazione biblica, dalle legislazioni alla denuncia profetica) e dall'altra parte l'annuncio ai poveri della loro beatitudine. Comunque noi la giriamo e la rigiriamo, questa aporia ci scotta in mano. Se siamo onesti, dobbiamo dire che non è facile andarne a fondo, risolverla. Quando si parla della «chiesa dei poveri», si oscilla tra l'accezione della chiesa che lotta per i poveri, per le loro rivendicazioni, per la loro liberazione, e quella di una chiesa che è essa stessa povera e con questo annuncia che è bello essere poveri [3].

Per quanto difficile, bisogna confrontarsi con questa aporia e cercare di risolverla, non tanto per evitare la retorica e la «ipocrisia» del linguaggio, esercitando su di esso la riflessione critica (in quanto appartenente all'ordine semantico e intenzionale il linguaggio resta sempre ambiguo e l'unico modo per controllarlo è il giudizio critico che, da nascosto, come vuole il significato etimologico di «ipocrisia», è chiamato a farsi consapevole ed esplicito), quanto soprattutto per quella superiore coerenza e trasparenza escatologiche dove, per Gesù, il «dire» coincide semplicemente con il «fare la volontà del Padre»: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21) .
È in questo tentativo di dare un contributo alla soluzione dell'aporia che si inserisce questo articolo sulla concezione della ricchezza nell'ebraismo: concezione doppiamente paradossale, non solo perché, nell'ebraismo, la ricchezza in quanto tale è stata sempre valutata positivamente, come «benedizione divina», ma soprattutto perché la tradizione cristiana ha capovolto questa «benedizione» in «maledizione», accusando l'ebraismo di essere una religione «materialista», incapace di elevarsi, come quella cristiana, alle altezze «spirituali», e gli ebrei di essere un popolo di ricchi, avidi e avari, attaccati al denaro e agli affari. Capire in che senso, per l'ebraismo, la ricchezza è benedizione, non solo può contribuire a sciogliere le ambiguità del linguaggio cristiano sulla ricchezza e povertà, reinnestandone la comprensione sulla «radice santa» di cui parla Paolo nella Lettera ai romani, ma è anche un debito di giustizia nei confronti dei «fratelli maggiori» vittime di un «insegnamento del disprezzo» (J. Isaac) e di un antigiudaismo violento di cui la chiesa non può non prendere coscienza e liberarsi attraverso un cammino di metanoia, di grande cambiamento mentale e spirituale: «Desideriamo trasformare la consapevolezza dei peccati del passato in fermo impegno per un nuovo futuro nel quale non ci sia più sentimento antigiudaico tra i cristiani e sentimento anticristiano tra gli ebrei, ma piuttosto un rispetto reciproco condiviso, come conviene a coloro che adorano l'unico Creatore e Signore e hanno un comune padre nella fede, Abramo» [4].

1. Figura della benedizione divina

Piuttosto che soffermarsi sui termini utilizzati o analizzare brani particolari che ne facciano emergere alcuni aspetti, è importante sottolineare l'ottica con la quale la tradizione biblica ed ebraica legge e «intus-legge», cioè valuta e comprende, la ricchezza: l'ottica della benedizione divina, la categoria con la quale il racconto biblico parla della relazione tra Dio e l'uomo (benedizione discendente) e della relazione tra l'uomo e Dio (benedizione ascendente). Si tratta di un termine difficilmente traducibile – berakah in ebraico – che, come esprime efficacemente il termine italiano «bene-dire» e «bene-dizione», rimanda a ciò che, per l'uomo, è bene ed è bene perché proviene da Dio che è il Bene, nel senso di Bene-volente. Il rapporto tra Dio e l'uomo è un rapporto di bene-dizione dove Dio dice bene dell'uomo e fa del bene all'uomo perché è buono. La pagina della creazione (categoria estranea alla Bibbia che la sostituisce appunto con berakah) è la narrazione stupita di questo Bene che si dice e si trascrive nei beni dati in dono all'uomo: «Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona» (Gn 1,3). L'evento creatore, con cui Dio pone in essere le cose, viene ogni volta presentato (per dieci volte come dieci sono le parole del decalogo), attraverso l'intreccio del dire («Dio disse») che si traduce immediatamente in fare («E la luce fu») e che, al di là del dire e del fare, lascia intravedere l'«oltre» da cui proviene, la Bontà o Bene: «Dio vide che la luce era cosa buona».
Al di là del «dire» e del «fare» splende la dimensione del Bene in forza del quale tutto ciò che Dio dice e fa è buono, tov in ebraico, kalon nei LXX. Buono in due sensi correlati ma irriducibili: perché ciò che egli dice e fa risponde al bisogno e alla felicità dell'uomo (il bene come fruizione e godimento); perché in ciò che egli dice e fa c'è un «oltre» o un «al di là» che è la sua sollecitudine con cui si prende a cuore il bisogno umano (il bene come bontà e benevolenza). Due tratti irriducibili, si diceva: perché il primo, il bene come «bene desiderabile», riguarda la dimensione fruitiva del mondo, che a cogliere sono i sensi; mentre il secondo, il bene come «bontà» o «benevolenza», riguarda l'alterità o trascendenza di Dio che, altro dall'uomo e dai beni del mondo, è relazione d'amore che, trascendimento della fruizione, instaura, nell'uomo, il senso della riconoscenza e della responsabilità.
Per la Bibbia ebraica tutto ciò che esiste, dal «filo d'erba» all'«aratro», dall'ordine naturale, l'ordine del già dato, all'ordine culturale, l'ordine del progettuale e della tekne, tutto esiste in quanto avvolto e sotteso dalla benedizione di Dio, cioè dalla sua volontà di bene di cui i beni, sia quelli naturali che culturali, sono il signum o sacramentum nei quali trascrive e dice la sua sollecitudine e il suo amore per l'uomo.
La ricchezza, nella sua accezione comune e generale di abbondanza di beni materiali e culturali (anche se questa distinzione è scarsamente rilevante dal momento che, nell'umano, non si danno beni materiali ma sempre e solo «culturali») non solo è benedizione divina ma della benedizione divina è quasi la figura esemplare, come emerge:
- sia dalla storia dei patriarchi: Abramo, che «era molto ricco in bestiame, argento e oro» (Gn 13,2); Isacco, «che crebbe tanto in ricchezze fino a diventare ricchissimo» (Gn 26,13); e Giacobbe, che «si arricchì oltre misura e possedette greggi in grande quantità, schiave e schiavi, cammelli e asini» (Gn 30,43);
- sia dalla storia dei re come Davide, Salomone e Ezechia, quest'ultimo descritto come colui «che ebbe ricchezze e gloria in abbondanza... si costruì depositi per l'argento, l'oro, le pietre preziose, gli aromi, gli scudi e per qualsiasi cosa pregevole, magazzini per i prodotti del grano, del mosto e dell'olio, stalle per ogni genere di bestiame, ovili per le pecore... perché Dio gli aveva concesso beni molto grandi» (2Cr 32,27ss)»;
- sia dalla descrizione della terra di cui Dio fa dono a Israele, una terra «fertile, terra di torrenti, di fonti e di acque sotterranee... di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni... di ulivi, di olio e di miele... dove non mancherà nulla» (Dt 8,7ss);
- sia infine dal profetismo che, attraverso Isaia, sogna un domani dove, per tutti i popoli della terra (un domani, si noti, che non riguarda la metastoria ma la storia), ci siano «grasse vivande», «vini eccellenti» e «cibi succulenti» (cf. Is 25,6ss) e dove, da Gerusalemme, scorrerà «come un fiume la prosperità; come un torrente in piena la ricchezza dei popoli» (Is 66,12).

2. Figura della benedizione umana o giustizia

Figura della benedizione divina – di Dio che con essa vuole la vita e la felicità dell'uomo – la ricchezza è contemporaneamente, per la Bibbia, figura anche della benedizione umana, nel senso che, benedetto da Dio, l'uomo è chiamato a farsi, a sua volta, bene-dicente. In due sensi: riconoscendo nella ricchezza il «di più» della Bontà di Dio che in essa si trascrive (la benedizione come lode e ringraziamento); acconsentendo a quella Bontà con un agire – il «dire» e «fare» – che della bontà divina deve essere trasparenza e imitatio (la benedizione come responsabilità etica e giustizia). Senza il riconoscimento della Bontà divina che la sottende e senza la volontà di giustizia che l'avvolge e la governa, la ricchezza da benedizione si fa maledizione e da condizione di vita (shalom, secondo il termine ebraico che vuol dire la pienezza dei beni necessari alla felicità umana) si perverte in condizione di morte (cf. Dt 28,1-46).
Di qui, per la Bibbia, la fondamentale ambiguità di ogni realtà umana e quindi della ricchezza e del denaro che della ricchezza è strumento e simbolo. Fondamentale ambiguità che attraversa tutta la Bibbia ebraica e soprattutto le scritture cristiane e che si esprime in quella aporia fondamentale di cui si è parlato. Fondamentale ambiguità però che non inerisce alla ricchezza in quanto tale ma alla soggettività umana che ne è destinataria e responsabile.
È, in questa – nella soggettività umana – che risiede l'impensabile potere e responsabilità di fare della ricchezza una benedizione, se, come Dio e in collaborazione con Dio, con essa si dà «da mangiare a chi ha fame» (cf. il mirabile salmo 136 dove il culmine dell'amore di Dio è che egli «dà il cibo a ogni vivente, perché eterna è la sua misericordia»); oppure una maledizione, se con essa ci si chiude nelle mura del proprio io e della sua spontaneità selvaggia, dimenticando e cancellando l'alterità divina che la sottende e l'alterità del volto o prossimo che ne invoca ed esige la condivisione, come i commensali alla presenza dello stesso pane. In altri termini: per la Bibbia è maledizione la ricchezza per sé, dove il «per sé» dice contemporaneamente l'io in quanto principio e fine, inizio e termine; mentre, per essa, è benedizione la ricchezza per l'altro, l'altro dall'io, il bisognoso, l'orfano, il povero e l'affamato. Con linguaggio biblico: la ricchezza è maledizione se sottratta all'ordine della giustizia, se il «cuore» di chi la possiede (il luogo, per la Bibbia, non del sentimento ma della intenzionalità e della decisione ultima) non è «giusto», non trasforma, nel senso etimologico di passare a una nuova forma, il suo «avere» in «dare»; al contrario la ricchezza è benedizione se sottesa dalla giustizia, se il cuore di chi la possiede «vede» e «sa» che il senso di quel possedere è il donarla. Per quanto il potere della ricchezza, fattualmente e storicamente, sia seduttivo e condizionante, non va mai dimenticato che, per la Bibbia, non è la ricchezza ad alienare l'uomo bensì l'uomo ad alienarsi attraverso la ricchezza e che, rispetto a essa, prioritaria, resta sempre la trascendenza del soggetto umano nelle cui mani risiede il potere di farne dono all'altro. Perché, come ripete Lévinas, si può donare solo ciò che si ha.
Più che la distinzione tra ricchezza e povertà (se per ricchezza si intende l'abbondanza dei beni e per povertà la sua assenza), per la Bibbia ebraica è rilevante la distinzione tra la ricchezza giusta, dove ciò che si ha lo si ha per donare, e ricchezza ingiusta, dove ciò che si ha lo si man-tiene, nel senso etimologico di tenerlo tra le mani, sospendendo il movimento dell'apertura e della donazione. Non si tratta di una sfumatura irrilevante ma di una differenza sostanziale: perché, per la Bibbia, Dio non ha creato un mondo dove al posto dei beni materiali sarebbero da preferire beni superiori e «spirituali», secondo la dizione cristiana debitrice del dualismo greco, bensì un mondo dove, secondo la logica dell'alleanza, l'ordine ontologico è affidato all'uomo, alla sua responsabilità assoluta o eticità dalla quale ne dipende la «benedizione» o «maledizione». Per questo, commentando un testo talmudico, Lévinas scrive che per l'ebraismo

la vita spirituale, in quanto tale, resta inseparabile dalla solidarietà economica con altri - il dare è in qualche modo il momento originale della vita spirituale; l'esito messianico non potrebbe sopprimerlo. Ne permette solamente il pieno rigoglio e la più grande purezza e le gioie più alte [...]. Non che i poveri debbano sussistere perché i ricchi abbiano la gioia messianica di nutrirli. Bisogna pensare in maniera più radicale: altri è sempre il povero, la povertà lo definisce come altri, e la relazione con altri resterà sempre offerta e dono H. La vita spirituale è essenzialmente vita morale e il suo luogo di predilezione è l'economico [5].

Per l'ebraismo la vita spirituale il luogo dell'incontro tra Dio e l'uomo; l'etica, il luogo dell'incontro dell'uomo con l'altro uomo; e l'economia, il luogo della produzione e distribuzione dei beni o ricchezza, sono tre momenti indissociabili del vivere e del convivere umano e, cosa ancora più sorprendente e straordinaria, dei tre momenti è l'ultimo, l'economia, «il luogo di predilezione» dove si incontrano e si inverano gli altri due.
È in questo intreccio di spiritualità, etica ed economia che, per l'ebraismo, va visto e interpretato il denaro che dell'economia e della ricchezza è simbolo e strumento. Invitato nel 1986 a Bruxelles dal gruppo delle Banche belghe per il loro 25° anniversario di fondazione, Lévinas tenne una conferenza dal titolo Socialità e denaro dove, riconducendo il denaro all'etica, tra l'altro affermava: «Nel denaro non ci si deve mai dimenticare della prossimità, della trascendenza – e della socialità che da sempre l'attraversa, da unico a unico, da straniero a straniero, la trans-azione dal quale il denaro proviene e che il denaro risveglia» [6].
Né demonizzato né divinizzato, il denaro trova il suo significato e si sottrae all'idolatria e all'ambiguità che lo minaccia, nell'orizzonte etico che lo esige e lo misura. Sempre Lévinas, in uno scritto del 1954 intitolato «L'io e la Totalità», apparso nella Revue Philosophique de la France et de l'étranger, scrive:

Nella transazione si compie l'azione di una libertà sull'altra. Il denaro, il cui significato metafisico non è stato forse ancora valutato (nonostante l'abbondanza di studi economici e sociologici che gli sono stati dedicati)... è il termine medio per eccellenza... Esso è così l'elemento astratto in cui si compie la generalizzazione di ciò che non ha concetto, l'equazione di ciò che non ha quantità. Mezzo ambiguo in cui, nello stesso tempo, le persone si integrano nell'ordine delle merci, ma in cui esse rimangono persone, poiché l'ordine delle merci (che non equivale all'ordine della natura) presuppone le persone che, di conseguenza, restano inalienabili nella transazione stessa in cui si vendono... Il denaro non segna dunque la reificazione pura e semplice dell'uomo. È un elemento in cui il personale si conserva, pur quantificandosi - e in ciò consiste appunto l'originalità del denaro e, in certo modo, la sua dignità di categoria filosofica... Non possiamo attenuare la condanna che, dal versetto 6 del capitolo II di Amos fino al Manifesto comunista, pesa sul denaro proprio a causa del suo potere di comprare l'uomo. Ma la giustizia che ce ne deve scampare non può tuttavia rinnegare la forma superiore dell'economia - cioè della totalità umana - in cui compare la quantificazione dell'uomo, la comune misura tra uomini di cui il denaro qual che ne sia la forma empirica - fornisce la categoria. È certo assai sconvolgente vedere nella quantificazione una delle condizioni essenziali della giustizia. Ma è possibile concepire una giustizia senza quantità e senza riparazione? [7]
Misurazione e quantificazione, il denaro non si esaurisce in queste, rimandando alla assolutezza del volto – di ogni volto – che dandosi al plurale (non esiste il volto ma la pluralità dei volti) esige e istituisce il giudizio e la misura. Come in una famiglia dove, alla presenza di più figli, dovendo dare tutto a tutti senza preferenze, i genitori devono tradurre il loro amore, di per sé incommensurabile, con «misura» e «in parti uguali».

3. Gli ebrei ricchi, avidi e avari?

Rimproverando a Simone Weil di non conoscere l'ebraismo, dal quale pure proveniva, e polemizzando contro la sua tesi secondo la quale l'ebraismo non conoscerebbe il bene, Lévinas scrive:

L'insegnamento della Bibbia non è l'elogio di un popolo modello. È fatto tutto di invettive. L'unico merito d'Israele consiste, forse, nell'aver scelto questo libro di collera e di accusa per il suo messaggio. Nell'averne fatto il proprio libro. Israele non è un popolo modello, ma un popolo libero. Popolo pieno di avidità e teso verso i beni carnali? Certo, come tutti i popoli. La Bibbia lo narra per denunciare questa avidità. Ma essa sa che non basta negare. Essa cerca di innalzare, introducendovi la giustizia. È nella giustizia economica che l'uomo intravede il volto dell'uomo [8].

La grandezza di Israele – e della Bibbia di cui ha fatto dono all'umanità – non è di volersi migliore degli altri popoli o superiore ad essi, ma di affermare che l'orizzonte ultimo dell'umano non è l'ordine naturale della spontaneità, dell'autoaffermazione e della persistenza nel proprio essere – la legge ontologica fondamentale – bensì l'ordine etico della bontà e della giustizia che dell'ordine naturale è il radicale rovesciamento:

Non ci si stupisce abbastanza di questo rovesciamento dell'ontologia in etica e, in qualche modo, del condizionamento, in essa, dell'essere sul disinteresse della giustizia. Parola di rovesciamento, il cui modo è imperativo, è prescrizione, e così precisamente scrittura della Torah, libro che domina la coscienza che segue gli affari e le leggi della terra e decifra l'eternità del suo presente, libro profetico dell'alterità e del futuro [9].

Da popolo custode della eticità, che al di là dell'ordine della natura ha voluto, per l'uomo, l'ordine della giustizia, gli ebrei sono passati, nella tradizione cristiana e occidentale, come l'esatto contrario: come popolo di ricchi, avidi, avari e usurai. Questo pregiudizio, che spesso permane ancora nonostante 30 anni di dialogo cristiano-ebraico avviato dalla chiesa cattolica con il Vaticano II, ha segnato drammaticamente il popolo ebraico, condannandolo a violenze e sofferenze inaudite. Scrive P. Lapide:

Dopo il concetto di «assassino di Cristo», quello più strettamente collegato nella mente popolare con l'ebreo proverbiale, è tuttora «sanguisuga» o «usuraio». Mentre il primo termine è stato immortalato in centinaia di sculture, dipinti e incisioni, che ancor oggi abbelliscono numerose chiese e cattedrali antiche d'Europa, il secondo si riflette nei pregiudizi radicati e nel folklore popolare, ed è specchio fedelissimo dell'intera gamma di caratteristiche di ogni popolo: la stessa lingua. Ce lo conferma uno studio delle definizioni date al termine «giudeo» nei dizionari inglesi, americani, spagnoli, francesi e italiani. Ecco che cosa troviamo nel Larousse Illustré: usuraio, persona che presta denaro a tasso esorbitante; persona che guadagna con mezzi illeciti e sordidi. Nel Diccionario de ia Lengua Espariola (pubblicazione ufficiale della Réal Academia de la Lengua): avaro, usuraio. Date un dito a un ebreo e vi prenderà tutta la mano. Nel Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana: impietoso usuraio, sinonimo di caparbio miscredente. Nel Nuovo Dicionario de Lengua Portuguesa: truffatore, imbroglione, avaro, persona di cattiva fama, mercante disonesto, persona satanica... [10]

I fattori che hanno portato allo stereotipo dell'ebreo come la personificazione stessa del truffatore ricco e disonesto sono tanti, tra i quali ne vanno ricordati soprattutto due: da una parte il divieto agli ebrei di esercitare le professioni libere (a eccezione di quella medica), per cui la loro sopravvivenza era legata prevalentemente all'attività commerciale e allo svolgimento di particolari lavori che nessuno voleva esercitare (come ad esempio la tessitura e la concia); dall'altra la concezione demonizzata del denaro (per Francesco d'Assisi il denaro era «sterco del demonio»!) per cui la chiesa, mentre vietava ai cristiani
di prestarlo a interesse, l'usura come allora si diceva (solo successivamente il termine avrà una connotazione del tutto negativa), permetteva e addirittura sollecitava gli ebrei a farlo, perché ritenuti già dannati e irredimibili. È così che

a partire dal XII secolo si assiste, nell'Europa occidentale, a uno straordinario diffondersi di questa nuova attività fra gli ebrei: l'usuraio [chi presta denaro] è di norma un ebreo, e la parola «ebreo» acquista il significato di «usuraio». Gli ebrei prestano denaro un po' a tutti: ai governi, per i loro eserciti e le loro funzioni, ai nobili per i loro lussi, ma anche alle classi più modeste, artigiani e contadini. E essendo assai elevato il rischio di non vedersi restituire un soldo (basta un editto del principe), gli interessi sono piuttosto elevati. I debitori vengono talvolta costretti a impegnare ogni loro avere, perfino gli attrezzi di lavoro. Di qui l'aumento dell'odio popolare verso gli ebrei nonché la nascita, nel XV secolo, dei Monti di Pietà, istituiti dai Frati Minori appunto nell'intento di porre un freno all'usura, ma con scarso successo [11].

Alla costruzione di questa immagine odiosa dell'ebreo contribuì soprattutto la predicazione francescana rivolta prevalentemente al popolo, portato ad attribuire le cause del proprio male all'usura degli ebrei invece che alla politica economica delle classi agiate e al potere dei sovrani che, avendo sempre più bisogno di denaro per le guerre, le crociate, le costruzioni e le loro corti, asservivano il popolo non meno che gli ebrei:

Ecco l'idea di questi sovrani: utilizzare gli ebrei. Una trovata semplice, utile, irreprensibile dal punto di vista religioso: chi presta denaro a interesse è soltanto l'ebreo e lui solo, pertanto sarà dannato; il re, invece, non presta niente: il re rinsalda le proprie sostanze attraverso gli ebrei, ma questo non è un peccato. Nasce così una nuova figura umana: «l'ebreo reale», l'ebreo considerato come un «pezzo» del patrimonio del re: ipsi judaei et omnia sua regis sunt (gli ebrei e tutto ciò che posseggono appartengono al re) dice una legge inglese; e negli stessi termini si esprimono leggi di altre nazioni. «I miei ebrei» dicono spesso i sovrani, così come dicono «i miei fiumi, le mie foreste, i miei cavalli» [12].

Sono sufficienti questi pochi accenni per capire l'aberrazione dell'accusa rivolta agli ebrei di essere «ricchi», «avidi» e «avari». Poiché per tanti secoli gli ebrei si sono trovati nella necessità di maneggiare denaro e di trasmettersi questa occupazione – tra le poche consentite – da padre in figlio, «si spiega», come scrive sempre Saracini, «un'attitudine tramandata sino a oggi in molti di loro: l'attitudine agli affari, per meglio dire, una spiccata capacità commerciale, bancaria e, da ultimo, anche industriale. Non si può generalizzare, certo, ma nemmeno si possono trascurare questa inclinazione e le sue precise, documentate origini storiche... Se non pochi ebrei la posseggono oggi, se l'alta finanza e l'alta industria annoverano svariati nomi ebraici – primi fra tutti i Rotschild – ciò si spiega considerando che gli avi furono costretti ad apprenderla» [13]. Ma tutto questo non ha nulla a che fare con lo stereotipo cristiano ancora duro da morire che, oltre la dignità dell'ebreo, offende anche l'intelligenza cristiana.

NOTE

1 M. NOVAK, Verso una teologia dell'impresa, Liberilibri, Macerata 1996.
2 «Adista», 25 gennaio 1997, p. 5.
3 A. Rizzi, Scandalo e beatitudine della povertà, Cittadella Editrice, Assisi 1975, p. 6.
4 COMMISSIONE DELLA SANTA SEDE PER I RAPPORTI RELIGIOSI CON L'EBRAISMO, Noi ricordiamo. Una riflessione sulla shoah, 16 marzo 1998, n. 5.
5 Citato in A. CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio. Emmanuele Lévinas lettore del Talmud, Giuntina, Firenze 1999, p. 225.
6 R. BURGGRAEVE, Ernmanuel Lévinas et la socialité de targent, Peeters, Leuven 1997, p. 80.
7 E. LÉVINAS, Tra Noi. Saggi sul pensare all'altro, Jaca Book, Milano 1998, pp. 66-67.
8 CHIAPPINI, Amare la Torah..., pp. 57-58.
9 CHIAPPINI, Amare la Torah..., p. 137.
10 P. LAPIDE, Roma egli ebrei, Mondadori, Milano 1967, p. 74.
11 E. SARACINI, Breve storia degli ebrei e dell'antisemitismo, Mondadori, Milano 1989, p. 36.
12 SARACINI, Breve storia degli ebrei..., p. 36.
13 SARACINI, Breve storia degli ebrei..., p. 38.

NOTA BIBLIOGRAFICA

A. CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio. Emmanuele Lévinas lettore del Talmud, Giuntina, Firenze 1999; P. LAPIDE, Roma e gli ebrei, Mondadori, Milano 1967; E. LÉVINAS, Tra noi. Pensare all'altro, Jaca Book, Milano 1998; A. RIZZI, Scandalo e beatitudine della povertà, Cittadella, Assisi 1975; E. SARACINI, Breve storia degli ebrei e dell'antisemitismo, Mondadori, Milano 1989. Utile anche il confronto con un'altra opera di M. NOVAK, Lo spirito del capitalismo democratico e il cristianesimo, Studium, Roma 1987.

(da Credere oggi 19 (4/1999), n. 112, pp. 23-34)