Nuova cultura,
nuove richieste rituali:
sfide per la Chiesa
Louis-Marie Chauvet
I mutamenti attuali che investono la vita umana (il suo allungamento, il delinearsi di nuove soglie ecc.) pongono alle chiese cristiane questioni inedite. Questioni, in ogni caso, cui non si può fornire una risposta appellandosi semplicemente alla tradizione, essendo esse sconosciute fino a un passato recentissimo. Fra tali questioni, quelle relative ai riti di passaggio assumono una particolare importanza: su questi riti infatti le mutazioni in corso esercitano un impatto assai forte. Nel mio articolo vorrei in primo luogo 1) richiamare l'importanza antropologica e sociale dei "riti di passaggio", prima di analizzare poi 2) in che senso la loro "ricomposizione" (più che la loro scomparsa) possa costituire un'opportunità dal punto di vista della fede cristiana; proporrò infine 3) una riflessione sulle richieste rivolte alla chiesa, quelle perlomeno che è possibile osservare in Francia, riservando una particolare attenzione, secondo il desiderio degli editor della rivista, a ciò che riguarda il matrimonio.
SEGNI DI RICONOSCIMENTO NECESSARI
Segni di riconoscimento universali nelle quattro stagioni della vita
Alcuni fatti umani e sociali pongono questioni antropologiche e filosofiche fondamentali. Pensiamo qui particolarmente a fatti che nulla impone a priori e che pure appaiono universali. È questo il caso, in particolare, della proibizione dell'incesto [1]. Lo stesso vale per i "riti di passaggio" nelle quattro "stagioni" della vita umana (nascita, adolescenza, matrimonio, morte). C'è in realtà di che stupirsi: come è possibile che dappertutto, a quel che sembra, e senza doversi "copiare" reciprocamente, le società umane, tanto diverse nella struttura delle loro lingue e nell'articolazione semantica del mondo che ne risulta, abbiano avvertito la necessità di "inventare" questo tipo di riti nei quattro momenti suddetti? Questa universalità ha un significato antropologico. Significato che è da cercare in riferimento al duplice "passaggio" che tali riti permettono: passaggio da un semplice fatto di natura a un evento di cultura; e passaggio da uno statuto a un altro. Chiariamo brevemente. Il processo biologico che porta alla nascita è lo stesso per il piccolo d'uomo e per il piccolo d'animale. Ma l'umanità si caratterizza precisamente per il fatto che non sopporta di lasciare tale evento al suo stato bruto di natura: deve dargli senso, e nelle società tradizionali lo fa con la donazione di un nome; una volta nominato, il "senza-nome" (come è letteralmente designato in numerose etnie africane prima di questa cerimonia) accede al primo grado di quel riconoscimento sociale senza il quale non può diventare "soggetto".
Lo stesso tipo di duplice "passaggio" vale per i riti di iniziazione, il matrimonio e i funerali. Consideriamo l'esempio del matrimonio. In una società tradizionale, X e Y, un giovane uomo e una giovane donna, vivevano nel loro villaggio con uno statuto ben definito: appartenenza a una certa classe d'età, a una certa struttura di parentela, a una determinata funzione sociale ecc. A un certo punto i due si stanno per sposare - o meglio, li si sta per sposare, perché in tutte le società che ci hanno preceduto si è sposati dal gruppo (i capi del clan, del lignaggio, della famiglia) in funzione non dell'amore che i due provano l'uno per l'altro, ma in funzione soprattutto dell'interesse (economico, politico...) della "casa". L'analogia biologica del corpo applicata al "corpo sociale", anche se resta sempre un'analogia, permette di far capire abbastanza bene ciò che comporta il lungo e complesso rituale del matrimonio che si sta per celebrare [2]. Questo matrimonio infatti, con le tensioni o anche con le rivalità che instaura (tra uomini e donne, tra il gruppo della ragazza e quello del giovane, poiché, per parlare in linguaggio strutturalista alla maniera di Cl. Lévi-Strauss, una donna viene strappata da una parte al gruppo delle donne, dall'altra al suo gruppo di appartenenza), mira a permettere la "digestione" da parte del "corpo" sociale della nuova "cellula" che si sta creando: troppo estranea al corpo sociale in un primo tempo, essa tende, grazie al rituale e a tutta la simbolica sociale e culturale messa in atto, ad essere da esso "assimilata" per diventare una "cellula" attiva e produttiva al suo servizio, in particolare mettendo al mondo dei bambini di "buon ceppo" che permetteranno al gruppo di perpetuarsi felicemente. Così X e Y sono ormai riconosciuti nel loro nuovo statuto di coppia in quanto il matrimonio, da questo punto di vista, non è altro che il riconoscimento della coppia in quanto tale, con relativi diritti e doveri; e la loro unione ha valore sociale, non è riducibile a un semplice "accoppiamento" naturale. Certo, le forme di tale riconoscimento sono altrettanto varie quanto lo sono le società: tra il matrimonio delle società tradizionali che abbiamo appena evocato e un matrimonio religioso solenne a Notre Dame di Parigi o un matrimonio "puro e semplice" davanti al sindaco le differenze sono notevoli, ma il processo è comunque il medesimo.
Ebbene, il fatto che tali pratiche siano universali lascia intendere che non si sono create casualmente (per esempio, solo per "far festa"), ma che sono strutturanti di ogni gruppo sociale e, ancor più fondamentalmente, dell'umanità in quanto tale. Quanto al matrimonio, per rimanere su tale esempio, si tratta non solo della necessità di regolare la sessualità sul piano sociale, il che è sostanziale per la vita della società, ma anche di far accedere questa stessa sessualità al piano simbolico dove si ritiene che l'alleanza coniugale sia altro rispetto a una semplice unione di un maschio e di una femmina al fine di perpetuare la specie.
Segni di riconoscimento maltrattati al giorno d'oggi
La modernità attuale sta in realtà sconvolgendo a questo proposito i punti di riferimento tradizionali. Certo, i nostri tradizionali riti di passaggio continuano a celebrarsi. Oggi in Francia, per esempio, la richiesta di battesimo dei bambini piccoli resta ancora relativamente forte, anche se siamo attualmente più vicini al 50% che all'80% degli anni Sessanta; lo stesso si può dire per la "professione di fede", verso i dodici anni, e anche per il matrimonio e i funerali religiosi... Se tali richieste si mantengono a un livello che si può considerare relativamente elevato, malgrado un sensibile calo, è soprattutto perché esse muovono dalle istanze più "arcaiche" dell'umanità e perché la chiesa è l'istituzione tradizionalmente riconosciuta come abilitata a "sacralizzare" queste feste stagionali. D'altro canto, il fatto che la richiesta venga da tanto lontano permette in un certo modo di spiegare perché genitori che non frequentano quasi mai la chiesa la domenica ci tengano (e con quale determinazione, a volte!) a che il loro bambino sia battezzato e permette di spiegare come in Francia la "professione di fede" (chiamata fino a qualche tempo fa "comunione solenne") abbia costituito alcuni decenni fa (fatto decisamente meno vero oggi) l'"uscita solenne" dalla chiesa: ciò non significa che quegli adolescenti abbiano preparato e vissuto questa festa senza impegnarvi il meglio di sé, ma che, nella misura in cui il rito è vissuto inconsciamente come quello dell'uscita ufficiale dall'"infanzia", ci si conforma ormai, nel campo religioso, ai "grandi" (giovani e adulti).
Malgrado tutto, però, occorre riconoscere che i segni di riconoscimento necessari che strutturano la vita umana sono oggi piuttosto in crisi. È questa una realtà che mette necessariamente in questione un certo numero di proposte della chiesa. Non si può però dire che la battaglia sia perduta. E questo per due ragioni sostanziali: 1) Per una ragione sociale: invece di ritenere che i riti di passaggio tradizionali siano in via di sparizione, si può pensare, con Daniele Hervieu-Léger e altri sociologi della religione che, proprio come la religione, essi siano in fase di ricomposizione [3]. È questa in ogni caso l'ipotesi di lavoro che noi seguiamo. 2) Per una ragione propriamente teologica: la fede cristiana non è, per sua natura, legata ai riti delle stagioni umane. Così la nascita in Cristo può essere celebrata nel battesimo ad ogni età; se il battesimo dei bambini si è generalizzato a partire dalla fine dell'Antichità, fino a diventare nel Medioevo il rito di sacralizzazione della nascita che era necessario celebrare quam primum (XII secolo), a rischio di sanzioni, ciò dipende da varie ragioni, nessuna delle quali s'impone di per sé alla fede. Allo stesso modo, non sembra che l'uscita dall'infanzia sia stata particolarmente sottolineata prima dell'Evo moderno, e se la cresima ha avuto a volte questo ruolo, ciò è avvenuto in funzione di una teologia della "crescita" che ha spinto a differirla in certi paesi verso l'età di dodici anni e che non aveva molto a che vedere con il rito per cui si imprimeva il "sigillo dello Spirito" su chi era appena stato battezzato (neonati compresi)... Quanto al matrimonio, per il semplice fatto che, prima del concilio di Trento (Decreto Tametsi, 1563), la sua celebrazione in chiesa non era affatto obbligatoria, il "passaggio" che implicava era compiuto in cerimonie consuetudinarie, variabili quanto lo erano le regioni in Europa. Lo stesso si può dire dell'unzione degli infermi, impostasi nel Medioevo come estrema unzione. Sempre su questo piano, è stato probabilmente il fatto che la morte richiede di essere ritualizzata per essere umanizzata a contribuire, indipendentemente dalle ragioni teologiche che si sono invocate, a "fissarla" al momento della morte, con tutti i timori che l'arrivo del prete per "amministrarla" al morente poteva suscitare [4].
SEGNI DI RICONOSCIMENTO IN RICOMPOSIZIONE: UNA POSSIBILE OPPORTUNITÀ PER LA CHIESA?
Contrariamente a quanto avviene nelle società tradizionali, nella nostra società occidentale (post)moderna le identificazioni sono "deboli" (molles). Non essendo date soltanto (anche se ciò può verificarsi) e nemmeno in primo luogo per nascita, esse si "aggiustano" tramite reti relazionali tanto professionali quanto locali, tanto sportive o artistiche quanto familiari. Si è venuta in tal modo a formare, sul piano religioso, una specie di nebulosa "New Age" di cui si fatica spesso a cogliere i contorni: un fondo di cristianesimo, un tocco di buddhismo, un pizzico di islam, il tutto condito con una non trascurabile dose di scetticismo nei confronti delle religioni, che avrebbero tutte lo stesso valore (il che significa che nessuna vale veramente...).
Di conseguenza, il fatto che le identificazioni con il cristianesimo, in Francia come altrove, appaiano oggi piuttosto "deboli" non deve stupire: è solo il riflesso di un problema generale di mescolamento e di ricomposizione delle identità che va ben oltre il campo religioso, anche se questo ne costituisce forse l'elemento più visibile. Ciò costituisce pur sempre un rischio nei confronti della fede, che è fondamentalmente un moto di assenso (adsensus) a Dio come persona vivente, assenso che si esprime in un "credo in te" («Credo in...»), di cui l'intera tradizione teologica ha sottolineato la differenza con la semplice adesione a un'idea. Per dirla in modo ancor più semplice, il fatto che nel cristianesimo il primo sostantivo che rende il verbo "credere" sia "fede" e non semplicemente "credenza" mostra la difficoltà in cui viene a trovarsi un'identità religiosa mal definita, troppo esitante, o una persona che si senta troppo "divisa" in tal senso...
Tuttavia, la ricomposizione di cui parliamo non è forse anche una possibile opportunità dal punto di vista cristiano? Di fatto la fede cristiana non mostra buona salute se non a condizione di essere vissuta in una tensione disagevole. Se, come ogni religione, essa richiede di essere ereditata da una tradizione, essa però la assume in modo propriamente cristiano solo mediante la libertà critica implicita nel «Venite e vedrete» o nel «Se vuoi...» di Gesù. Se, come ogni religione, essa inculca un certo numero di segni di riconoscimento che le sono propri e identifica tramite particolari segni di appartenenza (Scritture, confessione di fede, sacramenti, ministeri...), essa li vive però in modo propriamente cristiano solo trascendendoli verso l'universale di uno Spirito che, come il vento, «soffia dove vuole»: diventare cristiano non significa essere infeudato in un clan, ma diventare fratello di ogni uomo in Gesù Cristo. Se, come ogni religione, la fede è caratterizzata da un momento (nel caso, quello in cui si è ricevuto il sacramento dell'iniziazione) a partire dal quale si può dichiarare a qualcuno che lui o che lei è "pienamente cristiano /a" (pienamente, sul piano simbolico o sacramentale), essa ricorda tuttavia simultaneamente che questo essere simbolico assume un interesse propriamente cristiano solo nella misura in cui richiede un "divenire": «Cristiani non si nasce, lo si diventa» (Tertulliano), al punto che lo si è veramente solo diventandolo incessantemente... Tutto ciò ci ricorda che i segni distintivi della chiesa rispetto alle altre religioni devono essere tanto più fortemente affermati in quanto fanno segno in direzione di un Altro da sé. Essi di conseguenza sono fatti per essere superati in direzione di quel regno di Dio che trascende la chiesa in ogni senso. Per usare le parole dell'agnostico Marcel Gauchet, la chiesa si fonda su una contraddizione interna: perché è testimone di un Dio così Altro (un Dio che, pur rimanendo pienamente Dio, si fa pienamente uomo, «senza confusione né separazione», sottolinea Calcedonia) che può essere conosciuto solo attraverso la rivelazione, non potendo essa pretendere di racchiuderlo nelle sue istituzioni, sia pure dogmatiche al massimo grado; ma precisamente, essendo questo mistero talmente inaudito, essa può preservarlo (come mostrano i grandi dibattiti trinitari e cristologici dei primi cinque secoli) solo tramite una regolazione ministeriale rigorosa, più rigorosa in ogni caso che in qualsiasi altra religione. La prima ragione favorisce la ricerca costante, con i suoi rischi di derive eretiche, essendo il Dio dei cristiani sempre più "Altro"; la seconda richiede una dogmatica fermissima: «Interiorità della fede e autorità del dogma vanno di vari passo, nel sistema, e si giustificano reciprocamente» [5]. Tutto ciò - è chiaro - determina l'immensa debolezza del cristianesimo (nessuna verità "indiscutibile" che basterebbe ripetere) e allo stesso tempo la sua non meno immensa forza (un cammino d'avvenire è sempre possibile per ognuno in rapporto al vangelo). In ogni caso, ci sono validi motivi per pensare che la ricomposizione attuale delle identità, anche se non è senza rischi per la fede cristiana, possa costituire per essa una reale opportunità. Per questo motivo le nuove richieste rituali che, sotto la spinta dell'attuale modernità, numerosi cristiani rivolgono alla chiesa (o meglio alle chiese) sono da accogliere come una possibile opportunità per loro.
NUOVE RICHIESTE RITUALI RIVOLTE ALLA CHIESA
La novità da accogliere è duplice: essa riguarda infatti tanto la forma quanto l'oggetto. Consideriamo successivamente questi due aspetti.
1) A proposito della forma, in primo luogo, numerose persone (in Francia in ogni caso) auspicano celebrazioni che siano il più possibile "su misura". L'individualismo caratteristico della nostra attuale modernità e il valore di "personalizzazione" promosso dalla società dei consumi contribuiscono in tal senso. Le celebrazioni di battesimo di bambini, di matrimonio o di funerali sono effettivamente sempre più personalizzate. Durante la preparazione laici, diaconi e preti investono sempre più i loro sforzi in tempo e proposte affinché le persone avvertano che è proprio la loro cerimonia che si sta per celebrare. Sarebbe del resto un grave errore dolersene. Per almeno due ragioni. La prima è implicita in quanto abbiamo sviluppato in precedenza, e cioè che per la fede cristiana la "ricomposizione" di una liturgia, in vista di una migliore appropriazione da parte di persone la cui identità non è più riducibile a un mero dato di fatto, può costituire una vera opportunità. La seconda ragione è che il lavoro richiesto da un tale "adattamento" è spesso occasione di una vera evangelizzazione, come dimostrano tanti incontri pastorali di preparazione...
Ciò richiede evidentemente una grande vigilanza. In primo luogo perché, nella liturgia come nell'evangelizzazione diretta, "adattare" non significa tagliare con tanta acqua il "vino nuovo" del vangelo da farlo diventare un intruglio senza sapore; significa invece saper dare a ognuno la dose di "vino nuovo" che gli conviene tenendo conto del suo percorso di fede. È sempre lo stesso vino inebriante di Cana che si deve far gustare o la stessa potenza stupefacente del vangelo che si deve far provare tramite la liturgia, ma occorre farlo con discernimento, soprattutto per evitare possibili effetti euforici o disforici. In secondo luogo, grande è il rischio, volendo troppo "adattare" e "personalizzare", di elaborare un rituale che, invece di incidere profondamente sul soggetto (è questa una delle funzioni fondamentali del rituale, nel senso che le persone non hanno influenza su di esso, mentre è il rituale stesso, al contrario, con la forza della tradizione, ad imporsi), viene invece a rafforzare il narcisismo: la celebrazione sarà a tal punto a immagine delle persone che si limiterà a rinviare ai loro occhi e a quelli dei loro invitati la loro immagine abbellita... In tal caso siamo evidentemente all'opposto di quel "passaggio" con il Cristo o di quella conversione cui mira ogni liturgia cristiana.
La pastorale ha in comune con la politica il fatto di essere l'arte del possibile. Da un lato, non voler altro che il rituale stesso applicato alla lettera rischia di compromettere il bene spirituale delle persone, obiettivo di ogni liturgia e di ogni sacramento [6]. Si converrà tuttavia che i rituali attuali sono spesso più flessibili di quanto molti credono. Come dimostrano quelli dell'iniziazione cristiana, del matrimonio o dei funerali, o ancora un rituale come quello delle "benedizioni", essi consentono ampi adattamenti tanto nelle preghiere quanto nei riti stessi. A noi sembra che, nella maggior parte dei casi, l'adattamento auspicabile possa operarsi partendo da suggerimenti del rituale stesso, suggerimenti che ci paiono spesso di qualità assai migliore rispetto alle invenzioni creative di persone non sempre competenti... D'altro canto, tuttavia, non si può cedere demagogicamente alla tentazione del "su misura": in ogni caso, sembra necessario far vivere alle persone un'esperienza di rinuncia, mediazione fondamentale di ogni esperienza teologale della gratuità.
Prendiamo l'esempio del matrimonio. Oggi in Francia coloro che chiedono il matrimonio religioso sceglierebbero volentieri non solo i loro testi biblici, ma anche testi "profani" (soprattutto poesie) e la musica "che piace"; sceglierebbero anche la chiesa che "hanno in mente" (magari quella «di un paesello sperduto, con il campanile che si specchia nell'acqua», come cantava anni fa Tino Rossi all'intera Francia commossa fino alle lacrime) e anche il prete che "trovano simpatico"... Con un tocco ulteriore d'audacia potrebbero anche suggerire quanto deve durare la cerimonia per far quadrare perfettamente il rito con quanto precede (il matrimonio civile in municipio) e con i festeggiamenti familiari che seguono... Tuttavia, partendo da qui, si può fare un vero, lavoro di evangelizzazione: "essi" potranno scoprire un volto della chiesa che ignoravano, dovendo trattare tanto con laici o diaconi quanto con preti; se chiedono un testo non biblico (stile 11 profeta di Khalil Gibran), non sarà il caso di negarglielo, anzi lo si consiglierà per permettere all'assemblea di entrare più facilmente nel "mistero" della celebrazione, ma si chiederà agli sposi di farlo leggere come qualcosa di diverso da una lettura della "Parola di Dio" e di farlo leggere da un luogo meno significativo dell'ambone; quanto ai testi biblici, toccherà certo a loro la scelta, ma li si aiuterà a superare quel semplicistico e ingannevole sentimento che spinge a dire: «E proprio quello che stiamo vivendo!» (soprattutto in riferimento al Cantico dei cantici); si pronuncerà anche la professione di fede della chiesa: certo, questo vecchio testo che è il Credo li trascende ampiamente, in particolare quando uno di loro (caso frequente nella Francia attuale) non è battezzato, ma questa scelta fa ben capire in che clima di fede la chiesa chiede di celebrare un sacramento ecc.
Lo si capisce da questi pochi esempi: la chiesa mancherebbe l'"inculturazione"della fede richiesta dalla mutazione culturale attuale se non accogliesse, e con simpatia («Eccoli qui: ah, che bella opportunità!», e non più: «Eccoli qui: ah, che incoscienza!»), la loro richiesta di "personalizzazione"; ma la chiesa lo fa in modo veramente cristiano solo se impone simultaneamente una distanza dai loro riflessi immediati: una distanza che è invito alla rinuncia al potere o al possesso e che instaura simbolicamente lo spazio di gratuità in cui Dio può av-venire e in cui può operarsi la conversione...
2) Le nuove richieste, dicevamo, non riguardano unicamente la forma delle celebrazioni che competono alla chiesa: toccano l'oggetto stesso. Rimanendo al caso del matrimonio, si sono registrate, almeno in Francia, due ondate successive. La prima, degli anni Settanta-Ottanta, era provocata dagli stessi operatori pastorali. Di fronte allo scarto esistente tra domanda delle persone (richiesta di un rito di passaggio) e offerta della chiesa (offerta di un sacramento della fede), essi hanno tentato di proporre celebrazioni senza scambio dei consensi, dunque esplicitamente non sacramentali. Ciò avrebbe dovuto garantire, si pensava, un più alto grado di verità della celebrazione e fondare la speranza di un orientamento delle persone coinvolte verso una futura celebrazione sacramentale. L'esperienza, in alcuni casi promossa da un vescovo (per es. mons. Le Bourgeois, vescovo di Autun), non ha più un seguito oggi. Da una parte infatti, nonostante tutti i chiarimenti che si potevano offrire, essa creava un'eccessiva ambiguità nella mente dei cristiani rispetto allo statuto preciso della celebrazione: la sostanza, agli occhi delle famiglie, non era forse che la coppia era "stata in chiesa" e in presenza di un prete? D'altra parte, quel tipo di soluzione non era sufficientemente "stimolante" in rapporto alla fede cristiana per suscitare nelle coppie un reale desiderio di approfondire la fede cristiana e di arrivare un giorno al sacramento.
La seconda ondata è quella cui assistiamo oggi. Certe persone chiedono alla chiesa una "cerimonia" di "preghiera" o di "benedizione" in occasione di un qualche evento della loro vita. Registriamo ai nostri giorni un incremento delle benedizioni di fidanzamento, anche se, per lo più, i due partner coabitano già. Del resto il rituale prevede questo tipo di rito. Nella pratica pastorale oggi vigente nella regione parigina, abbiamo messo a punto una preparazione al matrimonio relativamente lunga: quindici-venti coppie si incontrano una volta al mese per circa sei mesi. Siamo noi (laici e preti) a proporre una celebrazione del loro "fidanzamento" in chiesa durante l'assemblea domenicale. Il beneficio è reale per tutti: per le coppie, che nella maggior parte dei casi accettano volentieri la proposta e che per l'occasione vivono, felicemente, un'esperienza ecclesiale che non sospettavano; e anche per la comunità parrocchiale, che si sente da parte sua investita della responsabilità di preparazione al matrimonio ed è in tal modo stimolata nel suo dinamismo spirituale e missionario. Lo stesso avviene pressapoco per gli anniversari di nozze (25, 40, 50 e 60 anni di matrimonio): sempre più numerose sono le coppie che desiderano una "preghiera" la domenica in chiesa, il giorno in cui celebrano in famiglia questo anniversario. Anche in tal caso il beneficio non ricade solo sulle persone direttamente interessate, ma su tutta la comunità parrocchiale.
Certe richieste sono più inedite. Vi sono in primo luogo quelle di "preghiera" in occasione di un matrimonio civile quando la coppia, soprattutto nel caso in cui uno dei due è divorziato, non può sposarsi in chiesa. Come sappiamo, è questa un'esperienza assai difficile da gestire per i pastori. I mutamenti culturali in corso rendono sempre più difficoltosa l'accettazione della posizione della chiesa e spesso ne risulta una rottura nei suoi confronti delle persone divorziate. Come alcuni altri sacerdoti, noi accompagniamo, nei limiti del possibile, tali persone. Proponiamo loro una cerimonia di preghiera in una data diversa da quella del loro matrimonio civile e fuori della chiesa parrocchiale. Le mettiamo in contatto con altre persone che hanno vissuto la stessa esperienza e che, poi, hanno compiuto un cammino più o meno lungo... Ne consegue che la pastorale dei divorziati (generalmente risposati) non è ormai più marginale nella pastorale parrocchiale, ma è inserita proprio nel cuore della stessa; essa è sostenuta dalla preghiera della comunità, che se ne sente (anche in tal caso) stimolata.
L'allungamento della durata della vita crea d'altro canto una situazione inedita: rare solo fino a cinquant'anni fa, le coppie che festeggiano le nozze d'oro o di diamante sono oggi assai numerose... Ma non tutti, è chiaro, riescono a vivere cinquanta, sessant'anni o anche più di vita comune. Si registrano dunque richieste di "matrimonio" di due persone vedove di un'età tra i sessanta e gli ottant'anni... Evidentemente un matrimonio a questa età non può avere la stessa portata teologica di un matrimonio celebrato a trent'anni. Si avverte dunque la necessità di una nuova riflessione in tal senso, che modifichi in modo sensibile la "teologica" classica del matrimonio consentendo di mettere in luce gli elementi positivi riguardanti tanto la vita spirituale delle persone in causa, quanto la chiesa che può essere sollecitata da questa situazione finora assai rara; situazione che, in ogni caso, non poteva essere presa in considerazione in quanto tale nella tradizione teologica dei secoli scorsi. Ci si chiederà in particolare che cosa diventi il triplice "bene" del matrimonio: essendo la proles praticamente esclusa, l'accento si sposta molto di più sulla fides, particolarmente nella sua dimensione di sostegno vicendevole in un'età in cui i problemi di salute si fanno frequenti e in cui la dipendenza dell'uno dall'altro diventa maggiore; ci si dovrebbe chiedere che avviene allora del sacramentum, dunque del rapporto tra questa situazione e l'amore fedele di Cristo per la chiesa secondo Ef 5.
Ci sembra in ogni caso che le trasformazioni attuali legate all'allungamento della vita e le mutazioni rispetto alle grandi tappe che la scandiscono richiedano numerosi adattamenti; adattamenti che, per lo più, pongono problemi che non riguardano tanto la teologia quanto la prudenza pastorale. L'attenzione al destino individuale di ognuno è sempre più sollecitata dalla cultura attuale. Perché le nostre parrocchie non potrebbero essere maggiormente vigilanti in tal senso? Il Benedizionale apre a questo proposito numerose possibilità... Nello spirito di questo rituale, sono possibili tanti altri adattamenti. Perché non proporre, una domenica, un tempo di preghiera per i nuovi pensionati, tenuto conto dell'importanza di questa tappa della loro vita, compreso l'impatto che ha tale evento sulla vita di coppia? Non si potrebbe fare lo stesso per i giovani che hanno deciso di partire per un anno o due per un lavoro di cooperazione in Africa? O per le coppie che si preparano a trasferirsi all'estero per ragioni professionali? L'unzione degli infermi non potrebbe essere amministrata a qualche coppia in età avanzata, considerando la loro difficoltà a sostenersi reciprocamente quando la salute diventa vacillante? E così via... È chiaro che se prolungassimo la riflessione prendendo in considerazione, per esempio, la pastorale della salute, si potrebbero intravedere molteplici nuove aperture rituali, particolarmente in relazione all'inizio della vita (in gravidanza) e alla sua fine...
Ricordiamo la formula del concilio di Trento (citato in nota 6), formula che si può leggere come una massima: fatta salva la "sostanza" dei sacramenti (che dipende dalla loro istituzione da parte di Dio), la chiesa ha ogni potere sul modo di dispensarli, essendo scontato che l'applicazione di tale potere non ha altra finalità che «la maggiore utilità per chi li riceve... a seconda delle circostanze, dei tempi e dei luoghi»... Ciò che vale per i sacramenti propriamente detti, vale a maggior ragione per l'insieme dei riti che la chiesa propone o può proporre. In ogni caso è opportuno porsi oggi in modo più convinto la questione: che cosa si potrebbe proporre nei rituali liturgici per meglio onorare il "bene spirituale" delle persone nella situazione attuale della società e della cultura? Vi sono casi in cui la proposta richiede un buon discernimento teologico e pastorale a motivo delle esigenze implicite nell'istanza che le è collaterale (per esempio il sacramento del matrimonio). Ma vi sono anche casi, molto più numerosi, in cui queste esigenze hanno una minore rilevanza dal punto di vista strettamente teologico e in cui si aprono ampie possibilità. Se oggi tali proposte sono carenti in Francia, ciò non dipende generalmente da ragioni di tipo dottrinale, ma da ragioni molto più pratiche: la fatica di molti preti (ma a volte anche dei laici) che, così poco numerosi e anziani, sono troppo presi dalla gestione dei problemi immediati per avere voglia e tempo di immaginare dell'altro... L'inculturazione del vangelo nella nostra società occidentale post-moderna richiede tuttavia questo sforzo di immaginazione.
NOTE
1 Cf. E HÉRITIER, Inceste, in P. BONTÉ - M. IZARD (edd.), Dictionnaire de l'ethnologie et de l'anthropologie, Presses Universitaires de France, Paris 1992, 347-350; CL. Ltvi-STRAuss, Les structures élémentaires de la parenté, Mouton, Paris - La Haye 19672 [trad. it., Le strutture elementari della parentela, a cura di A.M. Cirese, Feltrinelli, Milano 20031. Certo, se la regola è universale, le prescrizioni o determinazioni concrete sono particolari. Precisiamo: sembra che tale interdetto riguardi dappertutto il primo grado di parentela (padre/figlia, fratello/sorella...) e che sempre dappertutto si estenda oltre questo primo grado. Sotto questo secondo aspetto, l'interdetto varia quanto le culture: un certo tipo di matrimonio può essere vietato in un etnia e al contrario essere incoraggiato in un'altra... Non sembra possibile in ogni caso fondare tale interdetto su ragioni semplicemente biologiche (eugenetiche, per esempio). Non si vede come spiegarlo se non ricorrendo a ragioni simboliche... Indubbiamente Claude Lévi-Strauss aveva ragione a vedervi non solo l'unica regola con carattere d'universalità, ma «il fatto stesso della regola». Ciò significa che l'umanità si è formata a partire dall'atto di differire l'appagamento del desiderio sessuale con qualsiasi partner. È questa dunque, evidentemente, la Legge fondativa: legge della differenza, che è anche (non certo per caso) quella del linguaggio, il quale, come si sa, simbolizza il reale e lo rende parlante tramite rappresentanti linguistici.
2 Cf., per es., V. TURNER, Les tambours d'affliction, Gallimard, Paris 1972 [ed. orig., The Drums of Affliction. A Study of Religious Processes among the Ndembu of Zambia, Clarendon Press - International African Institute, Oxford 1968]. Si può vedere anche l'opera di una studiosa del folklore come M. SEGALEN, Amours et mariages de l'ancienne France, Berger-Levrault, Paris 1981.
3 Per es., D. HERVIEU-LÉGER, La religion pour mémoire, Cerf, Paris 1993 [trad. it., Religione e memoria, il Mulino, Bologna 1996].
4 I francesi penseranno qui necessariamente a Marcel Pagnol!
5 M. GAUCHET, Le désenchantement du monde. Une histoire politique de la religion, Gallimard, Paris 1985, 101 [trad. it., Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, Einaudi, Torino 1992, 100].
6 Cf. il dettato del concilio di Trento: «La Chiesa ha sempre avuto il potere di stabilire e mutare nella amministrazione dei sacramenti, fatta salva la loro sostanza, quegli elementi che ritenesse di maggiore utilità per chi li riceve o per la venerazione degli stessi sacramenti, a seconda delle circostanze, dei tempi e dei luoghi» (DS 1728).
(Da Conciliun 5/2007, pp. 33-47)