Il bene comune

Giannino Piana

Premessa

Inizierei dall'idea di bene comune analizzandola dal punto di vista della storia, della sua evoluzione, cercando di mettere a fuoco da dove è nata, come si è sviluppata e soprattutto, nella parte più propositiva, cercando di individuare come viene intesa oggi a partire da una concezione personalista, potremmo dire di personalismo comunitario, che è venuta affermandosi in tempi abbastanza recenti. Presterò anche attenzione ad alcuni aspetti problematici del bene comune con riferimento alla situazione socio-culturale attuale che è caratterizzata dal fenomeno della globalizzazione, quindi da una evidente revisione del concetto di bene comune in un quadro molto più ampio di quello del passato.

Le origini e l'evoluzione storica del bene comune

L'origine ancora embrionale del bene comune deve essere fatta risalire addirittura alla filosofia greca e, in particolare, alla Repubblica di Platone che per primo introduce questa idea di bene della collettività, ossia il bene prevalentemente della polis: il bene che abita la città; il bene inteso anche come insieme di beni che è interesse di tutti rispettare e in qualche misura promuovere, se si vuole che la vita della comunità funzioni. Tuttavia il concetto più specifico di bene comune, bonum commune, viene introdotto dalla scolastica medioevale e, in particolare, da Tommaso d'Aquino che dedica gran parte della sua filosofia politica proprio a tale concetto. Egli procede da una antropologia, cioè una concezione dell'uomo che non è l'uomo-individuo scorporato dagli altri, ma l'uomo come animale sociale. La socialità viene ricondotta alla natura dell'uomo, ripresa da Aristotele che intende l'uomo come animale politico, l'uomo che vive la propria auto-realizzazione nel contesto della polis.
Il principio di Tommaso è meno storicizzato, meno legato alla polis rispetto a quello aristotelico, ma in qualche modo "metafisicizzato"; l'uomo è animale sociale poiché è un essere la cui socialità è costitutiva della definizione stessa dell'umanità. L'uomo è ontologicamente sociale. La socialità quindi non è qualche cosa che dall'esterno si aggiunge alla definizione dell'uomo, ma vi è connessa strettamente. Proprio su questa base si capisce il concetto di bene comune: se l'uomo è costituzionalmente un essere sociale, allora la sua realizzazione avverrà sempre e soltanto in una serie di rapporti che istituirà con gli altri suoi simili. I rapporti costitutivi dell'umano definiscono il bene comune. In questo rapporto, naturalmente, l'uomo deve stabilire delle regole che in qualche modo configurino quello che si chiama "bene comune".
Un secondo elemento interessante, che la scolastica mette in luce, è il rapporto tra il concetto di bene comune e il concetto di giustizia sociale. Va notato che Tommaso non parla di giustizia sociale, ma di giustizia in generale, che è quella che guida il rapporto tra tutti gli uomini, quindi stabilisce quali sono i diritti che devono essere preservati nei rapporti. La giustizia sociale per Tommaso è la prima giustizia, mentre la giustizia particolare, che noi oggi possiamo chiamare giustizia commutativa (i rapporti io-tu, i rapporti inter-soggettivi), è subordinata alla giustizia sociale, è un aspetto di quella. Invece nella modernità il concetto che è prevalso di giustizia non è più quello di giustizia sociale, ma di giustizia commutativa. La stessa manualistica morale dal Seicento in poi tratta soltanto i contratti e i testamenti, cioè i rapporti inter-soggettivi che si costituiscono attraverso la via del contratto tra persona e persona o attraverso il testamento, che è una forma di contratto orientato al futuro, riguardante gli eredi. Di fatto c'è stata una riduzione del concetto alla giustizia commutativa, privata, mentre alle origini il concetto di giustizia era innanzitutto riferito al sociale. Le altre forme di giustizia dipendono da questa, le sono subordinate.
Il terzo elemento costitutivo del concetto di bene comune, sempre nel grande filone della scolastica, è che il bene comune è considerato di tutti e di ciascuno, nel senso che ciascuno viene visto come singolo, secondo l'espressione kantiana, ma, essendo costitutivamente un essere relazionale, è anche strettamente legato agli altri: raggiunge il bene per sé nella misura in cui opera per il bene di tutti.

Il bene comune nella modernità

La modernità - intesa in senso forte, come superamento del Medioevo, riferita quindi al pensiero cinquecentesco più che alla rivoluzione francese e all'Illuminismo - vanifica questo concetto di bene comune. Si verifica un ribaltamento del bene comune che continua a conservarsi, almeno formalmente in alcuni casi, ma in sostanza viene radicalmente compromesso nei suoi contenuti.
La modernità è caratterizzata soprattutto da due elementi determinanti per questo capovolgimento. Il primo è l'affermarsi di una cultura di tipo strettamente individualistico: non conta tanto la relazionalità, ma prevale la tendenza a vedere l'uomo come individuo, come soggetto scorporato dagli altri. Il secondo elemento è una visione pessimistica dell'uomo, legata a Machiavelli: un uomo che in qualche misura guarda all'altro come nemico, come avversario, tanto è vero che tutta la visione politica di Machiavelli è basata sull'idea di un principe che si afferma sugli altri attraverso le sue principali qualità, ossia la forza e l'astuzia - il leone e la volpe. Alla base si trova una concezione pessimistica, ripresa dalla teologia protestante, da Lutero in particolare, secondo il quale l'uomo viene salvato soltanto attraverso l'intervento della grazia. Si tratta dell'uomo compromesso radicalmente nella sua natura che non è più buona, dove il peccato d'origine viene concepito come dissoluzione della sua identità profonda.
Questi due aspetti dell'antropologia, un'antropologia individualistica e un'antropologia pessimistica, si riflettono anche nella formulazione del concetto di bene comune che viene inteso come "interesse generale". Occorre richiamare il pensiero di Hobbes, che insieme a Rousseau e a Locke si può considerare tra i padri fondatori della politica moderna. Anche Hobbes parte dalla concezione pessimistica dell'uomo, arrivando a dire homo homini lupus. Secondo Hobbes, l'uomo concepisce l'altro come rivale, nemico; non c'è un rapporto positivo tra gli uomini. Allora, se l'uomo nella sua azione è guidato soltanto, come dice Hobbes, dal desiderio di auto-affermazione o dall'istinto di auto-conservazione, come è possibile creare delle condizioni per vivere all'interno della società in modo positivo, pacifico? La via non può più essere una socialità fondata sulla natura, che è negativa, di un individuo votato a guardare l'altro come nemico; perciò non può che essere quella del contratto, attraverso il quale si determinano condizioni per le quali è possibile istituire una forma di convivenza.
Il contrattualismo moderno, che caratterizza in senso allargato le varie concezioni della politica che verranno affermandosi, nasce da questa visione: soltanto attraverso il contratto è possibile stabilire regole che in qualche modo limitano la libertà di ciascuno, altrimenti la libertà dell'uno si opporrebbe alla libertà dell'altro e si creerebbe quella che Hobbes chiama "la guerra di tutti contro tutti". L'unica possibilità quindi è di pattuire, attraverso un contratto, regole che costituiscono una forma di limitazione della libertà di ciascuno per riuscire a rispettare lo spazio di libertà dell'altro e per creare una convivenza ordinata, pacifica. In questo caso si sostituisce al concetto di bene quello di interesse generale attraverso un processo puramente convenzionale, appunto fondato su un patto che presuppone un'autorità che lo faccia rispettare. In questo passaggio va rilevato soprattutto che non si tratta più di una prospettiva fondata sulla natura, sulla concezione di un uomo che si realizza nei rapporti e li vive positivamente, bensì di una prospettiva in cui emerge una diversa concezione dell'altro. Questi non è più la via per la mia realizzazione, ma un ostacolo, un nemico con il quale devo venire a patti, se voglio salvaguardare quel minimo spazio di libertà che mi sia consentito. Devo rinunciare ad una parte della mia libertà per poter convivere con la libertà altrui. Ne deriva anche una diversa concezione della limitazione della libertà. Mentre nella prospettiva del bene comune la limitazione della libertà ha un valore positivo, perché la limitazione è funzionale al realizzarsi insieme, qui è un costo da pagare per sopravvivere e per non accedere alla condizione del "tutti contro tutti".
In questo contesto sorge il concetto prevalente della politica, per il quale il patto deve essere salvaguardato da un'autorità forte. Assistiamo quindi alla nascita dell'autoritarismo. La politica tende così a definire il bene comune come interesse generale o come bene pubblico. La terminologia stessa cambia: il bene pubblico è l'insieme delle regole che riguardano la convivenza civile.
Occorre tenere presente che queste visioni della realtà sociale, legate alla cultura individualista e pessimistica, sono presenti anche per decenni all'interno della stessa cultura cattolica. Il concetto di giustizia concerne sempre più la giustizia privata e non pubblica. Anche il magistero della Chiesa risente di questa tendenza: il pessimismo si intravede in molti documenti, quando si parla per esempio di questioni sociali o di questioni connesse alla conduzione della vita politica.

Le anticipazioni del primo Novecento

Questo concetto subisce un contraccolpo in un'epoca più vicina a noi, a partire dal primo Novecento, anticipando lo sviluppo che, in ambito cattolico, avverrà con il Concilio Vaticano II. Si tratta di riflessioni che procedono in modo disordinato, ma convergente. Da parte di alcune tradizioni, in particolare quella francese con riferimento alla scuola del personalismo comunitario di Mounier, c'è una ripresa del concetto di bene comune proprio in concomitanza con la nascita del personalismo sociale o comunitario, in un confronto critico positivo con il marxismo. Mounier è figlio della tradizione cristiana più autentica, ma anche della tradizione socialista più autentica, pre-marxista: quella di Proudhon e dei grandi pensatori del socialismo umanitario.
Gli aspetti che caratterizzano tale concetto di bene sono tre. Il primo è l'originalità e l'indivisibilità del bene comune che non è riconducibile semplicemente alla somma dei beni particolari e, essendo di tutti e di ciascuno, è in qualche modo indivisibile. Questo concetto viene ripreso dall'enciclica Mater et magistra di Giovanni XXIII che parla di bene comune facendo riferimento al singolo ma anche alla collettività. Inoltre, dicendo che il bene comune ha come fine la persona, guarda nello stesso tempo alla persona guardando a tutti, poiché concepisce il singolo come soggetto relazionale. Così si delinea una circolarità tra il bene di ciascuno e il bene di tutti. Anche nella Populorum progressi° di Paolo VI si riprende questo concetto, quando afferma che lo sviluppo è di ciascuno e di tutti nello stesso tempo. In questo senso andrebbe ridefinito il concetto, pensando non solo a tutto l'uomo e a tutti gli uomini, ma anche alle generazioni future.
Il secondo aspetto è che il bene comune va perseguito con il concorso di tutti dove per "tutti" si intendono naturalmente i singoli, ma anche le istituzioni, lo Stato e la società civile.
Il terzo aspetto è la realizzazione del bene comune attraverso un processo dal basso e non dalle istituzioni pubbliche, anche se il loro ruolo è fuori discussione, ma in quanto esse rappresentano il momento di sintesi. Tale processo viene anticipato da una serie di altri processi, che a loro volta si realizzano dal basso, secondo un rapporto (che non viene ancora esplicitato dal personalismo comunitario) tra sussidiarietà e solidarietà. In questo caso la solidarietà è il fine e la sussidiarietà il mezzo. Per raggiungere la solidarietà la via non è quella di imporla dall'alto, ma di creare condizioni per le quali ciascuno è responsabilizzato alla gestione della solidarietà.
In questa concezione il bene comune con i suoi tre aspetti riceve uno statuto proprio, definito nella correlazione tra l'esigenza del singolo e l'esigenza della collettività. Il criterio di fondo è la giustizia, ma soprattutto l'equità sociale che ha come base l'uguaglianza di tutti, quindi la parità dei diritti di tutti.

 

Tre istanze da recuperare oggi

 

Si tratta di istanze che definiscono altrettanti connotati del bene comune e che, pur partendo dal concetto originale di bene comune, lo riempiono di contenuti nuovi con riferimento ad una stagione storica mutata. Il problema è come definirlo oggi, procedendo dalle definizioni precedenti.

La prima istanza è costituita dall'esigenza di coniugare sempre più strettamente nel concetto di bene comune il personale e il sociale, la soggettività e la socialità. La soggettività va intesa in senso radicale, cioè l'identità soggettiva nella differenza. L'uguaglianza non è egualitarismo appiattente, perché l'uguaglianza vera è quella che certamente rispetta i diritti fondamentali che sono di tutti e devono essere riconosciuti e promossi per tutti, ma tiene anche in considerazione le diversità che occorre promuovere, facendole convergere verso un'unità superiore. Questo implica però una ripresa più profonda del concetto di persona che è soggetto individuale, ha una sua irripetibilità, ma è anche contemporaneamente un soggetto relazionale. Perciò la persona viene identificata attraverso questi due elementi costitutivi: essere soggetto unico e nello stesso tempo soggetto relazionale.
Da questa visione dell'individualità e della socialità che si correlano nel concetto di persona, nasce anche l'idea di dignità della persona. In altre parole il soggetto deve essere rispettato nella sua identità e originalità, ma deve essere anche stimolato ad aprirsi agli altri, posto che sia un'esigenza della persona quella di rapportarsi correttamente agli altri. E il concetto della dignità della persona è di grande portata, perché in realtà ha due valenze. Una stabilisce un limite alla possibilità di intervento dello Stato, l'altra stabilisce per il soggetto un limite a espandere se stesso, nel senso che il fatto di essere un soggetto relazionale lo obbliga a tener conto, nella realizzazione di sé, della realizzazione dell'altro. Il bene comune acquisisce qui un fondamento ontologico nel soggetto, in quanto persona, e trova la sua esplicazione non solo in alcuni diritti inalienabili che sono appunto legati alla sua unicità, ma anche nella creazione di condizioni sociali tali per cui questi diritti siano effettivamente diritti di tutti. Da questo punto di vista è interessante l'articolo 3 della Costituzione che sollecita lo Stato a rimuovere gli ostacoli che impediscono a ciascuno, soprattutto alle categorie più marginali, di diventare a tutti gli effetti cittadino, di esercitare i propri diritti di cittadinanza. Tutta la mediazione, inarrivabile, della Costituzione tra diritti sociali e diritti di libertà si trova su questa linea. Il concetto di bene comune è fondato sui diritti di libertà e sui diritti sociali.L'una cosa non sta senza l'altra.
Questo non va affermato in modo astratto, come una proclamazione di principi, ma in senso reale, cioè fornendo quegli strumenti che consentono l'esercizio della cittadinanza, come il diritto alla scuola, al lavoro e alla salute. Tale prospettiva del rapporto tra personale e sociale implica una ridefinizione dei rapporti tra le soggettività sociali, che si esprimono liberamente all'interno della società civile sul territorio, e le istituzioni pubbliche. Ciò comporterebbe anche il ripensamento del concetto di Stato sociale e nel medesimo tempo della dinamica stessa dei servizi che lo Stato sociale mette in atto. Forse una delle ragioni della crisi è proprio il fatto che è avvenuto uno scorporamento di questi servizi dalla responsabilità dei singoli cittadini che spesso rivendicano solo diritti, ma non hanno capacità di responsabilizzazione, quindi di esercizio di doveri. D'altra parte c'è stata un'esautorazione della società che si sente svincolata da questo impegno. La riforma dello Stato sociale, e dei servizi che è chiamato a rendere, dovrebbe essere ripensata nell'ottica di un più stretto rapporto tra soggettività sociali che rappresentano appunto la società dal basso, e istituzioni pubbliche che devono favorire questo processo. Ritorna la logica del rapporto tra sussidiarietà e solidarietà.
La possibilità di attivare questo tipo di bene comune, in cui personale e sociale in qualche modo si integrano, è legata anche alla riscoperta di una dimensione comunitaria della società, verso la quale si deve tendere al di là delle posizioni del comunitarismo, che rischiano di creare forme di ghettizzazione. L'intuizione di fondo però resta buona, perché o una società diventa più comunitaria, più solidale, capace di esprimersi a partire dalle esperienze di vicinato, oppure diventa troppo burocratica, troppo formale, con il rischio che non funzioni il concetto di bene comune come è stato espresso.

Una seconda istanza è costituita dal ripensamento del concetto di bene comune in una prospettiva universalistica. Oggi non si può più definire il bene comune come il bene di una nazione o di una piccola comunità: certamente il bene di una nazione va collocato all'interno di un quadro più generale che è il bene della famiglia umana. Ricceur, che ha collaborato con la rivista Esprit fondata da Mounier, sostiene che bisogna superare la tendenza di un certo personalismo che pensa al rapporto tra soggetti come un rapporto io-tu, per introdurre "il terzo", che non è colui che non ha nome, ma ha un'identità precisa: è colui con il quale non prendiamo direttamente contatto. Tuttavia questi diventa oggetto della nostra responsabilità attraverso l'impegno politico, con il quale si tende a tutelare i diritti e prima ancora la dignità di ciascuna persona umana. Questa attenzione al terzo avviene appunto attraverso la politica per mezzo della creazione di strutture giuste che favoriscano un processo di promozione vera. Si tratta perciò di andare verso una concezione di bene comune che poi si articola secondo i livelli, ma che ha come sfondo e come criterio di partenza proprio quello del bene della famiglia umana; e non solo di quella presente, ma anche di quella futura, perché alle generazioni future dobbiamo poter consegnare un mondo abitabile. Quindi, nella definizione di bene comune, l'impegno non va solo in direzione sincronica (tutto l'uomo e tutti gli uomini), ma tiene conto dell'umanità presente e dell'umanità futura in una prospettiva diacronica.

La terza istanza comporta che oggi più che mai il bene comune debba essere ridefinito dal basso all'interno di un mondo, il quale non soltanto è molto più interdipendente dal punto di vista economico, sociale e politico, ma nel quale tale interdipendenza si manifesta sul territorio come culturale, etnica e religiosa. Allora, a livello soprattutto politico, la definizione di bene comune non può più prescindere dall'attenzione a queste differenze, ossia alle diverse concezioni di bene comune che appartengono alle diverse culture, alle diverse tradizioni religiose, per addivenire, nell'ambito della vita sociale e politica, ad un concetto di bene comune che sia capace di comprendere esigenze che vanno oltre quelle legate alla nostra cultura occidentale. Per esempio, in una società multiculturale esistono diverse visioni della felicità o della vita buona. Esiste un pluralismo di concezioni della vita, del mondo, della storia che vanno mediate tra loro per arrivare, sempre attraverso un confronto pubblico, a identificare quali sono i presupposti del bene comune nella società in cui vivo, inserita nella società mondiale, prestando attenzione alle esigenze degli uomini che popoleranno le società future. Oggettivamente questo concetto è molto problematico, perché le istanze che provengono da culture diverse non sono facilmente componibili e perché alcune istanze possono anche essere regressive rispetto a obiettivi già realizzati da noi occidentali, come l'infibulazione o la poligamia. Su questo piano il confronto diventa difficile.
Da un punto di vista formale anche il concetto di diritti umani conserva sempre una certa universalità; tuttavia nei suoi contenuti va ripensato in rapporto a una pluralità di culture. La stessa Carta delle Nazioni Unite del 1948 risente molto dell'influenza prevalente dell'Occidente rispetto alle altre culture; ma la lettura che noi facciamo dei diritti, ci viene contestata dall'Oriente. Tale aspetto appare forse marginale, ma rientra comunque nel concetto di bene comune, perché in una società pluralistica, come la nostra, è in questione un'impresa che non è facile, ma deve essere portata avanti e attuata in qualche modo, se si vuole dar corso all'idea di bene comune che rispecchi obiettivamente la sensibilità delle persone che appartengono alla nostra società.