Luis A. Gallo
(NPG 02-03-36)
La Costituzione pastorale «Gaudium et Spes» del Vaticano II non fu una semplice aggiunta a quella dogmatica intitolata «Lumen gentium», ma segnò un vero passo avanti nella maturazione della rinnovata coscienza ecclesiale. Essa costituì il punto più alto raggiunto dal processo di trasformazione nel modo di pensare la Chiesa avvenuto nel concilio, un punto di arrivo che non soppresse ma viceversa assunse e portò a maggiore profondità quanto era stato fatto precedentemente.
Un primo passo decisivo
Che fosse necessario un cambiamento profondo nella concezione e nella vita della Chiesa era una convinzione ampiamente diffusa tra i suoi membri a metà del secolo scorso. Giovanni XXIII aveva parlato più di una volta del bisogno di «aprire le finestre» perché «un’aria nuova» entrasse a rinnovare ciò che era ormai invecchiato e perfino logoro. Amava pure usare il paragone dello specchio, nel quale la Chiesa avrebbe dovuto guardarsi per individuare le macchie e le rughe che rendevano brutta la sua faccia, facendola apparire vecchia e sfasata agli occhi del mondo, e rimuoverle in modo tale da potersi presentare ringiovanita davanti ad essi. Lo specchio, naturalmente, doveva essere Colui che l’aveva convocata quasi duemila anni prima, Gesù Cristo. Ma non era solo il papa a sentire il bisogno di tale ringiovanimento; nelle basi ecclesiali tale bisogno era anche ampiamente condiviso.
Da questo bisogno scaturì la convocazione del concilio ecumenico. Come fanno osservare gli storici dell’evento, i suoi primi momenti furono segnati da un certo smarrimento. Si dovette in parte alla mancanza di esperienza conciliare, poiché dal 1870, anno in cui finirono frettolosamente le sessioni del Vaticano I per via dell’insicurezza in cui si trovava lo stato pontificio a causa dell’irruzione degli eserciti italiani, non c’era stato un altro concilio ecumenico, ma fu provocato anche in parte dalla mole di schemi preparati per la discussione, senza che ci fosse un filo conduttore che li unificasse. L’intervento di alcuni autorevoli partecipanti servì a operare tale unificazione. Due domande, enunciate da Giovanni B. Montini, allora arcivescovo di Milano, contribuirono maggiormente a portare a unità la riflessione: «Chiesa, che sei? Chiesa, cosa devi fare?» E, di fatto, il concilio concentrò le sue risorse nel tentativo di dare risposta a tali domande. Il che lo segnò profondamente. Risultò, di conseguenza, un concilio eminentemente ecclesiologico.
Il tentativo fu tuttavia graduale. Si attuò in diverse tappe che andarono fissando dei punti di non ritorno nel cammino verso il rinnovamento. La prima consistette nel superamento della concezione ecclesiologica che veniva tramandandosi da secoli, e che si caratterizzava per una impostazione prevalentemente istituzionale della Chiesa. «La Chiesa è la società dei fedeli cristiani il cui capo è il papa», faceva rispondere il catechismo di S. Pio X alla domanda: «Cos’è la Chiesa?». Una risposta in cui la prima parola, come si vede, è appunto «società». Ciò ubbidiva ad un modo di pensare che si era andato imponendo sin dal secolo IV, quando Costantino decise di dichiarare lecita la presenza dei cristiani nell’impero romano.
Un modo di pensare in cui la dimensione organizzativa e societaria occupava il primo piano nella coscienza ecclesiale, mentre le altre dimensioni più genuinamente evangeliche passavano in secondo piano. Con tutte le conseguenze che ciò comporta nell’ambito dell’esercizio dell’autorità, delle strutture, dei rapporti tra i membri della Chiesa... Non ultima tra esse, la divisione della stessa Chiesa in gerarchia e laicato, la prima dotata del triplice potere di insegnare, santificare e governare, e la seconda vincolata dal dovere di imparare, essere santificata e ubbidire.
Questo modo di pensare e di attuare la Chiesa si prolungò per secoli, sostanzialmente immutato, al di là dei cambi accidentali che lo andarono segnando, e anche consolidando. Sembrava che non dovesse tramontare mai. Eppure, con i profondi cambiamenti verificatisi nella Chiesa stessa e nella società umana nel secolo scorso, esso entrò in crisi.
Una serie di movimenti sviluppatisi all’interno della Chiesa (ritorno alla Bibbia e ai Padri, rinnovamento liturgico, impegno ecumenico e missionario, presa di coscienza del laicato) e nel mondo (tendenza alla personalizzazione e alla socializzazione) costrinsero in qualche modo molti cristiani a pensare la Chiesa in un altro modo. Soprattutto a superare la visione istituzionale e societaria dominante nei secoli anteriori. Il Vaticano II ne prese atto, e decise di abbandonare tale visione per assumerne inizialmente un’altra, di chiaro segno comunionale.
La Costituzione «Lumen gentium» fu infatti elaborata all’insegna della categoria portante della «comunione», e il suo influsso si lasciò sentire negli altri documenti che ad essa si ispirarono. Venne così ricuperata, tra l’altro, quella visione di Chiesa-mistero, tipica dei primi secoli della fede, e perciò anche la sua visione trinitaria, che la pensava modellata sulla eterna comunione divina nella quale il Padre, il Figlio e lo Spirito condividevano da sempre e totalmente la stessa vita divina senza peraltro perdere la propria identità e originalità.
Fu un passo altamente innovatore e pieno di conseguenze sia nell’ordine dei rapporti tra i membri della Chiesa che nell’ordine istituzionale. La sua struttura venne concepita in termini più consoni con il criterio della comunione fraterna, l’autorità venne prospettata in una chiave molto più evangelica, il posto e il ruolo dei cristiani laici fu identificato in maniera più vicina alle esigenze della proposta di Gesù... Ogni componente della comunità ecclesiale venne sottoposto a ripensamento nella nuova chiave scelta.
Un secondo passo impegnativo
Fatto questo primo passo, il Concilio sentì l’esigenza, provocatagli dalla stessa dinamica che aveva assunto, di farne un altro: quello di aprire la comunione alla dimensione di servizio al mondo. In realtà, le riflessioni della «Lumen gentium», così dense e ricche di ispirazione evangelica, erano segnate dal limite di un eccessivo ripiegamento su se stessa. Come disse Paolo VI, questo primo passo fu un «un atto riflesso su se stessa, per conoscersi meglio, per meglio definirsi, e per disporre di conseguenza i suoi sentimenti e i suoi precetti». Ma, aggiunse subito, «questa introspezione non è stata fine a se stessa». Non fu, quindi, un movimento narcisistico, ma solo un primo passo orientato verso un secondo, di estrema importanza alla luce del Vangelo.
Fu effettivamente nella Costituzione «Gaudum et Spes» che tale ripiegamento venne superato. Essa le impresse un dinamismo in certo senso centrifugo e decentratore, che la portò a spostare il centro da se stessa verso l’umanità in quanto tale, movimento tipico del vero amore evangelico.
Lo dichiarò solennemente nel chiudere il suo Proemio:
«Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore, l’opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito» (n. 3d, corsivi nostri).
E Paolo VI, alla vigilia delle sessioni conciliari protrattesi per ben quattro anni, affermava con altrettanta solennità:
«Tutta questa ricchezza dottrinale [del Concilio] è rivolta in un’unica direzione: servire l’uomo. L’uomo, diciamo, in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità. La Chiesa in un certo modo si è dichiarata serva dell’umanità, proprio nel momento in cui maggiore splendore e maggior vigore hanno assunto, mediante la solennità conciliare, sia il suo magistero, sia il suo pastorale governo: l’idea di servizio ha occupato un posto centrale» (corsivi nostri).
Ciò significa che la Chiesa pensò se stessa non già nella linea dei fini, ma in quella dei mezzi. Si riconobbe cioè come posta essenzialmente al servizio della crescita dell’uomo in umanità. Sempre, naturalmente, alla luce del grande progetto di Dio rivelato da Gesù Cristo.
In Lui, che l’aveva convocata, trovava il modello. Lo ricordava il testo del proemio poco sopra citato. Egli, infatti, non era venuto «per essere servito, ma per servire e dare la propria vita per la liberazione di tutti» (Mc 10,45). I vangeli sono unanimi nel proclamare che egli adempì le antiche profezie di Isaia che avevano annunziato la venuta di un Servo di Dio che, mediante i suoi interventi, non privi di sofferenze e perfino culminati nella morte violenta, avrebbe portato a compimento le promesse di Dio in favore del suo popolo e dell’intera umanità.
Tutta la sua attività, centrata sul servizio alla causa del regno di Dio (Mc 1,14-15), fu in concreto un servizio agli uomini e alle donne con cui era a contatto all’insegna di tale causa. La scena giovannea della lavanda dei piedi resta sempre una narrazione simbolica e piena di significato da questo punto di vista. Interpreta in profondità e in maniera lucida il senso profondo di tutta la sua esistenza. Egli fu davvero il Servo di Dio servendo gli uomini. Il suo amore verso Dio si concretizzò nel suo amore fattivo verso di loro, un amore espresso attraverso la sua azione terapeutica verso gli ammalati, i suoi esorcismi liberatori, il perdono dei peccati, il rinnovamento dei rapporti tra persone e gruppi, la ricomposizione del rapporto con Dio...
Come affermò Paolo nella sua lettera ai Romani, «Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso» (Rm 15,1), ma a suo Padre, facendo sempre la sua volontà, che era una volontà di vita e di felicità per tutti senza eccezione. In ciò consistette il suo decentramento che lo rese uomo maturo e realizzato davanti a Dio e, possiamo dirlo con le parole del Simbolo di fede, «della stessa sostanza del Padre», che si definisce come «amore» (1 Gv 4,8.16). Egli portò tanto avanti il suo servizio che non dubitò di consegnare la propria vita per attuarlo completamente. E la sua morte fu precisamente il sigillo più alto della sua disponibilità al bene altrui.
Dietro a lui la Chiesa radunata in concilio si sentì chiamata a porsi totalmente al servizio degli uomini in tutti i loro bisogni e aspirazioni. Non solo quelli spirituali, ma anche quelli materiali; non solo quelli individuali, ma anche quelli sociali. E, data la crescita della coscienza di questi ultimi, con particolare attenzione ad essi. Il fatto che la «Gaudium et Spes» parli così spesso della «famiglia umana», del «genere umano», della «società umana» ne è un chiaro sintomo. Indubbiamente l’accelerato processo di socializzazione in corso la portò a rendersi consapevole che i bisogni sociali dell’umanità attuale richiedono una sollecitudine forse mai prima avuta nei loro riguardi da parte sua. Essa sottolineò spesso che la Chiesa deve cercare di contribuire con tutti i mezzi che ha a disposizione nella costruzione «di quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione» (GS 3c).
In questo modo quella comunione che essa è chiamata a coltivare al suo interno, e che costituisce la chiave di volta della sua vita e della sua organizzazione, costituisce anche l’obiettivo ultimo che è chiamata a perseguire nel suo servizio evangelico al mondo. Fare del mondo un mondo di fratelli veri, perché tutti figli dell’unico Dio: è questo il suo compito fondamentale.
Una Chiesa, quindi, che restasse ripiegata su se stessa, che concentrasse tutte le sue energie nel creare una comunione fraterna al suo interno traducendola anche nelle sue strutture, tradirebbe la sua ragion d’essere. Solo aprendosi a questo servizio evangelico al mondo può essere davvero «ad immagine e somiglianza» di Colui che l’ha convocata.