La coscienza
nell'attuale
contesto culturale
Giannino Piana
La coscienza ha acquisito, nella cultura moderna e contemporanea, una sempre maggiore centralità. L'importanza assegnata alla dignità (e ai diritti) della persona coincide (e non può che coincidere) con il riconoscimento del rispetto dovuto alla coscienza nell'ambito delle decisioni umane e con l'affermazione della sua piena libertà di espressione. Nonostante queste indubbie conquiste, essa soffre tuttavia oggi di una serie di limitazioni interpretative, dovute ad alcune caratteristiche del mutamento culturale in corso e in particolare agli sviluppi delle scienze umane. Il suo ricupero è infatti avvenuto (e avviene) nel contesto di una cultura fortemente individualista, da cui discende la tendenza alla sua radicale soggettivizzazione; mentre gli approcci delle scienze umane, sottolineando i molteplici condizionamenti cui va soggetta, finiscono per svuotarla della sua identità originaria, e perciò per oggettivarla.
Le rapide note di riflessione, che qui proponiamo, intendono far luce su tale situazione, cercando di identificarne le ragioni profonde, ma evidenziando soprattutto le provocazioni positive che da essa scaturiscono per un ripensamento della coscienza nell'ottica di una corretta interazione (e integrazione) tra aspetto soggettivo e aspetto oggettivo dell'esperienza morale.
1. Il primato della coscienza e la sua interpretazione individualistica
A restituire il primato alla coscienza ha anzitutto contribuito, in epoca moderna, la riflessione sui diritti di libertà, che si è sviluppata a partire dall'Illuminismo e che ha trovato espressione politica nella rivoluzione francese e in quella americana. Tra le diverse forme di libertà considerate come patrimonio irrinunciabile della persona un posto privilegiato occupa, in tale riflessione, la libertà di coscienza; da essa discendono infatti le libertà di opinione e di religione, alle quali va garantita una piena esplicazione anche a livello pubblico. Il ricupero del soggetto come perno non solo della vita morale ma anche di quella sociale e politica coincide con il riconoscimento della coscienza quale ultimo criterio di valutazione della condotta personale e quale baluardo di fronte al quale ogni potere deve arrestarsi. L'affermarsi del sistema democratico non implica infatti soltanto la partecipazione diretta o indiretta di tutti i cittadini al governo dello Stato, ma comporta soprattutto una forte limitazione dell'esercizio dei poteri pubblici, a favore del rispetto della libertà di coscienza dei singoli, laddove non esistono motivi di bene comune (o di interesse generale) per intervenire con prescrizioni di ordine impositivo.
La cultura moderna, pur con qualche inevitabile oscillazione, si è sviluppata entro questo alveo. Le barriere tradizionali imposte dall'esterno – si pensi ai dispositivi di ordine religioso o etico e, più in generale, a tutte le forme di autoritarismo – sono progressivamente crollate per fare spazio a una conduzione della vita, sia personale che sociale, guidata da parametri interiori o ispirata a visioni liberamente accettate, frutto di piena assimilazione personale. Gli esiti positivi di questo processo appaiono evidenti in tutti i settori dell'esperienza umana: ciò che, in definitiva, viene acquisendo sempre maggiore consistenza è la promozione dell'identità soggettiva, e dunque l'articolarsi di un tessuto di convivenza basato sulla partecipazione e sulla corresponsabilità collettiva.
A contrastare questa linea di tendenza (e a far segnare decisamente il passo alla crescita della coscienza civile) ha tuttavia contribuito, nel secolo scorso, l'avvento di ideologie totalitarie – è d'obbligo richiamare qui quella nazista e quella staliniana – la cui gravità (al di là dei nefandi crimini perpetrati) sta soprattutto nell'aver mortificato le coscienze, ripristinando modalità di obbedienza al potere costituito assolutamente inaccettabili. La reazione a tale stato di cose –basti qui ricordare le accuse rivolte ai responsabili delle stragi naziste al processo di Norimberga – ha comunque confermato la persistenza di un atteggiamento di forte consapevolezza del primato della coscienza e ha, anzi, contribuito a consolidare tale primato. I danni dell'autoritarismo e del legalismo hanno reso sempre più lucida la percezione dell'importanza che ha il rispetto della coscienza e hanno creato le premesse per l'introduzione a livello legislativo dell'istituto dell'obiezione di coscienza; introduzione che costituisce un salto di civiltà e un fondamentale passo avanti sulla via della costruzione di una democrazia compiuta.
Non vanno tuttavia sottaciuti i limiti, che hanno accompagnato il ricupero di questa sempre maggiore attenzione alla coscienza; tra questi, in particolare, la prospettiva fortemente individualista in base alla quale tale ricupero è avvenuto. La cultura moderna è contrassegnata, fin dall'inizio e in tutte le sue fasi, dalla riduzione del soggetto a individuo, dalla mancanza di una visione «personalista» del soggetto, la sola in grado di fare immediatamente spazio (interpretandola non come dato accidentale ma come fattore costitutivo) alla dimensione relazionale e sociale. Vi è chi – non a torto – tende a far risalire tale riduzione all'influsso del Nominalismo, cioè alla negazione che esso fa dell'esistenza di ogni dato oggettivo (a causa dell'impossibilità di pervenire alla elaborazione di concetti che abbiano una consistenza reale, che non siano meri nomi o semplici flatus vocis), perciò a una lettura radicalmente «singolare» della realtà e alla riconduzione dell'ordine esistente a una volontà onnipotente, con significative ricadute tanto sul piano etico che politico.
La definitiva soppressione del concetto di «natura» (e conseguentemente di «diritto naturale») coincide con la nascita del «diritto soggettivo» come unico referente della vita sociale: l'antropologia individualista non consente di fondare la società a partire dall'essenza del soggetto, ma ne impone l'accettazione unicamente come condizione per lo sviluppo delle istanze individuali; la mediazione dei diritti soggettivi, cioè la limitazione della loro area di estensione diviene pertanto la via che rende possibile a tutti l'accesso a una loro (sia pure parziale) fruizione. La visione pessimistica dell'uomo propria della Riforma accentua tale tendenza, identificando il diritto soggettivo con il luogo di concentrazione degli istinti individuali e dei desideri egocentrici. Le teorie contrattualiste – a partire da Hobbes – fanno proprio questo assunto, impegnandosi, mediante il «patto sociale», nella costruzione di un ordine, che consenta il superamento del «bellum omnium contra omnes», che renda in altri termini possibile l'articolarsi di una forma di convivenza ordinata e pacifica.
Il presupposto individualistico trova poi ulteriore conferma (e grande consolidamento) con l'avvento dell'industrializzazione e con l'affermarsi del sistema capitalista. L'egoismo individuale sembra costituire la molla da cui l'attività economica prende avvio, e la stessa scienza economica, che si sviluppa in tale contesto, fa dei principi della proprietà privata e della massimizzazione della produttività e del profitto le leggi «naturali» che devono governare la vita economica. L'interesse generale non rientra direttamente negli obiettivi dell'economia, ma viene piuttosto concepito o come l'esito automatico del libero mercato – si pensi al teorema della «mano invisibile» che ridistribuisce ciò che viene prodotto (A. Smith) – o come una variabile con cui fare i conti per ragioni puramente economiche, considerando cioè i riflessi negativi prodotti dall'eccesso di sperequazione in termini di disagio e di conflittualità sociale.
Questo insieme di fattori si riflette in una lettura radicalmente soggettivistica della coscienza: essa, lungi dall'essere vista come fonte originaria di una identità – quella del soggetto – che prende senso e si costruisce in un tessuto di relazioni, risulta espressione di una individualità chiusa e autosufficiente; la necessità di fare i conti con istanze derivanti dalla presenza dell'altro (e degli altri) ha infatti carattere del tutto esteriore ed è motivata da ragioni meramente utilitariste. La coscienza non è soltanto l'ultimo criterio della moralità, è il criterio unico (ed esclusivo) del suo esercizio. L'affermazione «decido secondo coscienza» rispecchia questa convinzione: il riferimento a un ordine oggettivo è ritenuto superfluo (e persino deviante), l'agire ha nell'individuo la sua sorgente e si esaurisce in esso; tutto il resto è legato esclusivamente a ragioni di convenienza o di convenzione sociale, ragioni che non intaccano la soggettività delle scelte.
2. Le scienze umane e l'oggettivazione della coscienza
Questa spinta soggettivistica si scontra peraltro – sta qui il carattere di paradossalità della situazione attuale – con l'opposta tendenza alla radicale oggettivazione della coscienza, provocata soprattutto dall'interpretazione (o dalle interpretazioni) che di essa ci forniscono le scienze umane. La psicologia, quella del profondo in particolare, pone l'accento sull'importanza che riveste il processo di formazione della personalità: la coscienza morale altro non è che l'introiezione del super-io sociale, l'assimilazione cioè di comandi e di divieti, che non hanno origine nell'interiorità del soggetto, ma sono il prodotto del condizionamento esercitato dal mondo esterno di cui il soggetto si appropria in nome del «principio di realtà». A loro volta, le scienze sociali e culturali – basti qui ricordare l'antropologia di ispirazione funzionalista – sottolineano la pesantezza degli influssi esercitati dalle strutture e dalle istituzioni della vita associata e, più in generale, dal costume dominante, cioè dagli stili di vita e dai modelli di comportamento, sulla condotta dei singoli; mentre gli stessi sviluppi delle scienze biologiche – si pensi alla fisiologia dei vari apparati e allo studio delle interazioni che tra essi si istituiscono – svelano la dipendenza dell'agire dell'uomo da dinamismi istintuali che producono forme di reazione immediata, difficilmente controllabili a livello razionale. La coscienza risulta così essere più il riflesso dell'insieme delle pressioni esercitate da un insieme di fattori – endogeni o esogeni – guidati, in ogni caso, da logiche deterministiche che una realtà dotata di consistenza originaria e autonoma, da cui prende forma il giudizio e la decisione morale. È come dire – ed è questa la posizione più radicale (e tuttavia, in tale ottica, coerente) espressa dallo strutturalismo – che essa si riduce a evento del tutto sovrastrutturale, a epifenomeno, la cui genesi e i cui caratteri distintivi vanno ricercati altrove; nell'influenza di un complesso intreccio di elementi, il peso di ciascuno dei quali è inoltre difficilmente valutabile. Al di là della convergenza attorno a questa visione, che svuota la coscienza della sua identità soggettiva, e pertanto la reifica, diverse sono le modalità descrittive che si danno di essa a seconda che si privilegi l'una o l'altra ottica di approccio; la tendenza delle scienze umane, guidate nella ricerca e nella elaborazione dei dati da inevitabili precomprensioni metascientifiche, è infatti quella di trasformarsi in ideologie totalizzanti, dando vita a un «conflitto delle interpretazioni», che ha come sbocco la riduzione della coscienza alla realtà dell'inconscio o al riflesso condizionato dei modelli sociali e culturali egemoni.
L'oggettivazione della coscienza comporta per ciò stesso la negazione della moralità: sottraendo all'uomo quel principio interiore che dà senso autenticamente umano all'agire e riducendolo alla risultante di condizionamenti indotti dalla pressione di fattori diversi (e in ogni caso decisivi), si perviene allo svuotamento totale della soggettività umana, perciò all'ammissione dell'impossibilità di attribuire contenuto etico alle scelte. All'assunzione radicale della responsabilità soggettiva, fino agli eccessi di un individualismo che annulla l'esigenza di un ordine oggettivo con cui misurarsi – sono io a decidere, e decido a partire soltanto dalla mia coscienza – subentra qui la totale rinuncia a ogni decisione, in quanto del tutto illusoria – non sono io a decidere ma subisco decisioni che sono solo apparentemente mie –: rinuncia che coincide con una sorta di neutralità nei confronti del bene e del male, e dunque con la vanificazione di ogni forma di eticità.
3. Il ricupero dell'unità e della complessità della coscienza
Le due visioni esposte non sono in grado di interpretare la ricchezza della coscienza nella sua valenza morale. La riduzione soggettivistica (e individualista), pur salvaguardando la specificità della coscienza in quanto legata all'interiorità dell'uomo, la isola dal contesto circostante (composto di soggetti e di oggetti), facendo di essa un dato solipsistico e autoreferenziale, incapace di dare ragione delle dinamiche relazionali che qualificano l'agire umano; mentre la riduzione oggettivistica cancella di fatto la coscienza per sostituirla con un determinismo meccanicistico, che annulla ogni specificità dell'agire umano.
Ciò non toglie che da tali visioni provengano stimoli interessanti per acquisire aspetti della coscienza che, opportunamente integrati tra loro, concorrono a fornirci una lettura più corretta della sua identità. Il ricupero della soggettività – ricupero che ha raggiunto livelli di grande intensità nell'ambito della riflessione fenomenologica ed esistenzialista – ha consentito di riportare l'attenzione sulla sua unità originaria, sul suo essere dimensione costitutiva del soggetto nella sua datità corporea e spirituale; in altre parole, sulla sua identificazione con l'io colto nell'integralità del suo essere e delle sue potenzialità espressive, al di fuori di qualsiasi prospettiva dualista. La coscienza è qui anzitutto considerata nel suo spessore antropologico, come il centro unitario attorno a cui ruota la vita della persona, come quella realtà interiore attraverso la quale l'io si percepisce come io, cioè ha piena autocoscienza di sé e, proprio per questo, può decidere di sé.
D'altra parte, il rilievo che le diverse scienze umane attribuiscono ai condizionamenti consente di prendere in considerazione la complessità della coscienza nelle sue molteplici stratificazioni, il fatto che essa sia la risultante dell'interazione di elementi diversi, con diversa influenza sull'elaborazione delle decisioni. Fondamentale è, in proposito, l'apporto della psicanalisi, che ha ribaltato la prospettiva tradizionale di lettura della coscienza, opponendo a una concezione di stampo illuminista che la riduceva a pura espressione della razionalità umana (voce della ragione), una concezione, altrettanto riduttiva (e unilaterale) ma non per questo esente da aspetti di verità, che la considera prodotto di un insieme di pulsioni istintuali, le quali agiscono al di là del controllo conoscitivo e volontario dell'uomo
(voce dell'inconscio o del subconscio). Ma altrettanto fondamentali sono i contributi della ricerca sociologica e culturale, che ha concorso a storicizzare (e a contestualizzare) la dimensione razionale della coscienza, mettendo in luce il peso consistente che rivestono, nel suo configurarsi concreto, le strutture sociali e il costume del tempo e dell'area geografica cui si appartiene.
Dall'insieme di questi dati emerge dunque la necessità di una ridefinizione della coscienza che, salvaguardandone la fondamentale unità, si apra alle provocazioni che derivano dalle diverse scienze umane, prendendo consapevolezza della strutturale complessità che la contraddistingue e stimolando l'attivazione di processi volti a integrare positivamente i diversi livelli che la compongono per evitare forme di prevaricazione dispotica, che sono all'origine di pesanti frustrazioni. Si pensi ai delicati equilibri (mai determinabili una volta per tutte) tra razionalità e inconscio, e perciò all'importanza che riveste nella valutazione dei comportamenti l'attenzione ai meccanismi che agiscono sotterraneamente sulle scelte – spesso al di là delle motivazioni che è possibile razionalizzare esistono, dietro le azioni, motivazioni altrettanto (o ancor più) decisive che rimangono indecifrabili, perché legate a fenomeni impulsivi sui quali non è possibile attivare forme dirette di riflessione – o alla necessità di un'educazione della coscienza che faccia realisticamente i conti con la presenza di forze diverse e le incanali, armonizzandole, verso obiettivi di piena realizzazione umana.
La coscienza morale risulta pertanto frutto di un itinerario, che si è sviluppato per fasi successive – l'analisi fenomenologica ha messo in evidenza, al riguardo, il passaggio dal dominio esterno a una progressiva interiorizzazione – e che viene, in qualche misura, ripercorso da ciascun soggetto; ma risulta soprattutto espressione di una soggettività, che ha le sue radici nelle profondità dell'io e come tale è irriducibile ai semplici fattori esterni, e che tuttavia, in virtù del suo essere concretamente situata, si riveste (e non può che rivestirsi) dei connotati sociali e culturali propri del tempo storico in cui prende forma.
4. Il primato della coscienza nella vita morale
L'altra acquisizione, che viene dalla cultura moderna e contemporanea, è costituita dall'assegnazione alla coscienza di un primato assoluto nell'ambito dell'agire morale. A ben guardare tale acquisizione non è nuova: l'affermazione che la coscienza è la norma prossima (o ultima, e dunque decisiva) dell'agire morale è sempre stata presente nella tradizione etica, tanto laica che cristiana. Il rimando all'interiorità, e perciò alla responsabilità soggettiva, come a ciò che conferisce senso all'agire è - da Socrate in poi - costantemente riproposto come pilastro fondamentale dello strutturarsi della moralità; quest'ultima appartiene infatti essenzialmente al soggetto, allo spazio della sua libera decisione, e può essere colta solo imperfettamente analizzando il contenuto degli atti, nel quale si esprime più o meno bene (e comunque in modo sempre parziale) l'intenzionalità profonda che li anima. D'altra parte, la teologia morale cattolica ha costantemente ribadito l'esistenza dei diritti inalienabili della coscienza invincibilmente erronea, la legittimità cioè, e persino il dovere morale, del soggetto di aderire a essa, nonostante l'aperto contrasto con l'ordine morale oggettivo, laddove l'erroneità non è dovuta a cattiva volontà o a disimpegno.
A tali enunciazioni di principio non è sempre corrisposta - è doveroso riconoscerlo - la produzione di un modello etico conseguente. Anzi il modello della «casuistica», che ha preso forma nell'ambito del cattolicesimo con l'avvento della manualistica agli inizi del XVII secolo, è contrassegnato dall'attenzione prevalente (e talora persino esclusiva) al contenuto materiale degli atti e dalla determinazione dell'eticità sulla base della loro conformità o meno alla legge morale. La «morale degli atti» (così viene spesso definita) prescinde dal rapporto che essi istituiscono con il mondo interiore del soggetto, cioè con le intenzionalità, le finalità e il grado di autocoscienza e di libertà che a essi soggiace e che rende ragione del loro più autentico significato. Pur rimanendo teoricamente inalterato il riferimento alle tradizionali fonti della moralità - oggetto, fine e circostanze - ciò che occupa in realtà il primo posto è l'oggetto; mentre lo stesso richiamo alla coscienza - si pensi all'attualità che assumono i casus conscientiae - ha soltanto la funzione di favorire l'applicazione di formule predefinite al singolo soggetto (mediante un processo rigorosamente deduttivo), ignorando l'unicità (e dunque l'impossibilità di omologazione) delle diverse situazioni individuali.
Al superamento di questa atomizzazione dell'agire, che lo priva delle sue dimensioni propriamente umane, ha fortunatamente contribuito, soprattutto dopo il Vaticano II, l'affermarsi di un modello di etica formale-personale o formale-esistenziale, che, reinterpretando in chiave antropologica l'agire morale come espressione della persona nel suo farsi storico a partire da una progettualità globale - è sufficiente richiamare l'importanza assegnata alla categoria di opzione fondamentale - e restituendo valore agli atteggiamenti di fondo prima ancora (e più ancora) che agli atti e ai comportamenti, fa della coscienza il luogo privilegiato del giudizio e della decisione morale.
Si è già ricordato come questa prospettiva rischi, nell'attuale contesto culturale caratterizzato dal prevalere di logiche individualiste, di sfociare nel soggettivismo e nel relativismo. Il «politeismo dei valori», segnalato da Max Weber come effetto della secolarizzazione, ha assunto proporzioni sempre più accentuate sotto la spinta di un marcato pluralismo culturale (oggi ulteriormente ingigantito dal fenomeno della multiculturalità), i sistemi valoriali tendono a moltiplicarsi a dismisura e a diventare reciprocamente non comunicanti, fino a livelli di assoluta incompatibilità e conflittualità; il che rende sempre più difficile la convergenza attorno a «evidenze» etiche comuni, necessarie al corretto articolarsi della convivenza civile. Fortunatamente, accanto a questa linea di tendenza (e in alternativa a essa), è venuta sviluppandosi, in questi ultimi decenni, grazie al contributo determinante di alcuni filoni della filosofia contemporanea, in particolare quello fenomenologico-esistenziale e quello del «pensiero ebraico» (è d'obbligo ricordare in proposito autori come Buber, Lévinas, Rosenzweig), un'attenzione privilegiata alla «persona», e perciò alla dimensione relazionale, considerata come dimensione costitutiva della soggettività umana. Nel contesto di questa visione la coscienza ricupera il proprio rapporto con l'aspetto oggettivo della moralità, non mediante il riferimento a un dato esterno, che si impone con la forza dell'obbligazione, ma acquisendo piena consapevolezza del proprio statuto relazionale, in virtù del quale ogni decisione morale passa attraverso il rispetto degli altri e del mondo - alla definizione delle modalità che rendono effettivo tale rispetto sono funzionali i valori e le norme - e diviene autentica nella misura in cui favorisce la crescita delle relazioni.
Al di là dei limiti rilevati, riconducibili alla doppia (e opposta) tentazione di incorrere in forme di oggettivismo o di soggettivismo esasperate, si deve pertanto riconoscere che la cultura moderna e contemporanea ha fornito alla riflessione sulla coscienza fondamentali indicazioni, che consentono di ricuperarne l'importanza per la vita morale ma anche (e soprattutto) di definirne i contorni, restituendole il significato di ambito in cui la moralità acquisisce pienezza di senso. Senza per questo negare i condizionamenti, cui essa inevitabilmente soggiace, ma spingendola ad aprirsi a un permanente confronto con il mondo dei valori, mediante i quali il bene riceve consistenza reale nei vari contesti in cui l'agire umano si dispiega.
Credere Oggi 22 (2/2002) n. 128, 5-14