Roma,
città aperta e segreta
María Zambrano
Roma ha la ventura di apparire interamente aperta, interamente visibile e presente; fin dal momento in cui si arriva, Roma è lì, come pronta per essere percorsa, per essere vista, per essere abbracciata. Ma, quando il viaggiatore o il passeggero – o piuttosto il pellegrino – si ferma, comincia a rendersi conto che Roma è ermetica e segreta, e guardarla, come di solito si fa, così tutta intera, presente, significa in realtà vederla come una fotografia, che a volte si apre. E di fronte al turista distratto o anche al romano sicuro di sé, che crede di conoscere e di vivere la propria città, può aprirsi una crepa, un interstizio, un vuoto.
Roma ha anche la ventura di essere una città labirintica. Le città del Mediterraneo sono di solito sensuali, presenti, attive, risvegliano i sensi prima che possa formarsi il pensiero. Le città del Mediterraneo, di un certo gruppo, di una certa specie, sono principalmente, sì, richiamo per i sensi. Ma ci sono città labirintiche. Sono labirinti che bisogna percorrere. Sono, senza dubbio, riflessi o tracce di un'antica e vecchissima categoria di città mitica, del labirinto di Creta, e infatti nelle città mediterranee c'è anche la necessità del colosso, di qualcosa che si innalzi.
In Roma si dà tutto questo. È, insieme, aperta e labirintica. Bisognerebbe vederla in senso orizzontale, perché non è possibile rifiutare il suo abbraccio e la sua presenza, né è possibile, anche quando ci si vive, liberarsi della sensualità del suo cielo e della sua aria. Un'aria commestibile, si direbbe, perché a volte a Roma ci si sente come dentro un frutto; dentro una pesca, direi, per quel colore dorato che esiste anche in altre città, come Salamanca per esempio, o come la messicana Morelia, dove però non tenta, non si dirige al palato.
Roma è figlia di una Venere nutrice. Lì bisogna dar da mangiare. Tant'è che anche all'infinità di gatti che si nascondono, appaiono e riappaiono, famelici, gatte partorienti, gatti disperati con gli occhi luccicanti dalla fame, bisogna dar da mangiare; a Roma bisogna dar da mangiare, è la prima cosa da fare. Ma non bisogna soltanto dar da mangiare; bisogna anche darsi in pasto, perché a quanto pare, in fondo, ciò che Roma fa è partorire sempre di nuovo, partorire se stessa, partorire il suo colore, partorire la sua frutta, fiorire... Silvia era uno dei nomi segreti di Roma, che, come tutte le città antiche, aveva tre nomi: uno segreto; l'altro ufficiale; il terzo datole poi dagli ermeneuti e gli innamorati, come Adriano che in Roma poté leggere anche la parola amor. Ma Roma viene direttamente da Afrodite, cioè da Venere, attraverso Enea e Giulio Cesare.
Roma è amore, ma un amore che difficilmente può arrivare alla mistica, che difficilmente arriva all'amore intellettuale, che facilmente si espande e si nasconde anche: un amore che, paradossalmente, si può nascondere. Succede così con la vita e con la morte, a Roma. È una città eminentemente vitale, se tale parola si addicesse a Roma; non è vitale: è terribilmente viva, divoratrice. Ma c'è anche la morte, inevitabilmente: ci sono ancora il Circo e i luoghi del martirio; ci sono, soprattutto, le catacombe, la Roma da visitare, dove cristiani, pagani ed ebrei si confondono, fanno il possibile per distinguersi. Ossia, le catacombe, quando le si percorre, sono al tempo stesso come la radice di un campo di grano e come la radice di una morte immortale.
Lì, lungo le grandi vie consolari, i morti parlano. Ma, inoltre, come le città sacre dell'Africa, Roma ha le proprie confraternite. Non ci si può fare un'idea di Roma se non se ne conoscono le confraternite, che a volte si scoprono per caso nei loro rituali e nelle loro manifestazioni. Molti saranno passati per via san Giovanni Decollato o anche per la piccolissima strada della Misericordia, senza sapere, senza neanche sospettare cosa succeda nella chiesa che dà il nome alla via: qualcosa di straordinario, prodigioso e, naturalmente impensabile, almeno per la ortodossa mente ispanica.
La struttura sociale viva della città si conosce attraverso le confraternite. E anche attraverso quella specie di centri, le trattorie,' che in spagnolo chiameremmo tabernas, dove si riuniscono i vicini e dove a volte arriva qualcuno che gode di una certa autorità, ma non la ostenta, perché si tratta di un vero principe. Ed è un'altra stranezza che a Roma esistano ancora principi veri. O per lo meno esistevano quando ci vivevo, non molti anni fa. E parlavano con naturalezza con la gente del popolo, perché nel popolo avevano seguito, confidenti, servitori, seguaci e perché non c'era la distanza che stabilisce la proprietà. Roma non era, e forse non è ancora, una città proprietaria, cioè proprietà del capitalismo industriale.
Ma torniamo alle confraternite, perché vorrei parlare in dettaglio di quella singolarissima, già menzionata. Non è originaria di Roma, la confraternita di san Giovanni Decollato, che ha la sua festa nel calendario, o spero l'abbia ancora. Questa confraternita nacque a Firenze, e si sa per certo che vi apparteneva Michelangelo. E la nobiltà fiorentina. La sua occupazione e finalità era alleviare, come possibile, la sorte dei condannati dall'Inquisizione.
Si tratta, naturalmente, di una confraternita riconosciuta dalla Chiesa. Una confraternita di eterodossi senza dubbio ce ne sono state, avrebbe organizzato le proprie celebrazioni di nuovo nelle catacombe, o qua e là, in qualche angolo tra palazzi e trattorie.
Confraternita singolare, oserei dire unica, si dedicava proprio lì a consolare, ad assistere e, soprattutto, a descrivere gli ultimi tre giorni del condannato. Gli archivi della confraternita debbono essere immensi e vi si conserva, per esempio, quel che Giordano Bruno, per loro un condannato come un altro, sentì, disse, dichiarò negli ultimi tre giorni di vita, quando già si accendeva il rogo dove quell'uomo straordinario, esemplare tra i più eccelsi al mondo, sarebbe caduto, sarebbe arso come una fiaccola qualsiasi.
La statua di Giordano Bruno si trova, come ben si sa, a Campo de' Fiori, proprio nel punto dove venne bruciato vivo, perché in un luogo così bello si tenevano i roghi come all'epoca di Nerone, ma ora nel nome di un'altra fede. Di un'altra? O non si tratterà della necessità propria dell'essere umano occidentale, di far ardere corpi vivi, di non accontentarsi della fiamma dell'amore e nemmeno della fiamma dell'odio? Sicuramente sì, è la stessa necessità di veder ardere l'eterodosso – non il nemico: l'eterodosso –, il diverso, il distinto, chi abbia osato essere se stesso, pensare e sentire. Nel caso di Giordano Bruno, inoltre, si trattava di uno scrittore che, scrivendo in italiano, si esprimeva nella lingua più bella e aspra della verità.
Poi l'italiano si edulcorò, divenne mieloso, a misura che non diceva la verità. Io do questo giudizio sulla base di quanto mi assicurava Leonardo Cammarano, perché non conosco la lingua a tal punto. Ma conosco un poco lo spagnolo per sapere che, in effetti, la lingua della verità è spesso aspra, dura, mai dolce, perché la dolcezza non è segno di verità.
Nella confraternita di san Giovanni Decollato si conservano, dunque, gli atti di quel che Bruno dichiarò negli ultimi tre giorni. Che strana confraternita! Era formata dai nobili della città. La cerimonia a cui ho assistito era nella sede romana della confraternita che ha il suo centro a Firenze. Ora, siccome l'Inquisizione non funziona più, loro continuano a lavorare, cioè ad aiutare i prigionieri, soprattutto quelli che escono di prigione e si ritrovano con la libertà nel vuoto, nessuno li vuole, nessuno parla con loro, nessuno dà loro lavoro.
I pochi superstiti della confraternita si adoperano con ardore perché chi ha scontato la pena non ne porti il marchio sulla fronte, perché trovi un lavoro, o altrimenti per aprirgli un chiosco di fiori. Quante fioraie di Roma e di Firenze sono state in prigione! E sono state riscattate da questi nobili; pronuncio la parola con una certa enfasi, perché questo è essere nobili: occuparsi di lavare la macchia senza perdono ostentato.
La confraternita ha a Roma la sua cappella chiamata la Piccola Sistina, perché si dice sia stato lo stesso Michelangelo ad affrescarla. Non sono un critico d'arte, ma non mi pare, benché forse abbia dato qualche pennellata, disegnato il progetto, o qualcosa di simile. La confraternita celebra la sua festa due volte l'anno: nel giorno del suo eponimo che, se non ricordo male, è il 29 agosto, la festa della Decollazione, e, com'è naturale, nel giorno dei morti.
La chiesetta, che passerebbe inosservata in qualsiasi luogo, ma soprattutto a Roma dove è normale trovare in una piazza piccolissima due o tre chiese, ha un chiostro. Confesso di essere andata a vedere la chiesa perché ha uno dei cinque chiostri romanici di Roma. Andai, dunque, per vedere il chiostro. E mi accorsi che quel chiostro ha solo due lati di colonne; il terzo è completamente chiuso dall'edificio della Piccola Sistina, una cappella riservata ai congregati. E l'altro lato è chiuso da un edificio a due piani.
La chiesa è servita da spagnoli, dei francescani di Maiorca. In uno dei due lati di cui ho parlato c'era qualcosa che non ho avuto il coraggio di guardare: gli strumenti con cui si aiutavano i giustiziati, mi informò il frate che faceva da guida, le ceste dove si raccoglievano le teste, i ferri per rimuovere le braci. No, non ebbi il coraggio...
Nel chiostro, sui due lati che restano liberi, ci sono alcune tombe circolari. Sono pietre che lasciano una piccola scanalatura tra il vano che coprono e l'altra pietra del pavimento. Assistetti alla cerimonia con mia sorella Araceli e lo scrittore Elemire Zolla. Prima di tutto recitammo il santo rosario nella Piccola Sistina. Poi uscirono i confratelli con la croce alzata, con le stesse tonache del secolo XVI, con le stesse teste, con gli stessi profili. Erano gli stessi: raccolti, silenziosi, custodi di una pietà che si sarebbe compiuta nel più terribile dei modi.
Poi, svoltato un angolo, arrivammo al limite del chiostro, e lì ci sistemammo confratelli e fedeli ammessi, lasciando libero un rettangolo. All'interno di quel rettangolo, senza alcun dubbio, doveva esserci il giustiziato. E, per la verità, devo dire che c'era e come. Non so se fosse Bruno o chi altri, ma il giustiziato c'era.
Poi quelli che reggevano in alto la croce – ecclesiastici di secondo ordine – si ritirarono, retrocedendo. Intanto venivano recitati ad alta voce il responsorio e il salmo che invoca Dio dicendo: «Nell'ultimo giorno, il giorno dell'ira, ricordati di me e abbi pietà». Quelli che reggono alta la croce si ritirano dopo il salmo, si recita il padrenostro come si fa, o come si faceva un tempo, nei responsori ordinari. Improvvisamente, cala un silenzio totale. Le campane suonano a morto.
Nel centro del chiostro, le magnolie e gli oleandri creavano un'aria densa, densità che solo l'odore delle piante nutrite di morte possiede. Era, in realtà, il cortile della morte. Come nei cimiteri mediterranei dove non c'è fiore, non c'è erba, non c'è nulla che non nasca direttamente dai morti.
Scendeva la sera. Le campane suonavano. Tornarono quelli che portavano la croce parrocchiale, credo si recitassero tre responsori. Per chi? A Roma, per le vittime dell'Inquisizione...! Chi l'avrebbe detto! Alla fine, quando ormai la cerimonia ecclesiastica e le ultime preghiere tacquero, ognuno di noi, ogni fedele che aveva assistito, pose, e io lo feci perché lo vidi fare, tra la fessura che separa il coperchio della tomba circolare e il resto, una candelina che era stata consegnata a ciascuno dei presenti. Erano candele piccole, mentre gli uomini dell'ordine portavano un grande cero, che era lo stesso, che era lo stesso, Dio mio!, già acceso, già consumato.
Alla luce del crepuscolo romano, che è lungo, spesso e denso, arsero quelle fiamme di morte che ognuno di noi custodiva. Di morte e di vita insieme, mescolate, unite, combinate. E questo ci fa sentire – cosa molto difficile da decifrare – qualcosa di simile all'eternità della morte, all'eternità della vita, come la continuità del sacrificio che si crederebbe ormai necessariamente concluso con il sacrificio totale del Dio uomo, niente meno che la seconda persona della Santissima Trinità, che muore sulla croce. Quale sacrificio maggiore può esserci?
E invece no, l'Occidente è così, bisogna ripetere il sacrificio, insistere a sacrificare l'amore, il pensiero... Stavo per dire il pensiero soprattutto, ma, in realtà, il pensiero senza amore non fiorisce. Il pensiero di Giordano Bruno nacque dall'amore, non necessariamente dall'amore con amante, ma dall'amore. L'amore è la terra feconda del pensiero. E questo, Signore! Deve essere sacrificato una, cento, mille volte, deve ardere per sempre.
Non se ne ha ancora abbastanza di questa fiamma?
All'uscita dalla cappella Elemire Zolla formulava il mio pensiero: «Se l'ortodossia cattolica avesse accettato un uomo di pace come Giordano Bruno, non sarebbe mai esistito, dopo, un Robespierre».