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    I riferimenti antropologici

    dell'animazione

    con i preadolescenti 

    Mario Delpiano

    (NPG 1986-06-70)

    In un precedente contributo (NPG 2/86) abbiamo cercato di operare una lettura della preadolescenza con lo sguardo educativo di chi, assumendo il modello dell'animazione, accetta continuamente di lasciarsi provocare dalla realtà dei preadolescenti e ne coglie le sfide.

    VERSO IL PROGETTO

    Andando oltre l'elemento descrittivo, l'animazione è capace di cogliere proprio nella novità la ricchezza del soggetto in crescita, e di individuare inoltre le possibili direttrici di sviluppo di quel modello d'uomo che si porta dentro.
    Insieme alle promesse, essa individua anche i rischi e le probabili involuzioni nel divenire dei preadolescenti. Scorge l'ambiguità di certi segni premonitori di morte, perché rivelatori di potenziali «chiusure» del preadolescente su se stesso, di sradica- mento dal tessuto culturale e sociale, di rassegnazione sul presente senza prospettiva temporale, di fuga dalla presa di coscienza della realtà e quindi dalla responsabilità.
    Il cammino che intendiamo percorrere va oltre la lettura educativa, pur accogliendo il suo contributo. È nella direzione del «progetto». Ci interroghiamo anzitutto sugli obiettivi.
    Ci domandiamo: quali obiettivi per l'animazione coi preadolescenti oggi? Non devono forse nascere da un dialogo fecondo tra quello che l'animazione pensa sull'uomo e quello che le analisi, filtrate dall'ottica educativa, ci dicono intorno a questo universo di soggetti?
    Una definizione degli obiettivi dell'animazione deve sporgersi oltre il generico, oltre quelle formulazioni che calzano per ogni stagione della vita e per ogni latitudine. Perciò gli obiettivi che l'animazione persegue con gli adolescenti e i giovani crediamo non possano essere «trasportati», e quindi genericamente riproposti, nella definizione del progetto di animazione coi preadolescenti.
    Occorre invece fare i conti con i compiti evolutivi propri di questa età, nella concreta situazione socio-culturale entro cui i preadolescenti si trovano a vivere l'avventura delle loro «migrazioni».[1]
    Nel tentativo di definire obiettivi misurati all'età della preadolescenza attuale, bisognerà mettere in moto una circolarità feconda tra due elementi chiamati in gioco precedentemente: il contributo emergente dalla analisi della situazione e le «coordinate» di riferimento sull'uomo e sull'educazione che l'animazione mette in gioco. Nel presente contributo non attiveremo ancora questa circolarità, ma ci soffermeremo, anche se in maniera sintetica, ad esplicitare le precomprensioni che sottostanno a questa operazione, cercando di evidenziare le coordinate che delimitano il modello antropologico dell'animazione e che ne fanno un modo chiaramente «collocato» di fare educazione: cioè con una propria filosofia della vita e visione dell'uomo. Vuol essere soprattutto una sollecitazione a quanti, attraverso l'attenzione e la preoccupazione educativa verso i preadolescenti, si accostano per la prima volta al modello dell'animazione culturale. Si tratta di elementi ampiamente sviluppati altrove e che vengono ripresi e ripensati.[2]

    L'«A MONTE» DELL'ANIMAZIONE

    L'animazione è una qualità che può esserci o non esserci nel fare educazione. Quando questa qualità viene ricercata da chi fa educazione, essa pervade e qualifica, specificandola, l'attività educativa. Diviene perciò un modo di fare educazione.
    L'animazione si colloca pertanto all'interno della prassi educativa che riflette in continuazione su se stessa, si autocomprende, si definisce in un progetto, si verifica.
    In quanto attività percorsa da una forte intenzionalità, prassi appunto illuminata da un progetto, l'animazione è arte, slancio, uscita verso il non ancora, scommessa e perciò anche rischio, solo in parte calcolato, sul reale e sulle sue possibilità di evoluzione e di cambio.
    L'animazione è un «operatore» (singolo e comunità) che interesse relazioni comunicative capaci di raggiungere e modificare intenzionalmente l'altro, gli altri, il gruppo. Consapevole e disponibile, al tempo stesso, ad essere modificato ed arricchito dallo scambio.
    Spesso all'«esterno», a colui cioè che non fa professione di educatore, oppure in certi momenti critici anche all'animatore, sorgono improvvisi e laceranti alcuni interrogativi: cosa spinge a fare animazione? Per quali ragioni e con quale diritto sollecitare alla maturazione e al cambio le persone, intessendo con esse relazioni di scambio sul terreno della comunicazione culturale? Perché ricercare l'umanizzazione delle persone sul terreno dell'educativo, e non «altrove»?
    Perché dunque educare? E poi è davvero possibile educare oggi i preadolescenti, quando essi appaiono come raggiunti da molteplici agenzie che se li contendono in qualità di spettatori, consumatori, soggetti da addestramento, o «specie vivente» sempre più rara da proteggere con le attenzioni più sofisticate?
    Nella ricerca di risposte soddisfacenti a questi interrogativi fondamentali, l'animazione vuole giocare a carte scoperte.
    Alle domande che ricercano le ragioni che fondano e legittimano la sua stessa esistenza e il suo peculiare intervento sulla realtà, essa «mostra» i suoi motivi, quelle scommesse sulla storia e sull'uomo, sui preadolescenti stessi, che diventano così la sua «grande causa».
    Non sono ragioni che costringono alla condivisione del suo giocarsi per l'uomo, né sono capaci di piegare gli irriducibili a rischiare la vita: sono il suo orizzonte di senso, ciò in cui essa crede, la ragione del suo operare, ma anche la sua speranza, l'utopia di cui non riesce a fare a meno.

    L'amore alla vita

    La prima grande ragione, che è davvero come la molla di tutto il processo educativo, che ne è un po' come l'anima, è costituita da un amore appassionato per la vita in tutte le sue forme, ma in modo eminente per l'apice della sua espressione qualitativa: l'uomo.
    E per la vita dell'uomo l'animazione si autocomprende come servizio per la crescita e l'espressione del ricco potenziale umano che ogni persona, anche se ancora all'inizio del suo cammino di umanizzazione, porta in sé come in germe.
    Per l'animazione «vale davvero la pena» servire, attraverso la mediazione dei processi educativi, questa vita nell'uomo, e nelle concrete forme attraverso cui si esprime, dal momento che essa non perde mai, in nessun caso, la sua dignità e la sua ricchezza misteriosa. Appassionandosi a questa modalità concreta attraverso cui la vita si esprime nell'uomo, l'animatore appare colui che è disponibile a «mettere in gioco» la propria vita nel rischio e nella fatica di un rapporto: per dilatare il miracolo della vita che fiorisce nel tempo.
    La sua passione nel coltivare la vita si traduce così in fiducia, e diviene scommessa sulla possibilità di liberare la vita in ogni uomo, in ciascuno appunto; anche in coloro nei quali essa sembra spegnersi nel suo slancio, o arrendersi, o ancora regredire in espressioni che hanno sapore di morte, più che di vita. Una fiducia dunque che è la scommessa sulla possibilità di scatenare processi di liberazione nella vita in ogni preadolescente, e questo a partire dagli ultimi Infatti la liberazione della vita a partire dalle sue espressioni più disperate è davvero capace di scatenare processi sempre più ampi e profondi di liberazione, che coinvolgono fascie sempre più ampie di soggetti, e livelli sempre più profondi di vita da liberare.
    La vita restituita a se stessa, strappata alle dinamiche di morte, è davvero «contagiosa».

    Le ragioni di una concezione ottimistica dell'uomo

    Questa grande scommessa, questa passione per la causa della vita di ogni preadolescente, non sgorga da una superficiale quanto autosufficiente ed ingenua comprensione dell'uomo nel suo divenire storico.
    L'animazione non è un'antropologia dell'onnipotenza, né coltiva il sogno di un'esaltazione emotiva e irrazionale dell'uomo; non è un'antropologia «a metà». Fedele al principio di realtà, essa non ha paura di aprire gli occhi su tutta la realtà dell'uomo. Non rifiuta di guardare anche all'«ombra» nell'uomo, e di cogliere, riconoscendola ed accettandola, la sua fragilità, il suo limite, i fallimenti storici, le dinamiche di autodistruzione (magari collettive) latenti o manifeste nell'epoca attuale, che sono però la negazione della vita e la sua minaccia.
    L'animazione tuttavia non resta «passione inutile» attorno all'uomo ed alla vita. Ritrova dunque un fondamento ottimistico che sostiene la sua fiducia, «oltre» la sua autocomprensione sapiente.
    Essa si radica su un evento «religioso»: l'uomo stesso, proprio a partire dalla sua piccolezza e fragilità, l'uomo aggredito dalla morte, e perciò soggetto alla «maledizione», è diventato la passione stessa di Dio, la sua grande causa, e perciò soggetto di «benedizione».
    L'avventura collettiva di autoliberazione e l'impegno per conseguirla non restano vani né inutili né illusori. Essi si incontrano felicemente con l'impegno «storico» in cui Dio stesso si è compromesso.
    Questa passione sconfinata e questo impegno decisivo da parte di Dio per l'uomo hanno avuto nome, volto, corpo: nell'avventura storica di Gesù di Nazareth. In questo evento l'animazione trova una risposta gratuita e inaspettata alla domanda di vita dell'uomo, alla sua aspirazione a vivere in pienezza. Alla luce di questa «storia» essa gioca sul sicuro la sua scommessa per la liberazione.
    È dunque in questo evento colto nella fede che l'animazione radica il proprio amore alla vita.

    Educazione: grandezza e povertà

    La passione per la vita si concretizza in tanti modi, quante sono le attività attraverso cui l'uomo organizza la propria vita e trasforma, con lo strumento della cultura, il mondo entro cui vive.
    Tra tutte le attività, l'animazione ne privilegia una, quale ambito specifico di intervento: l'educazione. Si tratta di una via poco percorsa, debole, che si colloca al di fuori di ogni prospettiva puramente strumentale o dettata dal criterio dell'efficienza e dell'utilità.
    Il gesto di sostenere, accompagnare, favorire il «piccolo uomo» nel cammino di riappropriazione della vita, attraverso la dilatazione della coscienza e degli spazi di libertà, fino a che si renda capace di accogliere la sua vita come qualcosa di grande e di misterioso, è un gesto grande, gravido di conseguenze, capace anche di riempire di senso la vita di colui che lo compie.
    In questo contesto l'animazione si auto- comprende come prassi educativa: come insieme di interventi mirati a questa grande finalità, metodologicamente organizzati e pensati dentro un progetto.

    IL PROGETTO DELL'ANIMAZIONE

    Una seconda direzione lungo la quale esplicitare l'«a monte» dell'animazione va riferita al progetto o, se si vuole, al modello d'uomo che mette in gioco. Ci riferiamo a quelle che sono state definite le «coordinate» attraverso cui identificare, entro certi limiti, l'uomo secondo l'animazione.
    Ogni approccio all'uomo, come ogni intervento su e con le persone, esige la messa in gioco di «un certo modo» di pensare l'uomo e quindi di rapportarsi e di agire con lui. E il pluralismo in campo educativo sta ad indicare soprattutto la pluralità di modelli d'uomo che nell'educazione vengono giocati. Ciò non è indifferente, in ogni momento della progettazione, dall'analisi alla definizione della metodologia.
    Anche su questo punto l'animazione mette in gioco il suo modello.
    Tenteremo perciò di indicare alcuni punti- cardine irrinunciabili nel considerare l'uomo, e lo faremo direttamente in riferimento al preadolescente.
    Risponderemo alle domande: a quale uomo pensa l'animazione, quando si propone come servizio educativo al preadolescente? Qual è la precomprensione che fa da filtro nell'interpretare la realtà del preadolescente attuale e nell'orientare la definizione dell'obiettivo-uomo in termini ideali? L'obiettivo è nell'ordine e sulla linea del «dover essere», dell'ideale, del possibile (intuito, sognato o sperato). L'obiettivo non può dunque essere dedotto immediatamente dall'analisi del reale, così come non sarà mai praticabile se non agganciato alla situazione reale con uno scambio di dare e ricevere.
    Il momento progettativo richiede allora l'introduzione di una lente propria, cioè di un reticolo di comprensione e di organizzazione degli elementi, che diviene come il quadro ideale e culturale di riferimento, grazie al quale appunto i bisogni vengono letti in termini di domanda educativa, i compiti evolutivi collocati nell'orizzonte degli obiettivi pedagogici, l'azione di socializzazione e di inculturazione operata dalla società ricompresa e ricollocata nell'ambito dell'azione educativa.

    Il preadolescente come soggetto complesso

    Una prima fondamentale coordinata del modello d'uomo dell'animazione spinge a pensare il preadolescente come un «sistema complesso»: cioè come una pluralità di componenti che non restano isolate o giustapposte tra loro, ma sono di fatto in reciproca interazione e tra loro interdipendenti. Tali elementi si interconnettono in modo tale che si comportano e reagiscono come una «totalità» complessa ed articolata, che non si riduce alla semplice somma delle parti.
    Con questo l'animazione pensa al preadolescente, e all'uomo in genere, come una realtà unica e complessa, che è simultaneamente corpo e psiche, emotività e razionalità, in espansione nello spazio fisico e sociale come in quello linguistico e culturale, tessitore di relazione nuove e sempre più ampie, costruttore di un «mondo» simbolico entro il quale rappresenta e riorganizza la propria esperienza.
    L'animazione intende assumere la realtà pluriforme in cui il preadolescente appare e si manifesta nella globalità. Così facendo, essa si oppone a quelle concezioni della persona che ne spezzano l'unità, che hanno la pretesa di scomporre il soggetto per comprenderlo, e di agire sulle «singole parti» e non sulla totalità.
    Le concezioni educative che rifiutano l'assunzione della globalità dell'intervento restano prigioniere di una visione del preadolescente «a compartimenti stagno», e smarriscono la possibilità di salvare l'unitarietà e l'originalità irriducibile della persona.
    Ancora oggi registriamo la predominanza di prassi educative che trattano il preadolescente a «scomparti», quasi sezionandolo: che pretendono o si curano soltanto di agire sulla sua corporeità, o su alcune delle sue dimensioni psichiche, senza considerare l'interconnessione con le altre «parti». L'animazione denuncia quelle prassi che intendono sollecitare l'idealità, l'elaborazione del mondo simbolico, misconoscendo il loro nesso inscindibile con l'esperienza e l'uso del corpo, il coinvolgimento delle componenti emotive ed affettive, coscienti e inconsce.
    E da questa carenza di prospettiva che nascono tutta una serie di progetti parcellizzati, che sembrano interessarsi di alcune dimensioni soltanto del preadolescente, esaltando magari la componente ludico-motoria insieme a quella corporea, ma trascurando invece le sue ripercussioni su quella etica o magari su quella religiosa.
    Dal punto di vista dell'animazione, invece, ogni attività, ogni processo educativo, per quanto specifico e settorializzato, ha una incidenza ed una ripercussione sulla globalità della persona del preadolescente. Ogni intervento e ogni processo coinvolgono tutto l'uomo.
    L'animazione giudica inadeguato un certo modo di «polverizzare» i bisogni e gli interessi del preadolescente, di costruire ipotetiche gerarchie di bisogni e di interessi più o meno «nobili» o culturalmente rilevanti. Tutti gli interessi hanno la capacità di attivare processi globali di crescita e di umanizzazione, ma a condizione che se ne colga l'interconnessione.
    Per dire tutto ciò con una metafora, può essere utile immaginare ogni attività, bisogno, interesse del preadolescente come il movimento su di una circonferenza: ogni punto (parte, elemento, componente) ha una sua precisa e identica relazione con il centro e con la totalità della figura, anche se nessuno ha la prerogativa di essere «più» vicino al centro del sistema, né possiede una posizione privilegiata. Nello stesso tempo, da qualsiasi punto della circonferenza è possibile con un movimento percorrere l'intera figura, cioè raggiungere la totalità.

    Il preadolescente e lo scambio con l'ambiente

    Un secondo riferimento essenziale da tener presente nel considerare il preadolescente è quello di interpretarlo come sistema «aperto».
    Il sistema chiuso è quello che non ha scambi con l'esterno, quello in cui l'equilibrio interno tende verso lo zero: lo stato di quiete che ha il sapore della morte.
    La vita è possibile solo tra i sistemi aperti, nei quali vige lo scambio e l'accrescimento di energia.
    Il preadolescente è sistema aperto perché realizza un continuo processo di scambio di energia, di materia, di informazione, con l'esterno, sia esso costituito da altri sistemi- uomo, da gruppi o dai sistemi sociali, come la famiglia e gli altri ambienti educativi o formativi, o dal mondo naturale stesso.
    La legge dello scambio reciproco è la condizione di esistenza e di conservazione dei sistemi viventi.
    Non è possibile, per comprendere e modificare un sistema vivente, considerarlo isolatamente, fuori dalla rete degli scambi.
    Il preadolescente, come sistema aperto allo scambio, viene modificato dall'azione molteplice e a volte anche contraddittoria dei sistemi esterni che definiscono il suo «ambiente», ed è perciò altamente plasmabile, mentre, con la sua stessa azione di ritorno, opera a sua volta una trasformazione dell'equilibrio dei sistemi esterni.
    Tutto ciò offre una base ampia e coerente ad ogni intervento educativo.
    Educare, dentro una concezione sistemica, i preadolescenti, significherà allora cercare che si realizzino sempre più adeguate possibilità di scambio tra i preadolescenti e sistemi esterni, cioè tra preadolescenti e famiglia, preadolescenti e gruppi diversificati di appartenenza, come classe-scuola, gruppo degli amici, gruppi ecclesiali, sistemi molteplici di informazione, agenzie del tempo libero.
    Per questo occorrerà superare una concezione unidirezionale del processo educativo, scoprendone la doppia polarità e i flussi di andata e di ritorno che sempre si innestano, ponendo soprattutto l'attenzione sullo sviluppo della capacità di elaborare la risposta, negli scambi che avvengono, da parte dei preadolescenti stessi.
    In questa prospettiva, inoltre, educare non sarà solo realizzazione di scambi tra preadolescenti ed ambiente; richiederà all'educatore la consapevolezza che il soggetto possiede e viene man mano costruendosi una modalità propria, peculiare, di elaborare e selezionare le risposte, di regolare gli scambi: è il sistema stesso che definisce il proprio programma.
    L'attenzione ed il rispetto, ma anche il potenziamento di questo principio di unità, selettore ed organizzatore, capace di preservare l'esistenza del sistema e la sua originale irrepetibilità, saranno le caratteristiche che accompagneranno l'azione animatrice.
    Cade perciò ogni concezione che intende misconoscere la reciprocità dello scambio in ogni relazione tra preadolescente e ambiente educativo.
    L'educare non sarà più inteso come comunicazione tra chi sa e chi non sa, tra chi ha da dire qualcosa e che deve stare a sentire; come voler trasferire contenuti da magazzini pieni a magazzini vuoti.
    In questo senso più nessuno educa un altro, ma tutti si educano a vicenda.
    Il preadolescente dunque sollecita continuamente i vari sistemi educativi a riformularsi e ridefinirsi nei suoi confronti. Spesso tuttavia la sua azione riesce appena a disturbare l'equilibrio dei sistemi esterni, non ancora a modificarli in profondità. La comprensione di questa ricca rete di scambi che garantiscono l'evoluzione del sistema-preadolescente, oltre che la sua autoconservazione, permette anche di sottolineare la rilevanza di una pedagogia d'ambiente intesa come attenzione alla globalità dell'azione dei sistemi esterni sul preadolescente e di ricerca delle loro inter- connessioni, e non come illusorio tentativo di ricostruzione di un ambiente ideale incontaminato. Troppa pedagogia d'ambiente è stata ripensata sul modello della «serra».

    Il preadolescente come soggetto non-determinato

    Un ulteriore elemento chiarificatore nella nostra concezione antropologica riferita al preadolescente è l'affermazione del «principio di non-determinazione» per i sistemi definiti aperti.
    Un sistema aperto è indeterminato, e cioè l'esito dell'equilibrio finale dell'energia è imprevedibile.
    E tale intendiamo considerare il preadolescente inserito in un processo educativo, nel senso che anche l'esito finale di un qualsiasi processo educativo non è determinabile, né con calcolo a priori, né tanto meno con l'uso spregiudicato del potere nella prassi educativa, per piegare la realtà delle persone a certe aspettative.
    Il preadolescente si comporta come un sistema la cui azione-reazione ai messaggi provenienti dall'ambiente educativo non è riconducibile ad un processo lineare e deterministico di causa ed effetto. C'è sempre spazio all'imprevedibile, al nuovo, alla sorpresa, all'esito contrario alle attese dell'educatore.
    La possibilità di organizzazione dell'energia e dell'informazione dentro il sistema- uomo è infinita ed ingovernabile da parte di agenti esterni portatori di un ben definito progetto, come sono gli educatori. Un peso rilevante l'avranno sempre gli altri sistemi ambientali che sono in qualche modo portatori di intenzionalità diverse, quando non concorrenti, rispetto a quelle dell'educatore. Ma il ruolo fondamentale, nell'organizzare l'equilibrio interno del sistema, sarà sempre gestito dal soggetto stesso, il preadolescente, che viene pensato come dotato di un principio interno di autoregolazione, che viene a mano a mano elaborando un proprio codice capace di orientare l'organizzazione successiva in forma sempre più complessa e originale.
    Tutto ciò, mentre dice imprevedibilità di ogni esito educativo, è riaffermazione piena della soggettività e della libertà dell'uomo, restituito alla responsabilità delle sue scelte.
    Dice però anche rifiuto di assolutizzazione di ogni intervento, ed è risconoscimento della provvisorietà di ogni eventuale percorso: vie diverse possono di fatto condurre alla stessa meta; procedimenti identici possono ottenere esiti opposti. Non si potrà assolutizzare dunque alcun metodo, né tecnica, né esperienza.

    Il preadolescente e lo scambio attraverso il linguaggio

    L'introduzione del concetto di scambio tra sistemi e di autoregolazione del sistema conduce ad evidenziare una ulteriore coordinata che definisce l'uomo secondo l'animazione: quella del «codice» e della possibilità di realizzare e regolare gli scambi tra diversi sistemi, perciò tra il preadolescente e gli altri, la cultura, la società.
    Lo scambio con l'esterno è possibile al preadolescente grazie all'esistenza di un mondo di segni e simboli che definiscono la cultura dell'ambiente in cui vive, che ne costituiscono come la «grammatica», il codice appunto rappresentato dal linguaggio. Il preadolescente si trova inserito dentro una fitta rete di comunicazione fatta di segni e simboli linguistici, tipici di un determinato ambiente culturale, anche se oggi molto annacquati da un brodo omogeneo che ne fa perdere in gran parte l'originalità, la particolarità, il sapore ed il colore: il mondo linguistico universale dei media, cioè della cultura dei consumi di massa. La crescita del soggetto ed il suo sviluppo risultano perciò legati al progressivo apprendimento del linguaggio e della particolare cultura in cui è radicato, nonostante le pressioni allo sradicamento.
    Linguaggio e cultura rappresentano i mediatori del rapporto del preadolescente con l'ambiente esterno.
    Attraverso l'apprendimento del codice culturale egli può realizzare uno scambio arricchente con i sistemi esterni.
    Attraverso l'assimilazione e la riespressione personale della cultura, egli vive come persona e arricchisce la cultura stessa. Allo stesso tempo, grazie al linguaggio coi suoi segni e simboli, il preadolescente può cominciare a rappresentare e organizzare le esperienze di incontro e di scambio con gli altri, le cose, la natura, i gruppi sociali, e giungere a costruirsi un «mondo» ordinato, che non sia soltanto caos di rappresentazioni sovrapposte e disordinate.
    Così la cultura coi suoi codici diviene per lui come la luce per vedere il mondo, del cui incontro fa esperienza con tutto se stesso.
    Grazie alla cultura, le cose e gli altri «esistono per lui», gli diventano accessibili, fruibili, incontrabili, e tutto acquista senso. Quanto accennato definisce e richiama un compito fondamentale dell'animazione culturale: sostenere ogni preadolescente nel radicamento nella cultura (l'importanza di possederne i linguaggi) e nello sviluppo di una capacità di rielaborazione personale di essa, per non esserne ripetitore soltanto. Solo attraverso di lui infatti la cultura potrà esserci nel futuro.
    Il rapporto del preadolescente con la cultura non è mai un rapporto stabilito o diretto dal singolo. È sempre un rapporto che si realizza all'interno di un ambiente culturale determinato che funziona come un «laboratorio», dove avviene, grazie alle condizioni particolari di «reazione» che vengono a crearsi (un clima), un incontro tra individui che elaborano cultura, e si attua uno scambio fecondo e crescente tra rappresentazioni diverse del mondo e quindi della vita.
    È uno scambio che è regolato e reso possibile dalla capacità di possedere il codice della comunicazione culturale da un lato e di trovare un terreno comune di confronto dall'altro.
    C'è da aggiungere che proprio la comunicazione tra gli individui (e i gruppi), e in massimo modo tra generazioni che vivono una diversa esperienza del mondo, «elabora» e fa crescere la cultura stessa.
    Le nuove generazioni divengono perciò portatrici di nuovi germi di cultura, nella misura in cui realizzano uno scambio con le espressioni della cultura di generazioni passate.
    E questo può, anzi deve avvenire, anche se per ora in maniera fondamentalmente inconsapevole, ma non per questo meno vera, con i preadolescenti di oggi.

    Dalla elaborazione del «centro» al «decentrarsi»

    C'è ancora una coordinata importante da esplicitare.
    S'è detto che anche il sistema-preadolescente viene progressivamente sviluppando un suo «centro» che ne regola lo sviluppo e unifica la molteplicità degli scambi secondo un proprio programma.
    È ciò che rappresenta la garanzia della sussistenza del soggetto, perché non venga frantumato e divorato dalla prevalenza dell'azione dell'ambiente esterno.
    Lo precisiamo. Questo centro è in senso ampio la «coscienza»: un principio che unifica, seleziona, ricuce in unità la pluralità degli scambi, orienta verso alcune direzioni privilegiate l'azione del soggetto.
    Essa non è l'unico principio di regolazione, soprattutto in un primo tempo dello sviluppo della persona.
    Un principio di regolazione «interno», che è attivo ancor prima dell'affiorare della coscienza individuale (collocato più sul biologico, come gli automatismi di sopravvivenza), è presente e si accompagna, nel primo decennio di vita del bambino, alla regolazione dall'esterno, chiaramente consapevole, operata dalle figure che più direttamente si prendono cura del bambino, insieme all'azione regolativa dell'ambiente in generale.
    Sotto la spinta dell'azione educativa, ma non di essa soltanto, viene a svilupparsi progressivamente nel corso dell'infanzia e della fanciullezza, e soprattutto nella preadolescenza, una capacità autonoma di regolazione cosciente. Il soggetto apprende ad orientare consapevolmente i propri scambi e diviene capace di cogliere anche il «significato» delle sue interazioni con mondo.
    Lo sviluppo di questo «centro» raggiunge perciò una tappa importante e fondamentale nella riappropriazione cosciente di sé e del proprio rapporto con il mondo esterno. E una tappa essenziale del processo di umanizzazione della persona; è l'apertura verso la maturità, ma non è per l'animazione il punto definitivo.
    L'animazione, col modello d'uomo che le soggiace, si spinge oltre.
    Una volta sviluppato il «centro» fino alla autoregolazione cosciente, l'uomo è capace di coinvolgersi nella ricerca di un «qualcosa» oltre se stesso. Egli si espande e si organizza fino a giungere ad un progressivo «decentramento» da sé; fino al punto in cui si apre ad una totalità di significato e di senso collocata al di là delle logiche e dei significati rielaborati al suo interno nella vita quotidiana. Una totalità che si caratterizza come «alterità» appunto, e che può essere l'altro, un ideale, un valore, il trascendente.
    A questa totalità, che non coincide più con se stesso e non appare più assimilabile né racchiudibile nel proprio mondo, l'uomo accetta di rapportare il proprio personale mondo di significato.
    Questa realtà lo sbilancia davvero, lo sollecita a ridefinire un proprio equilibrio interno nel quale però «l'alterità» diviene il centro. Il sistema uomo si trova così «decentrato».
    Si viene a creare quella continua tensione tra l'appello al decentramento e la necessità interiore di non smarrire la capacità di conservare un centro in se stesso.
    Una tensione altamente maturativa che spinge l'uomo verso l'ulteriore il mai compiuto.

    NOTE

    [1] Cf Severino De Pieri e Giorgio Tonolo, L'età delle grandi migrazioni in «Scuola Viva» 12 / 1985, pp 25-28.
    [2] Cf la serie de «I quaderni dell'animatore», in particolare Q5 / 6 e Q20; inoltre di Mario Pollo le voci del «Dizionario dell'animazione» in NPG 8-9-10 / 85.


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