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    «Non commettere

    adulterio»

    Il sesto comandamento

    Gianfranco Ravasi

    Alla fine dello scorso anno, quasi a suggello dell'evento giubilare, il Teatro di Roma ha messo in scena, con la regia del suo stesso direttore artistico Mario Martone, l'opera I dieci comandamenti di Raffaele Viviani, un autore (e attore) di commedie e drammi popolati da efficacissime macchiette, desunte da quell'arsenale di figure, personaggi, vizi e virtù che è da sempre Napoli (Viviani, infatti, era nato a Castellammare di Stabia nel 1888 ed era morto a Napoli nel 1950). Ancora una volta, sia pure sotto il velo dell'ironia bonaria e del colore, quelle dieci parole sacre e antiche sono tornate ad essere segno di moralità e divieto di immoralità.
    Nel nostro itinerario all'interno del Decalogo siamo giunti ormai al sesto comandamento che noi tutti abbiamo in mente nella formulazione che non corrisponde all'originale biblico. Infatti, interrogati sul contenuto di questo comandamento, risponderemmo così: «Non commettere atti impuri!». Questo, tra l'altro, era il titolo di un filmettino che il regista Giulio Petroni aveva girato nel 1972, nella linea di quel "pecoreccio" nazionale allora in voga. Qualche lettore più anziano ricorderà anche la più paludata formulazione attraverso un verbo ormai obsoleto: «Non fornicare!». Il concetto era, comunque, sempre chiaro: siamo in presenza della cosiddetta morale sessuale, delle sue spesso complicate articolazioni che corrispondono alle altrettanto complicate e molteplici perversioni sessuali (basterebbe solo sfogliare l'ormai datata ma emblematica Psychopatia sexualis di Kraft-Ebing o, al contrario, i vecchi manuali di morale sessuale).
    Senza voler accantonare questo aspetto, il precetto decalogico ha, però, un contenuto primario che è ben espresso nella versione «Non commettere adulterio». Nell'originale ebraico del comandamento nel libro biblico dell'Esodo (20,14) o in quello parallelo del Deuteronomio (5,18) ci incontriamo con un verbo piuttosto raro e "tecnico", na'af: esso non si riferisce all'area sessuale generale bensì a quella specifica del matrimonio.
    Noi abbiamo già avuto occasione di dire che i comandamenti decalogici sono formulati all'imperativo negativo apodittico: «Non fare ...!». In realtà, nel linguaggio semitico, essi non hanno solo la funzione di vietare un comportamento in modo netto ma anche di stimolarne in forma altrettanto marcata l'aspetto positivo.
    Nel nostro caso, allora, avremmo l'esaltazione del matrimonio, dei suoi diritti e della sua dignità. Ma prima di sviluppare questa dimensione positiva, facciamo un cenno al rovescio oscuro della medaglia, cioè l'adulterio che qui viene chiaramente condannato. Certo, noi sappiamo che la Rivelazione biblica non è una sequenza di perfetti teoremi teologici ma è "incarnata" nella storia e, quindi, ha una sua evoluzione verso mete più alte. Ora, se consideriamo la legislazione matrimoniale dell'Antico Testamento, ci troviamo di fronte a vari condizionamenti legati a quella cultura e a quella società antica.
    Così, data la concezione maschilista dell'antico Vicino Oriente, in quelle norme la donna è sfavorita e la presunzione di colpa cade prima di tutto su di lei. È ovvio che in tale prospettiva non viene colpita seriamente la relazione dell'uomo sposato con una nubile o una prostituta. Inoltre, come è noto, vigeva l'istituto del divorzio che aveva una codificazione nel libro del Deuteronomio: «Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa» (24,1).
    Non c'è bisogno di insistere sull'evidente condizione di sfavore in cui si veniva a trovare la moglie in questa procedura sbrigativa e basata su una motivazione così generica e aleatoria ("non trovar grazia agli occhi" del marito, oppure "trovare qualcosa di vergognoso" nella donna).
    La tradizione giuridica successiva del giudaismo cercherà di precisare questi commi, attestandosi su due fronti antitetici, quello rigoristache ammetteva il divorzio solo in caso di adulterio e quello lassista che lo concedeva per qualsiasi giusta causa, compresa una minestra scotta e la noia di vedere sempre la stessa faccia! Inoltre, non essendo soggetto giuridico riconosciuto, la donna non solo non poteva aprire una causa di divorzio ma neppure appellare contro una sentenza di scioglimento del suo matrimonio. Si capisce allora la reazione di Gesù che vuole riportare il matrimonio alla sua dignità e grandezza originaria di donazione totale d'amore, come insegnava la Genesi («i due saranno una carne sola»): «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così» (Matteo 19,8).
    Il sesto comandamento, sia pure coi limiti contestuali a cui si è fatto cenno, contiene una netta condanna dell'adulterio. Naturalmente, in un contesto tribale, questa normativa era orientata a tutelare non solo la compattezza del clan familiare ma anche la legittimazione dei discendenti a livello giuridico e a fini ereditari. Quella che i credenti considerano Parola di Dio rivela, così, un volto concreto che non dobbiamo disprezzare: è il tentativo di salvaguardare al minimo alcuni valori, nella speranza di comprendere la debolezza umana e di spingerla verso traguardi più alti.
    E questi traguardi più alti sono delineati in pagine di straordinaria intensità e fragranza. Pensiamo solo allo splendore del Cantico dei Cantici che è la celebrazione dell'"amore forte come la morte" (8,6) e della donazione totale e assoluta che compie in pienezza l'aspetto positivo del comandamento: «Il mio amato è mio e io sono sua... lo sono del mio amato e il mio amato è mio», proclama la donna del Cantico (2,16; 6,3). I profeti andranno oltre ed esalteranno nell'amore nuziale un nuovo valore, quello di essere simbolo dell'amore divino per l'umanità. Si provi a leggere alcune di queste pagine profetiche, a partire dalla storia autobiografica di Osea (capitolo 2) e del suo travagliato amore per Gomer, per passare poi a Geremia (2,2; 31,3), alla forte e mirabile parabola del capitolo 16 di Ezechiele, per giungere al capitolo 54 di Isaia...
    Noi vorremmo citare ora solo due passi in modo semplificato. Il primo è nel libro di Isaia, anche-se gli studiosi ritengono che si tratti di un testo composto due secoli dopo, nel VI sec. a.C., ad opera di un profeta anonimo ed entrato nel grande "rotolo" delle profezie isaiane. Dio si rivolge al suo popolo e lo considera come la donna amata e sposata e il profeta commenta: «Sì, come un giovane sposa una ragazza, così ti sposerà il tuo Creatore; come gioisce lo sposo per la sua sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (62,5). L'altro testo appartiene, invece, al Nuovo Testamento ed è spesso letto nelle celebrazioni nuziali. Paolo, scrivendo ai cristiani di Efeso, vede nel matrimonio cristiano «un mistero grande, in riferimento a Cristo e alla Chiesa», per cui «i mariti devono amare le loro mogli come Cristo ha amato la Chiesa» (Efesini 5,25-32). C alla luce di questa prospettiva che la Chiesa cattolica ha riconosciuto sempre al matrimonio cristiano la dignità di sacramento: l'unione d'amore tra l'uomo e la donna nella sua pienezza porta il sigillo della grazia e della presenza di Dio.
    A questo punto dobbiamo riservare un cenno anche alla lettura tradizionale del comandamento che - come si diceva - è stato esteso a tutta la morale sessuale. II matrimonio è, infatti, considerato dalla Bibbia come il simbolo di tutte le relazioni interpersonali ed è per questo che sottoquel profilo si possono esplicitare valori e limiti, virtù e vizi dei rapporti tra persone. A questo proposito dobbiamo sottolineare che la Bibbia considera la coppia maschio-femmina come alla base della sua antropologia. Significativo è il passo di Genesi 1,27 ove si dichiara che «Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò». L'"immagine" divina stampata nell'uomo si attua nella bipolarità sessuale e non certo perché Dio abbia accanto a sé una dea, come volevano le religioni circostanti a Israele, ma perché l'amore fecondo tra uomo e donna rifletteva l'amore creatore del Signore (nella pagina biblica si descrive, infatti, la creazione).
    In questa luce si deve collocare il giudizio morale sulla omosessualità secondo la Bibbia. Certo, la Sacra Scrittura non considera le implicazioni psicologiche, le dimensioni più complesse e altri temi sviluppati dalla riflessione teologica successiva. Inoltre alcuni passi considerati classici sul tema sono da usare con riserva perché l'autore sacro ha di mira prima di tutto la condanna di un altro peccato. E il caso del testo che ha dato origine al termine "sodomia", cioè il capitolo 19 della Genesi, ove alcuni abitanti di Sodoma chiedono a Lot di consegnare loro gli ospiti "angelici" 'perché possiamo abusarne': la condanna della Bibbia cade prima di tutto e soprattutto sulla violazione della legge sacra dell'ospitalità (implicitamente c'è anche l'orrore per i culti idolatrici degli indigeni della Palestina che comprendevano l'omosessualità sacra con sacerdoti chiamati dalla Bibbia "cani" o "prostituti sacri").
    Tuttavia esiste nelle Sacre Scritture anche un discorso più diretto ed esplicito sulla questione omosessuale. Nel libro legislativo del Levitico, il terzo della Bibbia, si legge: «Non avrai relazioni con un maschio come si hanno con una donna: è un abominio!» (18,22). Agli omosessuali colti in flagrante si commina la pena di morte (20,13), che aveva anche un valore religioso: era una (discutibile e deprecabile per noi ora) forma di "scomunica" dalla comunità santa. Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto, in una lista di vizi che escludono dal Regno di Dio introduce anche i malakoi, gli "effeminati", cioè il partner omosessuale passivo, e gli arsenokoitai, cioè gli omosessuali attivi (1 Corinzi 6,9-10), mentre nella Prima Lettera a Timoteo aggiunge nella condanna anche i sequestratori di ragazzi per pedofilia (1,10).
    È ancora l'Apostolo nella Lettera ai Romani a ricordare che dalla decadenza religiosa nasce la perversione morale e menziona anche questo peccato: «Le donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini» (1,26-27). La degenerazione religiosa e morale trascina con sé una serie di vizi e di appannamento di ogni sensibilità etica.
    Questo è anche il messaggio del sesto comandamento per quanto riguarda l'orizzonte sessuale. E l'appello a ritrovare nelle relazioni tra uomo e donna la trasparenza e la ricchezza di valori che erano nel disegno del Creatore: la persona umana, infatti, non vive il sesso in modo meramente fisiologico e istintivo ma lo può trasfigurare in eros, segno di bellezza, e lo può condurre ad essere amore che è donazione e comunione totale. Il sesto comandamento è anche, indirettamente, l'invito a vivere le altre relazioni di amicizia e di comunicazione e le stesse pulsioni fisiologiche e psicologiche all'interno di una visione di armonia, di coerenza, di limpidità, di dominio di sé, di onestà e rispetto.
    Il sesto comandamento è, infine, l'esaltazione della famiglia col suo patrimonio di unità nella diversità, di amore e di dialogo. Giovanni Paolo II ha affermato che «quanto più la famiglia è sana e unita, tanto più lo è la società. Al contrario, lo sfacelo della società ha inizio con lo sfacelo della famiglia». È una convinzione che, a livello più generale, già condivideva uno dei maggiori scrittori spagnoli del Novecento, Miguel de Unamuno (18641936) quando dichiarava: «L'agonia della famiglia è l'agonia del cristianesimo».


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