Preadolescenti e mondo
Il punto di vista della sociologia
Giancarlo De Nicolò
(NPG 1987-01-66)
Scrivere sui giovani oggi risulta relativamente facile.
Non perché essi siano una realtà sociale ormai molto conosciuta, accettata, valorizzata; o perché ogni problema conoscitivo, interpretativo e di azione politico-sociale nei loro confronti sia stato positivamente risolto; ma almeno perché la mole di studi e ricerche sul campo - a livello nazionale, regionale, locale - risulta così ampia che non è difficile rintracciare gli elementi (strutturali e sovrastrutturali, omogenei e differenzianti) attorno a cui delineare i tratti del volto del giovane che abita questo scorcio di decennio. Prospettiva sociologica e psicologica, analisi storica e culturale, interessi sociali e di mercato: tutto ha contribuito da alcuni anni a centrare l'attenzione di studiosi, educatori, politici, ecclesiastici, operatori di mercato e di mass media su quel settore di popolazione denominato «condizione giovanile», e a frugarne interessi, bisogni, comportamenti, valori, aspettative e prospettive nelle loro più svariate aree di vita.
PERCHÉ UNA PROSPETTIVA SOCIOLOGICA?
Un'analisi di segno esattamente contrario potrebbe essere fatta nei confronti dei fratelli minori dei giovani: quelli che, con termine contorto e probabilmente infelice, vengono chiamati i preadolescenti: i ragazzi dai 10 ai 14 anni, tanto per intenderci, quelli che perlopiú (ma non del tutto) frequentano la «scuola media».
Il disinteresse (o la presunzione di conoscenza) nei loro confronti sono indicati dal pochissimo numero di ricerche-studi, dalla genericità delle offerte istituzionali e educative loro rivolte, dall'assimilazione al mondo dell'adolescenza (che viene a sua volta perlopiú assimilata al mondo dei giovani).
In questo contesto sottolineiamo tentativi di inversione di tendenza, come il ripensamento radicale delle proposte di aggregazione di alcune associazioni ecclesiali e, in termini di ricerche, l'analisi psico-sociale globale che sta alla base del volume dal significativo titolo L'età negata (LDC, 1986).
Non entriamo nel merito di questo volume, che si distingue per l'accurata analisi e il tentativo di un approccio sistemico al mondo della preadolescenza (che sottolinea quindi le interazioni dell'ambiente esterno, soprattutto sociale).
Resta tuttavia l'impressione che finora l'approccio di studio, l'accostamento a questa realtà, sia stato quasi esclusivamente di natura psicologica.
Non che questo sia un modo di approccio errato o superato: l'età della preadolescenza è ricca di dinamismi psicologici in azione: lo sviluppo dell'io, i processi di identificazione, i bisogni e interessi emergenti, l'apertura sociale, lo sviluppo cognitivo, emozionale, motivazionale... tutti ampiamente descritti e spiegati dalla psicologia.
Un approccio unicamente di questo genere, tuttavia, tende quasi a tracciare i tratti strutturali, generici, tipici della preadolescenza, quasi fosse una condizione «naturale», eterna, valida per tutte le epoche e in ogni luogo. Non per nulla si parla - e le parole tradiscono precisi presupposti - del «mondo del preadolescente», come fosse un mondo a sé, un'isola regolata dal gioco delle forze interne della pulsionalità del soggetto, come una specie di infanzia protratta, in cui «gli altri» unicamente funzionano come garanti e testimoni di ciò che accade «dentro».
Un approccio di questo genere che qui abbiamo esagerato come tipo ideale non tiene affatto conto che nell'uomo (nel piccolo uomo che è il preadolescente) non esiste nulla di solo naturale, ma tutto è anche culturale e sociale. E questo in modo ben più rilevante del semplice fatto per cui anche il processo di identificazione e quindi dell'identità si avvale di persone e modelli che esistono «fuori» del mondo del preadolescente. Difatti tutti i processi psicologici accennati possono essere (e di fatto lo sono) anticipati, posticipati, modificati sotto l'influsso di fenomeni culturali e sociali. E, cosa ben più importante, tutto il processo di socializzazione (che consideriamo centrale e decisivo per la preadolescenza, e che potrebbe sembrare «di natura eterna» date le funzioni che esercita) viene di fatto ad assumere caratteristiche nuove (inedite) in questo periodo storico che stiamo vivendo, in questa società in cui il preadolescente vive oggi. Senza dire delle cosiddette agenzie di socializzazione, estremamente modificate rispetto a quelle tradizionali.
I temi della prospettiva sociologica
Quanto finora affermato permette di intravvedere l'importanza - almeno l'importanza complementare - che oggi assume la prospettiva sociologica anche per quanto riguarda la preadolescenza. In fondo, questa prospettiva permette di rispondere in qualche modo alla domanda che emerge da chi si interessa di tali soggetti, alla ricerca di una maggior concretezza «storica»: ma chi è il preadolescente, oggi?
La prospettiva sociologica nello studio della preadolescenza consente di indagare sulla possibilità (e il modo) con cui tali soggetti sono oggi una specie di «condizione sociale» (del tutto improbabile per la mancanza di risposta cosciente e collettiva alla oggettiva situazione in cui sono collocati), o almeno sul modo con cui essi vivono il passaggio (se e come) da soggetti passivi a soggetti attivi all'interno della cultura sociale. Non vi è alcun dubbio che - a riguardo della condizione del ragazzo - siano ancor più valide le categorie di interpretazione usate per il mondo degli adolescenti: quelle soprattutto della «marginalità» se non dell'emarginazione": in una società in cui solamente lo «status adulto», con l'insieme dei suoi diritti e responsabilità, sembra essere riconosciuto e poter reggere, ogni altro status che si collochi nel tempo prima o dopo conta sempre meno, almeno come soggetti attivi.
Come è stato altrove rilevato, ci troviamo di fronte a fasce non solo marginali, deboli, incerte, ma anche dipendenti per motivi facilmente comprensibili: determinati da una parte dal forte peso del processo di identificazione e dalla carica emotiva in esso racchiuso, e dall'altra dall'impossibilità materiale di essere economicamente e socialmente autonomi a questa età.
La loro situazione di dipendenza li rende del tutto impossibilitati ad una presenza attiva nella società, e la loro stessa soggettività non ha «strumenti» né possibilità di esprimersi o di influire sui meccanismi «di potere»: manipolazione e strumentalizzazione sono le modalità più pericolose (ma non meno reali) di accostamento al mondo della preadolescenza, e non da parte di una astratta società, ma dalle sue mediazioni che sono le varie agenzie di socializzazione e di educazione, e dai modelli culturali che stanno alla base del consumismo e delle comunicazioni di massa.
I compiti di sviluppo tipici della preadolescenza (e che riguardano il cambiamento fisico, le relazioni coi coetanei e i rapporti con le istituzioni sociali, la partecipazione a gruppi, l'indipendenza e autonomia, la scelta dei valori e la coscienza di sé, le prospettive del futuro...) vengono dunque a intrecciarsi in vario modo con le variabili della situazione socio-culturale, che non è certo delle più favorevoli alla possibilità di espressione né offre spazio di protagonismo e di creatività.
Pensiamo che questo sia il campo proprio di un accostamento sociologico al tema.
I problemi tipici, dunque, e che affronteremo in questo articolo, riguardano l'esame della società e cultura del mondo d'oggi e i condizionamenti esercitati, soprattutto attraverso la forma dei modelli formativi ed educativi correnti e dunque delle agenzie socializzanti. Il tema della socializzazione (e il concetto di ruolo) sarà il necessario ponte gettato tra preadolescenti e società: attraverso esso giungono infatti al preadolescente messaggi e modelli, che possono rendere il soggetto sempre più passivo o attivo e critico, dunque un vero "soggetto sociale", almeno in prospettiva.
LA SOCIETÀ E LA CULTURA OGGI
Il preadolescente non fa esperienza diretta e immediata della società: sono le varie istituzioni a cui di volta in volta partecipa che lo mettono in contatto con la «società» più in generale.
L'esperienza della società non è possibile infatti al di fuori delle sue mediazioni istituzionali, anche se non si riduce alla vita delle singole istituzioni, ed è qualcosa di più della loro somma.
Ora, il modo di essere della società, il suo sviluppo, le sue trasformazioni determinano mutamenti, sia di struttura che di funzione, delle istituzioni che si occupano più direttamente del mondo dei ragazzi.
Quali sono le caratteristiche peculiari della società di oggi, che informano di sé le agenzie di cui dobbiamo occuparci?
La società è profondamente cambiata rispetto a quella del passato, anche recente, e procede in una direzione di mutamento sempre più accentuato, anche se non è così facile leggerne la direzione o individuarne il destino. E (cosa che particolarmente conta) di questo cambiamento se ne ha oggi maggiore diretta consapevolezza: il mutamento assume quindi nella coscienza il senso di una certa ineluttabilità.
La società complessa e differenziata
Il mutamento a cui la società è inevitabilmente sottoposta avviene lungo la direttrice «semplicità-complessità». Il che è dire che la società di oggi si caratterizza per il crescente grado di complessità e di complessificazione.
Anzi, sembra che la «complessità» sia oggi in grado di identificare il modo di funzionamento, se non addirittura la struttura della società contemporanea.
Complessità non significa crisi (anche se il tema della crisi vi è concettualmente legato), ma significa l'enorme differenziazione funzionale interna, la moltiplicazione dei processi di istituzionalizzazione, la complicazione e disarticolazione di strutture e meccanismi di funzionamento dei singoli sottosistemi e dei loro reciproci rapporti, la presenza di tendenze ambivalenti e contraddittorie non risolvibili all'interno del sistema sociale, l'alterazione degli spazi di azione e di decisione dei soggetti con la messa in difficoltà dei tradizionali processi decisionali.
Acquistano così un peso decisivo i modi nuovi con cui si integrano o si rapportano i sottosistemi economico, politico e socioculturale, in quest'ambito di sviluppo e di mutamento in cui sono coinvolti attori sociali o istituzioni.
Se si vuole, l'immagine più nitida della società complessa è quella della società acentrata, senza un centro preciso e definito (come era avvenuto - se pur nominando diversamente il centro - fino a pochi decenni fa), o con indefiniti centri (il che è la stessa cosa).
Ciò dà l'idea immediata della non riducibilità all'unità degli elementi che compongono il sistema (e, in campo politico-sociale, della non governabilità del sistema stesso) in mancanza di egemonia strutturale e culturale stabile e dotata di fondamento etico-valoriale. O, se si vuole, l'immagine della società-labirinto richiama in modo altrettanto forte il senso di dispersione e di smarrimento provocato. La frantumazione del centro e la conseguente moltiplicazione dei centri stessi è stata letta sia come molteplicità di opzioni offerte e di modelli culturali nuovi che arricchiscono la vita sociale e dei singoli, sia come anomia produttrice di ansia e incertezza.
Certamente, la società oggi offre la ricchezza di molteplici possibilità, il più delle volte anche avvertite soggettivamente. Ci riferiamo, come si è da più parti sottolineato, alle condizioni di vita che si aprono a nuovi interessi e occasioni, alla pluralità di possibili scelte, alla molteplicità di appartenenze e di modelli di identificazione (quindi alle molte possibili identità), alla possibilità di sperimentare nuovi ruoli.
Tutto ciò per i soggetti (e ancor più per i preadolescenti) è ovviamente condizionato dallo status socioeconomico, dal peso della cultura familiare, dalle pressioni dei mass media e modelli di consumo, e inoltre dai modelli sociali dei gruppi di appartenenza.
Non si può tuttavia tralasciare il fatto che non sempre necessariamente ciò è avvertito come ricchezza: anche per il ragazzo «normale», che non vive di situazioni di particolare svantaggio, questo stato è anche avvertito come disorientamento, incertezza, perdita di riferimenti valoriali, ansia, pressione dall'esterno su una identità ancora in formazione e quindi debole; e produce anche quella «sindrome di sperimentalismo» così tipica del giovane oggi.
Non entriamo ovviamente nel merito di tali giudizi o modi di lettura del fenomeno; comunque non ci sentiamo di collocarci agli estremi, né con chi intende l'esperienza sociale odierna come una sorta di paradiso terrestre contraddistinto dalla immediata e personale conoscenza del bene e del male, né con chi invece la interpreta come una sorta di esperienza infernale di sofferenza e disperazione.
Strettamente connessa con la complessificazione della società è la differenziazione socioculturale (si dice appunto che la società è oggi complessa e differenziata), con riferimento soprattutto alla dimensione simbolica: intendiamo il pluralismo di fatto (e legittimato di principio) delle società odierne, da cui ne deriva la relativizzazione dei sistemi di significato elaborati e dei processi di socializzazione che intendono trasmetterli.
Dunque, la socializzazione stessa come processo, mediata da quelle istituzioni (come famiglia e scuola) che sono direttamente colpite dai mutamenti attraversati dalla società, viene oggi ad assumere un volto nuovo.
La fase "post-industriale" della società
Accanto alla categoria della complessità, come categoria di interpretazione della società odierna, che privilegia soprattutto l'aspetto «organizzativo» della società stessa, un'altra categoria descrive e interpreta il mondo sociale che stiamo vivendo: quella della società post-industriale. Essa privilegia il punto di vista del modo di produzione, e fa risaltare l'attuale importanza data ai «servizi» e al terziario (avanzato), alle risorse dell'informazione e alle tecnologie intellettuali, alla nuova divisione sociale del lavoro, su scala internazionale. Tale riorganizzazione dei processi produttivi produce, a livello strutturale, un'ampia modificazione della stratificazione delle relazioni sociali. Ciò ha un impatto immediato e rilevante proprio su quelle istituzioni di base che dovrebbero «socializzare» a nuovi stili di vita, orientamenti culturali e aspettative. Ma famiglia e scuola vengono «spiazzate» e si ritrovano marginalizzate (almeno di fatto), rese obsolete, costrette a rincorrere (con buona dose di ansia e frustrazione), in grado forse solamente di preparare a un mondo «che non c'è più».
Senza contare i livelli di ansia dei genitori che non riescono a stare al passo, o non riescono a prevedere un futuro «sicuro» ai figli, o che non sanno verso quali offerte (di istruzione, di occupazione) indirizzare i figli; o della scuola e degli insegnanti che avvertono uno scadimento della funzione formativo-educativa a tutto vantaggio della funzione di istruzione (ma quale istruzione?) e quindi di continui nuovi contenuti da scoprire e da rincorrere.
Un'ulteriore rilevante conseguenza sul piano più propriamente culturale è la percezione dell'insoddisfazione generalizzata che sempre più produce la semplice risposta ai bisogni «materiali» e la conseguente apertura a quella serie di bisogni-valori denominati «espressivi» che sembrano tracciare nuovi modelli di identificazione e di realizzazione di sé, e insieme portare al limite un senso di esasperata ricerca di soddisfazione (che può non essere mai saturata o saturarsi all'interno di forme socialmente non accettabili).
Come effetto direttamente connesso e intrecciato, emerge una tendenza alla cosiddetta «cultura del bisogno soggettivo»: come riduzione interiore del livello di complessità esterna, e come linea di unificazione di base del pluralismo culturale sociale.
I PROCESSI Dl SOCIALIZZAZIONE OGGI
Si diceva che una delle conseguenze più rilevanti prodotte dalla complessificazione della società era la pluralizzazione dei sistemi di significato, e ipso facto la loro relativizzazione.
Ma vengono anche relativizzati (e entrano in crisi) i processi di socializzazione che intendono trasmetterli, che fungono da collegamento, tra la società e cultura nel suo complesso e i soggetti, gli individui.
Parlando della socializzazione, si tocca uno degli argomenti sociologicamente più rilevanti per il rapporto preadolescenti-società.
È quindi necessario esplicitarne la funzione e il mutamento avvenuto.
Cos'è la socializzazione?
La socializzazione è l'insieme dei processi mediante i quali un individuo impara a diventare membro della società è, se si vuole, l'imposizione di modelli sociali sul comportamento. La socializzazione non è un fenomeno poco rilevante: è la garanzia della sopravvivenza della società, della possibilità che una società trasmetta il patrimonio culturale accumulato nel tempo; ma è anche la garanzia dell'esperienza sociale dell'individuo stesso, anzi, è fondamentalmente alla base della formazione della sua identità, personale e sociale: non vi è nessun altro modo in cui la società «entra nel mondo» dell'individuo e l'individuo «entra nel mondo» della società.
I meccanismi utilizzati sono essenzialmente il processo di interazione e di identificazione con gli altri, da quelli più vicini fino all'altro generalizzato che è la società nel suo complesso. Attraverso tali processi (in cui si impara ad assumere l'atteggiamento dell'altro e il suo ruolo), il mondo sociale viene interiorizzato con le sue norme, significati, proibizioni, fino a diventare «interno» all'individuo, connaturale a lui.
Ovviamente questo non è un processo lineare, o che avviene in un asettico ambiente di laboratorio. Alla base vi sono esperienze sociali precise, storico-culturali concrete, e ambienti dove essa è vissuta: principalmente, all'inizio di questo processo, la famiglia con i suoi ambiti di appartenenza e di riferimento.
Per questo il risultato non è mai scontato, data la vulnerabilità psicologica di ogni soggetto, la situazione della famiglia stessa, (o delle altre «agenzie») e le diverse modalità delle pressioni provenienti dal mondo sociale.
Se i processi di socializzazione sono essenzialmente i medesimi, diverse sono le fasi in cui avviene l'ingresso nella società.
Accanto dunque a una socializzazione «primaria», che avviene nei primi anni di vita e porta alla interiorizzazione del «mondo base», vi è un'altra socializzazione, «secondaria», che permette l'interiorizzazione di «sottomondi» legati a un'istituzione, nell'assunzione di ruoli connessi con situazioni sociali specifiche (come il mondo della scuola, del lavoro, i nuovi rapporti sociali...).
La preadolescenza, come età specifica, si definisce appunto come «l'età della transizione» tra la socializzazione primaria e quella secondaria, cioè come quell'età di sviluppo e di crescita che, sulla spinta di una nuova pulsionalità, di nuove motivazioni e interessi, esce da ambiti primari e ristretti, come quelli determinati dalla famiglia di origine, e si apre a nuove forme di socialità e relazione, a nuovi «mondi istituzionali» coi tipici modelli di riferimento.
Questo passaggio si presenta oggi problematico e difficile, sia per la novità che comporta, sia per la complessità sociale di cui si è detto.
Ne vengono coinvolti infatti sia il processo stesso della socializzazione, sia gli ambiti in cui essa avviene, cioè le precise esperienze sociali che ne fanno da supporto e da tramite.
In tal modo, dunque, quello che un tempo era semplicemente un processo omogeneo, relativamente poco problematico, dagli esiti sufficientemente prevedibili, diventa oggi il processo chiave che struttura le nuove identità in forme diverse o anche opposte ai modelli sociali tipici e legittimati.
Intanto le stesse istituzioni vengono di rettamente coinvolte dalla complessificazione sociale, e l'effetto più evidente è quello della perdita di legittimazione.
Ogni istituzione nella società, per così dire, gioca per se stessa, perde il collegamento unitario con le altre istituzioni e la società nel suo complesso, con la cultura che per lunghi secoli di storia aveva avuto la funzione di collante sociale di norme e valori.
Ogni istituzione (oggi) si sviluppa secondo la sua logica, si differenzia, punta tutto su alcune funzioni specifiche; alcune poi perdono ogni rilevanza sociale e restano significative unicamente a livello degli individui. In generale, le istituzioni vengono ritenute incapaci di rappresentare la risposta sociale ai bisogni individuali, e vengono dunque strumentalmente sentite e utilizzate esasperando le funzioni peculiari, e perdendo di vista la loro funzione di collegamento e di rappresentazione dell'intera società.
Così pure per quelle istituzioni che esistono come apparati socializzanti (per così dire, dal tempo della loro nascita): in particolare la famiglia e la scuola.
Sulla loro specifica «crisi» esiste un'abbondante serie di studi. Ne riprendiamo le conclusioni più significative.
LE AGENZIE DELLA SOCIALIZZAZIONE OGGI
Vi sono agenzie di socializzazione «vecchie» e agenzie «nuove». Intendiamo parlare di famiglia, scuola, gruppo e associazioni, mass media.
La tenuta critica della famiglia
Circa la famiglia, le mutazioni strutturali avvenute (famiglia mononucleare con riduzione tendenziale del nucleo e quindi la scomparsa della cosiddetta «società fraterna»; isolamento sempre più accentuato all'interno del tessuto sociale e urbano) le hanno fatto perdere il monopolio della funzione socializzante (delegandola al di fuori di sé), e nello stesso tempo l'hanno portata a accentuare aspetti privatizzanti nella sua funzione stessa (affettivo-espressivi e di consumo).
Si parla in questo caso di particolare vulnerabilità sociale della famiglia, le cui conseguenze a livello di socializzazione sono state individuate soprattutto nella spinta al conformismo, quando non alla totale dipendenza: in ogni caso una carente apertura al sociale.
Quando poi si rivolge l'attenzione alla posizione e al ruolo dei genitori, risalta anche una particolare vulnerabilità psicologica: dovuta alla crisi dei modelli educazionali (sempre in bilico tra permissivismo e autoritarismo), alla percezione della difficoltà a fare oggi i genitori, alle paure del futuro (che, tra l'altro, determinano anche il fatto di non volere figli).
Non solo. Circa la percezione che i genitori hanno del proprio ruolo e della propria capacità di esercitarlo, si nota - alcune ricerche recenti lo evidenziano - la difficoltà dei genitori a percepire correttamente i bisogni espressi dai figli (essi tendono a sopravvalutare le esigenze materiali rispetto a quelle affettive): il punto nodale della crisi sembra appunto la non facilità della comprensione dei modelli comunicazionali e di lettura dei messaggi «simbolici» espressi dai figli.
La famiglia finisce col diventare «strumentalizzata» non solo, come si è detto per la funzione di sostegno affettivo necessario per il consolidamento della propria identità e le necessarie sperimentazioni, ma anche per la tipica funzione di «sostegno economico» e quindi di propensione al consumo individuale.
Essa diventa una «stazione di passaggio», dove manca il tempo per la stabilizzazione dei rapporti, per i confronti generazionali e quindi per la conquista della necessaria autonomia.
Ricerche recenti mettono tuttavia in guardia contro l'eccessivo pessimismo nei confronti della famiglia.
Se è vero che la proiezione nel futuro dei desideri più rilevanti per i preadolescenti non permette di giurare sull'effettiva persistenza della famiglia come istituzione così come oggi si presenta, essa tuttavia resta un fondamentale punto di riferimento e di appoggio (pur con tutti i guai che le si addebitano) per la socializzazione del preadolescente, senza della quale mancherebbero quelle sicurezze «alle spalle» che permettono di buttarsi nel nuovo mondo che ai ragazzi si apre davanti
Anche l'altra grande agenzia istituzionale di socializzazione, la scuola, è investita in pieno dalla complessità sociale, e non sembra aver intravisto la direzione del possibile mutamento e adeguamento al «nuovo» sociale.
Una scuola senza direzione?
Oggi, nel valutare complessivamente la funzione della scuola, si è meno attenti alle tradizionali critiche della scuola come strumento ideologico di conservazione e legittimazione dei rapporti di potere in atto.
Oggi si sottolineano altri livelli di critica: uno più a rilevanza sociale (isolamento dalla realtà sociale, ghettizzazione e riduzione ad area di parcheggio, per lo scadimento dei contenuti formativi e di conoscenza e il distacco dal mondo del lavoro; continua ambivalenza tra la funzione di educazione e quella di istruzione; tendenza a creare nuove stratificazioni a tutto vantaggio delle quote più avvantaggiate culturalmente e economicamente; poca apertura alle innovazioni...); l'altro si riferisce al rapporto educativo e di comunicazione tra insegnanti e allievi, perlopiú improntati a modelli eccessivamente «formali».
Dalla parte dei ragazzi, le ricerche mettono in risalto una certa qual accettazione, grosso modo, della scuola e valorizzazione delle sue funzioni «istituzionali» (insegnamento e preparazione professionale).
Essa comunque sembra aver perso un'altra delle sue funzioni (latenti ma essenziali), quella di essere occasione di nuove socializzazioni «orizzontali».
Se negli anni passati questo era stato vissuto in modo molto intenso, oggi la situazione appare alquanto mutata: ciò avviene in minima percentuale ed è espressione di un crescente individualismo nei rapporti tra coetanei, che fa sì che gli amici vengano cercati «fuori» e le attività di studio insieme siano sempre più ridotte.
E ancora, tale crescente individualismo si sposa con l'accettazione passiva dell'istituzione così com'è, con le sue funzioni e carenze; o che comunque questo da alcuni venga vissuto come periodo di passiva attesa (ma con quali effettive speranze?) a un futuro dai contorni incerti, senza che si senta l'esigenza di gestire in prima persona la tensione al mutamento.
Il gruppo dei pari il luogo della "nuova" socializzazione
Parallelamente alla crisi o all'indebolimento delle agenzie socializzanti istituzionali, si assiste a un progressivo spostamento del momento socializzante verso agenzie «informali» (gruppo dei pari e mass media).
L'ipotesi su cui è costruita ogni ricerca su soggetti che escono dalla fanciullezza sottolinea imprescindibilmente questo aspetto: dovuto non solo ai nuovi bisogni-interessi tipici di un'età appunto di sviluppo e «transizione», ma anche per «bisogno di socializzazione», per riempire quel «vuoto» personale e sociale lasciato dalle socializzazioni precedenti per esigenza di scoperta di un ruolo più attivo o protagonista. Le energie lasciate libere - o quasi - dal profondo coinvolgimento emotivo vissuto nella famiglia (o dall'impiego tipico scolastico) trovano spazi aperti in cui i preadolescenti possono buttarsi.
Si è parlato di una nuova fase della socializzazione succeduta a quella familiare: «spontanea» (o selvaggia), che si nutrirebbe di disimpegno e mancanza di vincoli istituzionali, e «dal basso».
Oggi si preferisce parlare di nuovi luoghi e modi di socializzazione: il passaggio da quella primaria a quella secondaria, il passaggio da meccanismi verticali a quelli orizzontali: «Alla famiglia come centro dei processi di socializzazione si è andata progressivamente sostituendo una struttura policentrica di cui la scuola e le diverse forme di aggregazione di tipo generazionale - dalle più fluide e informali alle più istituzionalizzate - costituiscono gli elementi portanti... Ma il cambiamento investe anche i modi, oltre che i luoghi, della socializzazione, cioè i meccanismi attraverso cui i modelli culturali si costituiscono: ad una trasmissione di tipo verticale dai padri ai figli, 'da generazione a generazione' tende a sostituirsi un altro tipo di trasmissione, che procede per linee orizzontali, da una leva giovanile all'altra. Anzi più che di 'trasmissione', a questo punto, occorrerebbe parlare di 'interazione': il fatto che la trasmissione avvenga lungo linee orizzontali, in cui prevalgono le relazioni tra pari, fa sì che la trasmissione stessa non sia più riducibile a mera riproduzione di modelli dati ma possa anche funzionare come produzione di contenuti nuovi».
Dal punto di vista «strutturale» (l'esame cioè sia del gruppo dei pari come dei mass media come agenzie socializzanti), si sono sovente messi in risalto i seguenti aspetti.
Per quanto riguarda il gruppo dei pari si sottolinea in genere il fatto che esso soddisfa principalmente tre esigenze: fornisce un modo e dei luoghi di apprendimento del sociale; dà conferma o legittima il rifiuto di modelli di comportamento e/o di conoscenza altrimenti acquisite, dà fiducia al ragazzo che vive pratiche di socializzazione poco definite e rassicuranti.
Si sottolinea inoltre che il gruppo spontaneo si presenta con modalità omogenee, e con alcune differenziazioni dovute al sesso, all'età e al ceto sociale (i maschi si frequentano con maggior assiduità; coll'età si passa da modalità prevalentemente unisessuali a eterosessuali; le difficoltà a inserirsi nei gruppi misti, la povertà delle scelte di attività e degli argomenti di discussione - prevalentemente di tipo evasivo - penalizzano i ragazzi a «basso» livello di estrazione socio-culturale).
In ogni caso, il gruppo «spontaneo» sembra prevalentemente orientato a essere un contesto di «attività comuni», di volontà di «fare insieme», piuttosto che di «stare insieme», che diventa sempre più tipico di fasi di età più avanzate e di modalità nuove (adolescenziali) di relazioni e di crescita del sé.
Quanto ai gruppi «associati per attività», si notano alcune grandi aree associative (decrescenti quanto a percentuali di frequentanti): sportiva, formativa, espressiva, culturale.
Anche qui, tuttavia, l'esperienza di gruppo e di attività svolte assumono propriamente un carattere di «autocentramento», nel senso che gruppo e attività sono vissute come supporto alla auto espansione, luogo di espressione e rafforzamento di sé, di riconoscimento reciproco e di valorizzazione.
Una certa tradizione sociologica nell'analisi del gruppo dei pari accertava la loro funzione innovativa - a volte dirompente - nell'apprendimento sociale, almeno rispetto alle agenzie familiari e scolastiche: venivano messi in risalto i contenuti sostitutivi o anche alternativi, oltre che le modalità nuove di socializzazione. Forse questa è stata un'indebita trasposizione al campo della preadolescenza del gruppo dei pari giovanili o adolescenziali, e in periodi segnati da precise esperienze sociali.
Oggi sembra che si debba accentuare la funzione integratrice del gruppo, quando non di adattamento passivo e legittimante di comportamenti consumistici, di moda, imposti dall'esterno.
I massi media: l'agenzia vincente?
Circa i mass media (la televisione in particolare, come la forma più frequentemente utilizzata; ma non si devono dimenticare quelle legate all'industria della musica, del fumetto e dei «nuovi consumi»), si può anzitutto osservare come per questo settore si possa davvero parlare di vera alternativa «scuola dell'obbligo». Sia per il numero delle ore ad essi dedicate (il tempo trascorso in ascolto-visione della TV o in ascolto della musica è di gran lunga superiore a quello «passato coi familiari»), sia perché la TV cattura più facilmente attenzione e interesse, sia perché essa offre contenuti che per tecnica e varietà risultano «vincenti», capaci di trasportare nel mondo della fantasia, dell'immediatezza, del facile protagonismo. Gli studi più recenti mettono in risalto la precarietà e la limitatezza (soprattutto del mezzo televisivo) per quanto riguarda gli effetti di socializzazione. E in particolare: i contenuti della socializzazione sono essenzialmente (al di là degli aspetti «informativi») legati a modelli di identificazione del mondo dello sport e dello spettacolo, grappoli di valori costruiti sull'effimero e sulla moda, sul successo, sull'avere; e le modalità di essa sono collegati con la passività della recezione TV, che sostituisce il dialogo-confronto con gli altri; l'impoverimento della capacità di fare esperienze e di percezione del reale, con fughe nell'immaginario e presunzioni di onnipotenza; la semplificazione delle situazioni e dei giudizi anche morali, l'impoverimento della capacità espressiva e del linguaggio.
In una parola, il bagaglio culturale di cui lentamente si appropria il preadolescente, sembra sempre più legato ai mezzi di comunicazione di massa che non all'incontro con il reale nell'esperienza diretta (che implica l'uso del tempo, l'esperienza del limite, la responsabilità e la capacità di collaborazione, di intelligenza creativa) e nel rapporto con persone significative.
Non devono tuttavia essere sottaciuti gli elementi positivi, legati alla novità e ricchezza di tanti interessi e contenuti offerti, alla creazione di nuovi atteggiamenti verso il reale, alla possibilità di «scarica» di diverse tensioni e dell'atteggiamento di violenza, alla sollecitazione della fantasia, all'offerta di nuove possibilità espressive.
Tutto ciò sembra comunque possibile soltanto ai più avvantaggiati, e pertanto a coloro che sono «favoriti» da condizioni (familiari, di ceto) socioeconomiche e culturali o associative.
CON QUALI ESITI? LE IDENTITÀ "IMPERFETTE"
Dopo un esame (relativamente affrettato) di tipo sociologico sulla società oggi, sulle mutazioni di struttura e di funzione delle cosiddette agenzie socializzanti, sulle modalità della cultura, resta aperta la domanda sugli esiti (probabili) della socializzazione, sul tipo di adolescente che ne verrà fuori: in una parola sui possibili esiti dell'identità.
Uno degli studi più recenti ha coniato l'espressione «identità imperfette» per riferire del probabile esito dei processi descritti. La pluralizzazione dei sistemi di significato (con la conseguente relativizzazione, competitività e frammentazione), l'emergere di una dimensione «debole» nei confronti della realtà (come unica in grado di sopportare la complessità), il presentismo come dimensione del vivere (perché solo il presente è sicuro e dominabile), il consumismo come modello di comportamento e di uso del tempo libero, il freno alla tensione alla crescita, il mutamento della gerarchia delle agenzie socializzanti, le carenze di relazione educativa e di un ruolo di presenza-sostegno degli adulti... disegnano per i preadolescenti uno spazio di vita sostanzialmente di vuoto, di abbandono, di solitudine: proprio nel momento di crescita in cui diventa prorompente l'esigenza di un cammino dove incanalare le energie e le spinte vitali. Sostanzialmente, alle cosiddette «identità imperfette» si arriva attraverso una duplice esperienza di socializzazione, esperienza che sembra essere l'usuale esito della situazione odierna: l'iposocializzazione e l'ipersocializzazione.
Tra iposocializzazione e ipersocializzazione
La prima è l'esperienza di interiorizzazione carente o poco sviluppata (da parte del soggetto) della cultura sociale elaborata collettivamente dalla società: essa lascia il preadolescente indifeso nei confronti della realtà, senza gli strumenti per la sua crescita individuale e sociale, con grandi carichi di ansia, socialmente portato al gregarismo o alla dipendenza.
Il preadolescente iposocializzato trova difficoltà a individuare e canalizzare in forme socialmente accettabili i suoi bisogni, o comunque privatizza a suo uso e consumo ciò che viene offerto come risposta nelle relazioni o dalla società, attraverso pratiche occasionali, utilitariste, tese immediatamente alla soddisfazione del bisogno; si dimostra inoltre incapace a gestire con successo la precarietà, e i suoi atteggiamenti sono caratterizzati da incoerenza e pragmatismo, quando non cinismo.
L'esito più tipico è quello dell'isolamento, del rifiuto degli altri o della fuga (in qualunque modo gestita), e si trova facile preda di proposte autoritarie e totalizzanti, dell'integrismo come pratica di gruppo o vissuto individuale.
L'esperienza opposta è quella dell'ipersocializzazione, o socializzazione eccessiva: la tendenza ad assumere atteggiamenti di risposte ideologiche rigide che danno il senso della sicurezza, e denotano incapacità ad accettare il pluralismo e un alto grado di manipolabilità, conformismo e mancanza di criticità. Il preadolescente ipersocializzato è sempre alla ricerca di conferma o consenso, lega la sua identità alla risposta degli altri, limita la sua incapacità di autonomia e di personalità, ricerca gli altri come unico conforto e sostegno delle sue paure, unica possibilità di realizzazione.
L'esito più tipico è quello dell'indottrinamento o dell'intruppamento all'interno dei gruppi «forti», accettazione acritica del leader con identificazione fortemente emotiva, forte carica di aggressività e paura delle differenze.
L'esperienza sociale della preadolescenza si presenta così come una esperienza di assenza e di sradicamento: al vuoto prodotto dallo scadimento delle istituzioni socializzanti, alla crisi comunicazionale con la società e con gli adulti, col ripiegamento sul presente, col diffondersi di interessi e consumi segmentati ed estremamente settorializzati... non fa meraviglia che corrisponda una specie di riempimento di atteggiamenti volti sempre più al consumo come forma surrogatoria; e, come sembrano rilevare ricerche recenti, però perlopiú riferite agli adolescenti, la ricerca di «nuove autorevolezze», o sulla strada di nuovi valori o nell'ambito «materno» di nuove appartenenze.
La «personalità preadolescenziale» che ne deriva, come ipotesi, come effetto di mancata o eccessiva socializzazione, sembra il terreno sempre più debole del gioco delle diverse componenti sociali, facile preda dell'appiattimento e dell'omogeneizzazione.
UN RUOLO PER I PREADOLESCENTI?
Le indicazioni fin qui offerte individuano un pesante condizionamento della struttura e cultura sociale sul mondo della preadolescenza: essa ne viene modellata, forse anche schiacciata. La connaturale debolezza o fragilità di questa età si scontra con l'enorme influsso «esterno», in assenza di un'adeguata rete protettiva stesa dalle istituzioni educative che funga da filtro. I «messaggi» provenienti dall'esterno si sposano così con la naturale tendenza all'apertura verso il mondo tipica dell'età e fanno saltare la progressione delle tappe.
La socializzazione si presenta così come il canale attraverso cui la società prevarica nel mondo della preadolescenza, attraverso meccanismi impositivi, obbliganti, che tendono a ottenere il consenso, la conformità, l'adattamento. Il preadolescente finisce per essere un soggetto (ma quanto soggetto?) prevalentemente passivo, adattivo, senza grosse possibilità di intervento personale.
Tale socializzazione, lo si è visto, passa attraverso l'assunzione dei ruoli (i ruoli sono intesi come l'insieme delle norme e delle aspettative che convergono su un individuo in quanto occupa una determinata posizione in una rete di relazioni sociali), cioè attraverso l'assunzione di atteggiamenti che rendono il proprio comportamento prevedibile e complementare a quello degli altri che entrano in relazione.
Per essere attivi e protagonisti
Fin qui nulla di nuovo.
Ma forse quella del «ruolo» è una prospettiva che permette di far entrare nella socializzazione stessa quella parte di «protagonismo» attivo nella relazione dei preadolescenti con la società, primo passo per un discorso in chiave educativa.
Essa è una via per prendere coscienza e assumere attivamente la propria crescita e sviluppo sociale.
Due sono i motivi per sottolineare l'importanza di questa prospettiva. Anzitutto i ruoli sono il modo concreto di entrare in contatto con la società e le istituzioni con «gli altri». Oltre a indirizzare la pulsionalità e frenare l'istintualità, permettono un certo protagonismo, sono modi di assunzione di responsabilità limitate e guidate, aumentano e dirigono gli interessi, aprono a nuove possibilità e vie di realizzazione.
Entrare nel mondo della scuola, per il preadolescente, significa immediatamente «fare lo scolaro», in atteggiamento di passiva e acritica accettazione di ciò che l'istituzione scolastica propone (impone?) in vista dei suoi compiti precisi.
Assumere come soggetto il ruolo dello scolaro - quando questo è possibile e si è sollecitati a farlo - esige un contatto critico con il mondo della cultura, di valutare il collegamento realtà sociale-cose studiate, di entrare in relazioni «corrispondenti» con gli adulti chiamati a vivere il ruolo di insegnanti. La relazione corrispondente e significativa scolaro-insegnante permette di entrare in contatto attivo col mondo istituzionale che la scuola presenta e offre, dove la tendenziale passività finora ordinaria nel ruolo di scolaro viene sollecitata, potenzialmente frantumata, dalla presenza del ruolo corrispondente da parte dell'adulto, più ricco di mezzi e strumenti critici.
Il secondo motivo dell'importanza del ruolo è che esso è la via per l'identità personale e sociale. Si diventa qualcuno, se stessi, assumendo compiti, interagendo, diventando soggetto non manovrato, di volta in volta figlio, scolaro, amico, membro del gruppo, appartenente a qualche associazione... costruttore della propria vita. In una parola, differenziandosi e relazionandosi.
Ma, ancora una volta, cosa succede oggi nella società a tale riguardo? Per il preadolescente, i ruoli che gli sono conferiti e che dovrebbero via via permettergli di sperimentare la vita sociale e di acquisire un'identità, sono segnati da una strutturale (imposta?) ricettività e passività, da assenza del riconoscimento di protagonismo/attività/responsabilità.
Egli assume il ruolo di figlio, scolaro, catechizzato, consumatore... sperimentando ancora una volta la costrittività di relazioni verticali, che lasciano poco spazio di attività e reazione, l'imposizione di modelli ritenuti indiscutibili, il compito di pura ripetizione dell'esistente che non permette variazioni e che impone il consolidamento del modello stesso.
Dal punto di vista della società il preadolescente è solo soggetto di doveri, di compiti, di imposizioni: quasi un freno alla ricchezza di pulsioni e attività tipiche dell'età. Non solo, ma egli deve accettare positivamente di essere «passivo», pena il rifiuto o l'emarginazione, l'imposizione di sensi di colpa.
Non ne deriva, oltre una strutturale debolezza e fragilità dei soggetti, una predisposizione a lasciarsi catturare da modelli "forti" o che almeno si impongono in virtù di un'estrema semplificazione delle cose, potenzialmente distruttivi?
A ciò si aggiunga il fatto che molte volte la strutturale forza degli adulti permette loro di non stare «alle regole del gioco», con atteggiamenti non corrispondenti; o che le diverse agenzie (in contraddizione tra loro) fanno entrare in «conflitto di ruolo», senza offrire i necessari strumenti per farvi fronte.
Tutto ciò può spiegare facilmente atteggiamenti, da parte del preadolescente, di rifiuto, fuga, aggressività, autoemarginazione, devianza...
Non per nulla - anche da questo punto di vista emerge l'importanza del gruppo dei pari o delle associazioni - forse soltanto nel ruolo di compagno-amico-membro del gruppo emergono possibilità di protagonismo, di attività, di novità: pur con tutti i rischi connessi alla realtà del gruppo (quale modello di gruppo diventa predominante nelle scelte - anche inconsce - del ragazzo? come metterla con la povertà della cultura del gruppo stesso?).
Paradossalmente, a volte sono proprio i mass media ad offrire la possibilità di esercitare ruoli potenzialmente più attivi, quando viene sollecitata la fantasia o la capacità critica, o quel certo distacco che si assume quando si riesce a «discutere» dei programmi visti.
La prospettiva sociologica del ruolo - adeguatamente compresa e assunta all'interno di una presenza educativa adeguata e personalizzante da parte degli adulti - può essere una modalità più critica e attiva nel processo di «entrare nella società» da parte del preadolescente; e può sottolineare quegli aspetti che vengono invece negati o sottaciuti nei processi di socializzazione finora attuati. La proponiamo come domanda non solo per comprendere meglio il mondo dei preadolescenti, ma anche per permettere di intravvedere nuovi itinerari di crescita, nuovi piccoli «centri» di attività e di atteggiamento unificanti e strutturanti.